Copertina
Autore Enzo Mazzi
Titolo Giordano Bruno
SottotitoloAttualità di un'eresia
Edizionemanifestolibri, Roma, 2009 [2000], Incisioni , pag. 96, cop.fle., dim. 14,5x21x0,7 cm , Isbn 978-88-7285-511-9
PrefazioneGiovanni Franzoni
LettoreElisabetta Cavalli, 2010
Classe filosofia , religione , storia criminale , biografie
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Prefazione. Il vincolo dell'amore        9
di Giovanni Franzoni

La storia siamo noi                     15

La paura                                23

Il mondo che muore                      27

Il mondo che nasce                      33

L'esodo                                 37

L'uomo                                  43

La natura                               53

Dio                                     65

La chiesa e la società                  77

Cronologia                              89



 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

La storia siamo noi



Il rogo di Giordano Bruno, che assumo come emblema dei roghi di altri eretici di quel tempo e delle streghe, e il rogo atomico, che ci sovrasta e ci domina e condisce la nostra inconsapevole quotidianità e informa il nuovo «ordine» mondiale, sono connessi? La domanda può sembrare eccessiva e ardua. Ritengo però che fra le due vicende storiche ci sia una stretta relazione di causalità. La modernità che nei secoli XV-XVI nasceva fu segnata dal ricatto della violenza, marchiata col rosso colore del sangue e del fuoco. Furono incenerite con inaudita e, per noi oggi, mostruosa violenza le utopie, le esperienze e le voci che avrebbero potuto dare alla transizione e in particolare all'umanesimo rinascimentale uno sviluppo diverso e aprire alla modernità orizzonti se non di pace almeno di attenuazione della distruttività. Ed oggi siamo qui alle prese con gli esiti di una simile castrazione, affaticati dalla ricerca di un bandolo che dia senso all'itinerario della speranza. Reputo un errore considerare la vicenda, l'esperienza e il rogo di Giordano Bruno come cose di un lontano passato senza attinenza col presente.

Una studiosa di storia, Anna Foa, documenta in un recente libro, Giordano Bruno (il Mulino, Bologna 1998), il processo di interpretazione storica del filosofo di Nola, dal rogo ad oggi, processo animato e condizionato costantemente, «naturalmente» ella dice, «dalle domande del presente». Non esiste una storia disincarnata. C'è differenza e talvolta contrapposizione fra una interpretazione ideologica che manipola i documenti per dimostrare una tesi precostituita e una interpretazione che invece tenta di essere fedele al massimo alla documentazione; ma in ogni caso, lo storico, anche il più obbiettivo, guarda al passato con gli occhi del presente e ponendo le domande del presente. Vale per tutti insomma il titolo di una nota canzone impegnata: «La storia siamo noi».

Merita seguire, seppur criticamente e con riscontri e integrazioni, l'itinerario storico offerto da Anna Foa. Nel '600, a rogo ancora scottante, i novatori, filosofi e scienziati, sono indotti a prendere le distanze dall'eretico. Alle nuove teorie non serve l'accentuazione del contrasto col potere ecclesiastico. Soprattutto però è il rigore logico-matematico del metodo filosofico-scientifico che ha bisogno di liberarsi totalmente ormai da un rapporto con la natura venato di magia. Keplero, Galileo, Gassendi, Cartesio o tentano di ignorare lo scomodo Bruno o di accentuare ciò che da lui li differenzia. E insieme al filosofo si ignora, per gli stessi motivi, lo sterminio delle streghe. La nuova scienza e la nuova filosofia nascono per lo più senza memoria. Non è complicità con l'azzeramento storico tentato dall'incenerimento operato dai roghi, ma certo tale annullamento fa loro comodo. Si giunge così alla censura storica operata dall'illuminismo francese. Afferma Christian Bartholméss, uno studioso ottocentesco di Bruno, nel suo Giordano Bruno citato da Anna Foa: «Non è né da Platone né da Aristotele che gli 'illuministi' datavano la filosofia, ma da Hobbes, da Gassendi e Newton. I filosofi del Rinascimento furono dunque cancellati dagli annali della filosofia. Dove regnava Bacone, Bruno contava pochi amici».

