Copertina
Autore Enzo Mazzi
Titolo Cristianesimo ribelle
Edizionemanifestolibri, Roma, 2008, Incisioni , pag. 192, cop.fle., dim. 14,5x21x1,3 cm , Isbn 978-88-7285-537-9
LettoreLuca Vita, 2009
Classe religione , storia contemporanea d'Italia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


INTRODUZIONE                                             7
La gestazione planetaria della speranza


PARTE PRIMA
    Guarire il profondo                                 13

    I segni di questo tempo                             15
    Miriam e la scoperta del non essere                 21
    Alla morte tutto è morto?                           25
    C'è qualcuno là fuori?                              33

PARTE SECONDA
Tappe dell'esodo storico dall'angoscia della finitezza  37

    La forza dell'esodo                                 39
    Gilgames                                            45
    Adamo ed Eva                                        53
    Analogie e connessione fra l'Epopea di Gilgames
        e la Bibbia                                     59
    Prometeo                                            67
    Pandora                                             73
    La cultura sacrificale                              77
    Modernità e sacrificio                              87

PARTE TERZA
Orme — uno sguardo su brani della propria esistenza
       fuori dalla nebbia del sacrificio                91

    L'assenza                                           93
    Le mani vuote                                       97
    La profondità misteriosa dell'essere               101
    La rottura dell'uovo                               107
    Il distacco                                        113
    Pinocchio e il luogo del nulla                     119
    Non sapere mai cosa si è                           123
    Il balzo nel vuoto                                 129
    La rivincita della cultura del "tutto"             135
    Dalla paura alla speranza                          141
    I segni dei tempi                                  145
    L'arcobaleno                                       151
    L'Eucaristia e la fame nel mondo                   157
    La scommessa                                       163
    "Oltre"                                            170

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Introduzione
La gestazione planetaria della speranza



Le riflessioni contenute in questo libro sono dovute a una ricca socializzazione comunitaria e hanno la loro radice nell'anima profonda del '68, che a mio parere è tuttora vitale e generativa. Sono molti i '68. È gravemente scorretto e rozzamente superficiale ridurre, come fa molta parte della cultura storiografica dominante, un imponente processo storico di trasformazione globale della società alla rivolta studentesca, considerata una folata velleitaria, contraddittoria e violenta, un conato o al massimo un sogno giovanile, senza passato e senza futuro. C'è ovviamente il '68 degli studenti. Ma c'è anche il '68 del movimento operaio, che inizia in quell'anno con lotte significative per esplodere l'anno successivo, e c'è il '68 della psichiatria e della medicina alternativa, della magistratura, del mondo della scuola, del movimento femminista, del movimento conciliare nella Chiesa, perfino di un certo fermento democratico dentro la polizia. Tant'è vero che quando si tirano le somme della repressione giudiziaria del movimento complessivo del '68-'69, si trovano accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc. (cfr. 14.000 denunce, chi, dove, come, quando, perché, a cura di L. Borgomeo e A. Forbice, ed. Stasind, Roma 1970). La domanda che sorge è la seguente: c'è qualcosa che accomuna i molti '68, un ethos, una spinta profonda, un orizzonte di senso?

Nel '68, ho fatto anch'io molte scoperte, sostenuto dalle relazioni comunitarie (cito da: Comunità dell'Isolotto, Il mio '68, Centrolibro, Firenze 2000); ma una mi sembra che possa in qualche modo racchiudere tutte le altre: la gestazione planetaria della speranza. La speranza è perennemente in gestazione, ma la sua manifestazione nella storia è apparsa finora in forma episodica e settoriale. Nel '68 invece ci siamo trovati davanti a un fenomeno planetario e globale, una specie di eruzione vulcanica che esplodeva da una miriade di camini in ogni angolo del pianeta, coinvolgeva tutti i settori della società e portava in superficie dall'anima profonda dell'umanità un magma incandescente ricchissimo di elementi creativi, capace di produrre un balzo in avanti della evoluzione culturale della specie. Si tratta di un punto di vista relativo. Non pretendo di assolutizzarlo. Ho detto e sono convinto che il '68 è molti sessantotto. Non intendo contraddirmi.

C'è chi non vede affatto questo balzo in avanti. Magari perché non crede che la storia abbia una dimensione evolutiva dotata di senso. Io invece il balzo l'ho visto e lo vedo operante tutt'ora, nonostante la restaurazione. Questo non significa che non mi ponga interrogativi. Potrebbe essere il '68 non un salto evolutivo ma una ennesima ripetizione, un ritorno ciclico della dialettica fra dominio e liberazione, fra paura e speranza, fra potere e amore? Non si può negare che in quell'anno fatale sia emerso il paradigma di sempre, che ha attraversato i millenni: il confronto insanabile fra la liberazione perennemente in divenire dell'amore universale, amore per la vita nella sua dimensione essenziale di finitezza, amore per tutti i viventi nella loro fragilità esistenziale, e il dominio della paura, della violenza, del patto con la morte. Tutto qui? Ma questo sarebbe il trionfo dell'inevitabile, del così è e così sia per tutti i secoli dei secoli, che è l'opposto della speranza. Niente di nuovo sotto il sole? E la nuova lingua universale e unificante della speranza che vedevamo sbocciare in ogni angolo del mondo poteva non essere affatto un balzo in avanti dell'evoluzione umana ma piuttosto un passo di danza in un girotondo senza fine? E l'avanzamento della liberazione dall'angoscia per la finitezza dell'esistenza e il bisogno di felicità non illusoria che s'intravvedeva al fondo degli obiettivi di lotta sarebbe stato un sogno senza storia e senza futuro? E pura ripetizione di una genesi storica altalenante sarebbe stato quella specie di parto a cui partecipavo, quel passaggio generativo dal "seno materno" costituito da istituzioni, ideologie, confini, patrie, chiese, abitudini, a un mondo nuovo senza contorni, magmatico, appena intravisto da occhi incerti ancora incapaci di distinguere il vuoto dal pieno?