L'interesse per il filosofo-mago rinasce alla grande in Germania ad opera del romanticismo e soprattutto in Italia a metà dell'Ottocento. La «domanda del presente», cioè l'interesse vitale che si pone agli intellettuali impegnati a costruire l'Italia unita è di ricomporre un'identità culturale italiana. Di qui la riscoperta del Rinascimento come apripista del pensiero moderno europeo. Su tale linea, ma con maggior rigore, si apre il '900 con la ricerca di Croce e di Gentile. Per loro, ma specialmente per quest'ultimo, interessato a diffondere il suo attualismo dello Spirito, il Rinascimento, a cominciare dal Petrarca per giungere al Vico, è il vero inizio della nuova epoca e, nel Rinascimento, primeggia proprio Bruno, anzi egli, per certi aspetti considerati di più marcata modernità, viene visto come staccato dagli altri pensatori rinascimentali.

L'atteggiamento del cosiddetto mondo cattolico, del potere ecclesiastico, dei suoi pensatori, delle articolazioni culturali, sociali e popolari cattoliche, resta per tutti questi secoli, che io sappia fino ad oggi, perfettamente coerente con le ragioni del rogo, con la condanna totale e con l'annullamento di Bruno. Sono rari i tentativi di apertura. Fra questi, quello di Francesco Olgiati che negli anni trenta del '900, pur dentro la consueta cornice di giustificazione della condanna dell'eretico, tenta una qualche positiva valutazione della sua filosofia. Per il resto del mondo ecclesiastico Bruno quasi non esiste. C'è stato perfino un lungo periodo storico nel quale si è arrivati addirittura a mettere in dubbio la storicità dello stesso rogo. È emblematico quanto avvenne nel giugno 1889 in occasione della erezione del monumento a Bruno in Campo dei Fiori a Roma. Fu uno scontro frontale fra clericalismo ed anticlericalismo. Per la verità l'iniziativa del monumento non era solo del mondo anticlericale. Era addirittura patrocinata da un Comitato internazionale composto da grandi personalità rappresentative della varietà del mondo culturale e politico europeo e italiano: da Ernest Renan a Victor Hugo a Herbert Spencer, da Minghetti a Silvio Spaventa. Sembra che sia stata la sdegnata opposizione del potere ecclesiastico e la contrapposta ostinazione dei promotori a trasformare l'iniziativa in una vera e propria rissa. Nel gennaio 1888 ci furono manifestazioni pro monumento degli studenti romani represse dalla polizia con scontri e arresti. Fu perfino chiusa per qualche tempo l'Università di Roma. Sulla decisione di concedere lo spazio per il monumento in Campo dei Fiori si consumò addirittura una crisi e un ribaltamento di maggioranza del Consiglio comunale di Roma. Nel maggio 1888 era stata presa la decisione di negare lo spazio, sostenuta da una mozione del partito conservatore sostanzialmente clericale, l'Unione romana, che aveva la maggioranza. Ma si era già in campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio. La questione del monumento fu decisiva perché i liberali ottenessero una netta vittoria nelle elezioni del giugno. La gente dunque voleva in maggioranza questo segno di liberazione dal dominio ecclesiastico. Nel dicembre il nuovo Consiglio comunale a maggioranza liberale concesse Campo dei Fiori. Anche il capo del governo, Crispi, sostenne l'iniziativa. Il 9 giugno 1889, quando il monumento fu inaugurato con la partecipazione di una grande folla, cinquemila persone per i giornali cattolici, ventimila per i promotori, Leone XIII, il papa della Rerum novarum e della svolta sociale, rinunciando a lasciare Roma, come in realtà aveva minacciato, rimase tutto il giorno in digiuno e in raccoglimento davanti alla statua di S. Pietro, quasi a proteggerla di fronte agli attacchi dell'ateismo eretto a simbolo. Quindi il 30 giugno pronunciò una solenne allocuzione di condanna e di protesta per l'oltraggio subito in cui vedeva come condensata la «lotta ad oltranza contro la religione cattolica» da parte di un mondo moderno ostile alla Chiesa e a Dio e invitava la cattolicità internazionale a stringersi intorno alla cattedra di Pietro. Quanto a Bruno, l'allocuzione papale confermava in pieno la giustezza della condanna e del rogo: «non possedeva un sapere scientifico rilevante» mentre aveva avuto «stravaganze di debolezza e corruzione»; era decisamente eretico ma soprattutto una nullità storica. Finché, nel mondo cattolico, si giunge, negli anni quaranta, allo scoop di mons. Angelo Mercati, bibliotecario della Biblioteca Vaticana, il quale il 15 novembre 1940 «ritrova» un importante documento che era sparito e cioè il Sommario ufficiale delle accuse rivolte a Bruno dal Tribunale del Sant'Uffizio. Lo rinviene nell'archivio personale di Pio IX. Lì era stato nascosto da mani ignote che lo avevano trafugato dall'Archivio Segreto Vaticano. Mercati pubblica il Sommario del processo di Giordano Bruno con l'intento di dimostrare che le accuse rivolte dal Tribunale dell'Inquisizione non erano affatto di carattere scientifico ma quasi esclusivamente teologico e morale e quindi pienamente legittime. «La Chiesa – scrive íl Mercati in polemica con gli studiosi laici e in particolare con Gentile – poteva, doveva intervenire e intervenne; i documenti del processo dimostrano la legalità di esso e l'onestà con cui venne condotto. Che se c'è da registrare una condanna, la ragione di essa va cercata non nei giudici, ma nell'imputato». La richiesta di perdono in occasione del Giubileo 2000 è un cambiamento importante dell'atteggiamento del potere ecclesiastico. Non smentisce però il Mercati. Riguarda infatti quasi solo gli eccessi della repressione. Il processo e la condanna furono legittimi; peccaminosi e bisognosi di perdono furono gli aspetti di violenza: le detenzioni, le torture, il rogo.

Questa è la posizione assai monolitica del «mondo ecclesiastico». La Chiesa, che è il Popolo di Dio, ha invece al suo interno una articolazione e diversificazione di posizioni che vanno dalla ricerca di comprensione profonda condotta dal teologo tedesco, psicanalista e saggista, Eugen Drewermann, autore del libro Giordano Bruno, lo specchio dell'infinito, (Kosel-Verlag, München 1992 – Rizzoli, Milano 1994), all'impegno fattivo di Giovanni Franzoni, monaco benedettino e saggista, anche lui colpito duramente dal potere ecclesiastico quando era abate nella basilica romana di S. Paolo fuori le mura, il quale insieme ad altri di diverse religioni e laici ha fondato una associazione, «Campo dei fiori», per favorire una serie di iniziative non celebrative in occasione del IV centenario del rogo.

La conclusione che mi sembra di poter trarre da questa sommaria sintesi della storia della interpretazione di Bruno è che ognuno, anche lo storico più rigoroso, è spinto e condizionato dalle «domande del presente».

Ha legittimità dunque e dignità e utilità, per la vita e per il cammino di autenticità degli uomini e delle donne di oggi, penetrare nella memoria delle straordinarie idee ed esperienze di un uomo considerato uno dei più controversi filosofi dell'Europa moderna. Egli non è buono solo come oggetto di anatomia culturale per specialisti: storici, filosofi, teologi, apologeti o detrattori del potere che ha acceso il rogo, clericali e anticlericali, studiosi fissati sul passato, malati di necrofilia culturale. Può avere diritto di avvicinare Bruno l'abitante del crocicchio, della strada e della piazza.

Il Rinascimento è caratterizzato, pur fra numerose contraddizioni, da uno straordinario intreccio fra filosofia, scienza, poesia, arte. I maestri rinascimentali erano poeti e artisti e í poeti erano maestri. Questa è la novità della cultura rinascimentale rispetto alla scolastica medioevale, divenuta ormai noiosa e mortifera.

«La vera filosofia è musica, poesia o pittura; la vera pittura è poesia, musica, filosofia; la vera poesia o musica è sapienza divina e pittura», scrive il filosofo, poeta, «sapiente divino-mago», maestro Giordano Bruno (Opere latine citato da F.A. Yates in Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari 1998).

Oggi, in questo passaggio d'epoca, sentiamo il bisogno di tornare a quella straordinaria esperienza e lo sentono soprattutto i giovani: per esempio quelli che affollano le singolari ricostruzioni storiche di Dario Fo o che restano appesi per ore alla forza evocativa della «orazione civile» di Marco Paolini mentre recita i suoi «train de vie» o ancora quelli che si appassionano alla lettura di Le domande della vita scritto da Fernando Savater proprio per liberare la filosofia e la storia dall'inaccessibile sancta sanctorum dello specialismo e restituirle al fluire della vita. Sono esperienze dotate di alto valore e notorietà. Tante altre ce ne sono, più modeste e meno conosciute. La Comunità dell'Isolotto di Firenze, ad esempio, da anni conduce una esperienza di trasmissione della memoria anch'essa esemplare: i «racconti di vita» di gruppi di «nonni», opportunamente animati, coinvolgono e appassionano intere scolaresche ed offrono materiali e spunti e motivazioni forti ai giovani per lo studio della storia.

Sono quegli stessi giovani che invece si annoiano tremendamente in quel vero e proprio mattatoio del senso vitale della storia e della scienza che sono, non sempre e ovunque ma forse sempre più spesso, le nostre aule scolastiche di ogni ordine e grado e di ogni colorazione, statali o private.

Dí fronte alla pregnante e intrigante lezione di storia di persone «vive», artisti o maestri di vita, appare in tutta la sua miseria una riforma della scuola che fosse giocata solo sul filo delle regolamentazioni, del tecnicismo, della parità competitiva fra becchini delle motivazioni ideali e vitali.

Perché la memoria storica non è ricordo cimiteriale: è vita in divenire. Ai giovani purtroppo si dà normalmente, fin da piccoli, un concetto statico e disarticolato della storia e della scienza. La storia e la scienza come vita, come processo, come memoria generativa sono per lo più negate ai giovani. Non che le due cose, i fatti e i processi, i personaggi e le relazioni, le necropoli e le culture vive, la memoria codificata e la memoria vitale, siano da separare. È la nostra cultura storica, la cultura dominante, che per precisi motivi di potere le separa e, così disarticolate, le consegna alle giovani generazioni. Non c'è da meravigliarsi allora che i giovani rifiutino le radici e le fonti e si gettino nell'illusione vitalistica offerta a piene mani dal mercato. Ed è proprio questo esito distruttivo che si persegue dai poteri che dominano il mondo: vogliono automi, produttori/consumatori, senza memoria e senza futuro.

La memoria storica cacciata dalla porta rientra però dalla finestra. Popola le fantasie creative e i sogni e finisce per incontrarsi con le proposte, creative e anomale, di educatori come quelli che in alcune scuole di Firenze hanno animato il «Progetto Bruno» e realizzato lo spettacolo «Campo di Fiori».

Osiamo dunque avvicinarci quasi in punta di piedi alla esperienza bruniana, lasciandoci ispirare dal bisogno mai soddisfatto di livelli sempre più alti di autenticità di vita, utilizzando la ricerca specialistica come mappa di orientamento ma non come approdo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 33

Il mondo che nasce



La paura degli inquisitori era davvero grande, più grande di quella del condannato. Anche lui però ammette con la sua frase citata all'inizio di avere paura: minore ma non meno reale. Quale paura?

Giordano Bruno sembra che non avesse paura della morte. Più volte nei suoi scritti e nei suoi discorsi si dice pronto a morire.

Nel De Monade egli scrive: «E noi, per quanto ci troviamo in situazioni inique... tuttavia serbiamo il nostro invincibile proposito... tanto da non temere la morte stessa».

Nel De gl'heroici furori fa propri i versi di Tansillo: «Ch'io cadrò morto a terra, ben m'accorgo, ma quale vita pareggia al morir mio?».

Nel De l'infinito, scrive il seguente sonetto:

    E chi m'impenna, e chi mi scalda il core?
    Chi non mi fa temer fortuna o morte?
    Chi le catene ruppe e quelle porte,
    onde rari son sciolti ed escon fore?
    ...
    Quindi l'ale sicure a l'aria porgo.
    Né temo intoppo di cristallo o vetro;
    Ma fendo i cieli, e a l'infinito m'ergo.

Nel De Monade si esprime attraverso la parola attribuita a un gallo che è stato vinto e muore:

    Ho lottato; ed è già tanto;
    ho creduto di poter vincere...
    invece la natura e la sorte
    hanno represso l'impegno e lo sforzo
    ...
    Tuttavia ho fatto quel che potevo:
    non aver temuto la morte,
    non aver ceduto a nessun mio simile,
    aver anteposto una morte coraggiosa
    a una vita imbelle.

Infine c'è la testimonianza di una cronaca del tempo, un Avviso di Roma del 19 febbraio 1600, che dice:

Giovedì matina in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato frate domenichino da Nola... et diceva che moriva martire et volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso. Ma hora egli se ne avede se diceva la verità.

Se almeno a parole non aveva paura della morte, di che aveva paura?

Merita affidarsi a una bellissima pagina de Il processo... di Luigi Firpo, già citato:

L'atteggiamento del Bruno nel corso del 1599 si illumina così d'una piena coerenza: non quella monolitica del diniego costante, ma quella umana e viva della lunga ed alterna disputa coi giudici e più con se stesso. Non folle ostinazione, non petulanza di grafomane si rivela nel suo comportamento, ma volontà ferma di non lasciarsi soffocare, ansia di farsi comprendere, parabola dolorosa dalla speranza, allo stupore, alla disperazione (i corsivi sono miei).

Ritengo che Firpo abbia visto giusto. Giordano Bruno forse lottava con se stesso, aveva in qualche modo paura delle sue smisurate intuizioni e degli infiniti orizzonti che intravedeva e che tentava di descrivere spesso senza riuscire a farsi intendere; aveva forse paura di questo infinito universo che liberava sì l'uomo dalla paura di Dio ma lo proiettava in una immensità che metteva le vertigini; lo terrorizzava non l'essere messo a morte ma il fatto che l'uomo che egli poneva così in alto, quasi al posto di Dio, fosse ancora e sempre capace di uccidere un altro uomo a causa delle proprie idee; lo disperava non tanto la sconfitta in sé, quanto l'incapacità sua di incidere su una Chiesa che egli avrebbe voluto riformare ma che infine risultava irreformabile.

Giordano Bruno ha lottato prima di tutto con se stesso: può essere questa una chiave di lettura non solo legittima ma autentica di tutta la vita di lui e soprattutto del processo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 39

La dualità che tende alla fusione mai appagata degli opposti è per Bruno l'essenza stessa dell'universo. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento della logica aristotelica secondo la quale la verità è una e unica e fuori dalla verità c'è solo l'errore. Il filosofo di Nola ha capito che lì, in quel semplicissimo principio di identità e di non contraddizione che da Aristotele era passato alla scolastica, si annidava il veleno che impediva agli opposti di realizzare nella storia la fusione creativa. Da quel principio venivano l'intolleranza religiosa, le guerre di religione, la opposizione insanabile della teologia contro la filosofia, il contrasto fra fede e scienza. Da quello stesso principio derivavano la separatezza fra uomo-dio-natura, la opposizione inconciliabile fra vita e morte e fra corpo e anima, la tendenza a concepire l'infinito come un oggetto, cioè come dio «ozioso», separato dalla natura finita, e l'impossibilità di vederlo invece come infinito-indefinito, infinitamente aperto, «infinito di infinito», magicamente ricco di sempre nuove sorprese. Era dal principio di identità che grondava tanto sangue perché ogni fede pretendeva ad ogni costo di essere lei l'unica vera. E quella tendenza ad assolutizzare la verità, a renderla esclusiva, chiusa in una logica dogmatica senz'anima e senza speranza, soffocante e mortifera, incapace di puntare alla fusione degli opposti, era un pericolo in cui rischiava di incorrere anche la nuova visione del mondo che stava nascendo. Se il dogmatismo delle teologie, delle religioni, delle sette, fosse stato sostituito dal dogmatismo della scienza, non ci sarebbe stato più posto né per l'uomo né per Dio.

Cosa vuoi dire, ad esempio, quando scrive nel De la causa... «Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto dell'unione» e nel De l'infinito «Li contrari son ne li contrari»? Non intende forse che la dualità è nel profondo di ogni cosa, che tutto è duplice, che portiamo in noi stessi anche l'altro, che oltrepassata la dualità in un punto di fusione il processo di sdoppiamento ricomincia senza sosta, magicamente, all'infinito? Anassagora, l'antico sapiente, porta in sé Copernico e Copernico, il nuovo scienziato, ha in sé Anassagora. Se i due non oltrepassano continuamente e infinitamente le rispettive identità restano prigionieri di se stessi: Anassagora di Anassagora e Copernico di Copernico. Su una tale intuizione originale e creativa s'innesta, mi pare, tutta la riflessione e la maturazione progressiva di Bruno, il suo esodo.

Ad esempio, la riflessione sulla dualità dell'universo nei Dialoghi italiani che lo porta a vedere una essenza infinita e perciò immobile ma al tempo stesso in continua trasformazione quanto alle forme, le quali sono infinite e infinitamente perseguibili.

Io dico che l'universo è infinito, perché non ha margine, termino né superficie; dico l'universo non essere totalmente infinito, perché ciascuna parte che di quello possiamo prendere è finita, e de' mondi innumerabili che contiene, ciascuno è finito (dialogo primo in De l'infinito universo e mondi).

È dunque l'universo uno, infinito, immobile... Dunque l'individuo non è differente dal divino, il simplicissimo dall'infinito, il massimo dal minimo. Se il punto non differisce dal corpo, il centro dalla circonferenza, il finito dall'infinito, il massimo dal minimo, possiamo affirmare che l'universo è tutto centro o che il centro dell'universo è per tutto... dunque l'infinito è tutto quello che può essere, è immobile; perché in lui tutto è indifferente, è uno... Ma mi direste: perché dunque le cose si cangiano, la materia particulare si forza ad altre forme? Vi rispondo che non è mutazione che cerca ad altro essere, ma altro modo di essere: di queste, ciascuna ha tutto l'essere, ma non tutti i modi di essere (dialogo quinto in De la causa, principio et Uno).

Lo stesso vale per la varietà delle religioni, per cui non c'è una religione vera in assoluto ma ognuna richiama l'altra, ognuna è in qualche modo vera purché tenda al superamento di se stessa. Si potrebbe continuare con le esemplificazioni mostrando come la riflessione bruniana si sviluppi e maturi progressivamente in una caparbia sostanziale fedeltà alla intuizione di fondo.

Se non si tiene costantemente presente ciò, si rischia di fraintenderlo inciampando di continuo nelle complesse asprezze del discorso e dei vari codici letterari che egli usa.

È come su un filo teso ad altezze vertiginose che Bruno compie l'itinerario intellettuale ed esistenziale.

«Colui che vede in se stesso tutte le cose è al tempo stesso tutte le cose».

In questo bisogno di fusione cosmica, espresso nell'ultima delle sue opere, il De imaginum compositione, del 1591, scritta poco prima di essere arrestato, egli sintetizza mi sembra il senso profondo della sua vita. Il suo personale oltrepassamento verso «l'alterità» resta incompiuto e immediatamente servirà solo a ingrossare il fiume del sangue versato sull'altare del principio di identità assoluta ed esclusiva. Dopo quattrocento anni, perplessi se non angosciati di fronte al dominio spesso violento di una tecnica senz'anima fondata drasticamente sul principio di identità e non-contraddizione, di fronte a chiese e religioni che predicano l'amore e denunciano l'ingiustizia ma in modo moralistico, senza mettere in causa la propria identità e la verità esclusiva e assoluta del proprio dio e dei propri dogmi, noi siamo ancora qui a interrogarci come fermare il fiume del sangue.

| << |  <  |