Domande inquietanti e pungenti che restarono sospese nel pieno di quell'anno cruciale e che restano sospese tutt'ora dopo quarant'anni. Quando dico che vedo il '68 come un balzo evolutivo della specie non dico che ho risolto quegli interrogativi ma solo che li sto elaborando all'interno di reti di relazioni intense. E lo faccio non teoricamente, quanto piuttosto analizzando fatti concreti di vita.

Le esperienze di cambiamento dal basso, che da anni stavamo portando avanti nel nostro piccolo spazio vitale, le scoprivamo condivise inconsapevolmente da realtà sociali diffuse in tutto il mondo. Nei mesi a cavallo fra il '68 e il '69 la vicenda vissuta dalla Comunità dell'Isolotto ebbe risonanza mondiale. La piazza dell'Isolotto divenne un crocevia internazionale. Potemmo comunicare col mondo. Ed avemmo la consapevolezza che a livello universale stava nascendo una società basata su valori nuovi e al tempo stesso antichi: pace, solidarietà, primato della coscienza, dissenso creativo, diritti umani e sociali come diritti di tutti e di ognuno/a, centralità delle relazioni: "il sabato per l'uomo e non l'uomo per il sabato", comunitarietà oltre i confini. L'utopia che da sempre aveva animato i sogni di "uomini e donne di buona volontà" si stava rivelando ormai come la più autentica razionalità e si incarnava in mille e mille percorsi di ricerca positiva diffusi in tutti gli angoli della terra. Finora era sembrato che fosse la paura a tenere unito il mondo sotto la cupola di fuoco della bomba. Ora invece vedevamo che la grande forza unificante a livello finalmente planetario era la speranza. Si rivelò per noi come l'ecografia di una gestazione.

E vennero le doglie del parto. Fu la conferma, se ce n'era bisogno, che la gestazione planetaria e globale della speranza era incombente. Il sistema mondiale del dominio si sentì scosso dalle fondamenta e scatenò il conflitto. Perché la speranza è la grande nemica del potere. Il quale si nutre di disperazione, paura, rassegnazione e sottomissione. Come la speranza nuova prendeva forma a livello mondiale, così anche la strategia per pianificare l'aborto fu globale. Dietro la maschera dell'anticomunismo e con la scusa del confronto apocalittico fra i due grandi sistemi di dominio, fu messa in atto la strategia delle "guerre di bassa intensità", per uccidere la speranza e riportare sul trono l'inevitabile. E in Italia venne la repressione spietata ed esplosero le bombe in una sequenza tragica di stragi. E la strategia della tensione generò o comunque alimentò il terrorismo come propria immagine speculare. L'aborto sembrò cosa fatta.

Anche nella Chiesa il conflitto fu inevitabile. E risultò tremendo e tragico. Perché la gestazione della speranza si configurava come vera e propria rivoluzione del sistema ecclesiastico del sacro travasato dal medioevo nell'età moderna. Era stato il Concilio che aveva dato voce e forza a tale rivoluzione. I documenti conciliari infatti avevano sancito un germe di trasformazione radicale definito da un grande teologo conciliare, Marie-Dominique Chenu, "Rivoluzione copernicana della Chiesa", in quanto poneva al centro non più la gerarchia ma il "Popolo di Dio". Lì, in quel germe appena enunciato, si può individuare il succo stesso del Concilio. Non che i ministeri scomparissero. Solo che riacquistavano la loro funzione di servizio in una Chiesa vissuta come "comunità di comunità in cammino", fondata sul protagonismo, la dignità e i diritti delle persone e della loro fede, a cominciare dagli ultimi. Quando tale "rivoluzione copernicana" dall'enunciazione di principio nei documenti ufficiali fu trasferita nella pratica di vita ecclesiale dal proliferare di una quantità di esperienze di base, fece paura e fu osteggiata da un intreccio perverso, composto da massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia: quel medesimo intreccio che in Italia tentò di bloccare il processo democratico complessivo, ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore. Non sembri un'esagerazione. Quello che ho chiamato "intreccio perverso" esisteva realmente. È illuminante la valutazione dei giudici istruttori della strage di Bologna, Vito Zincani e Sergio Castaldo, contenuta nella sentenza-ordinanza del 1.6.1986:

"Si può legittimamente trarre la conclusione che si era costituito in Italia un potere invisibile il quale, essendo collegato al tempo stesso alla criminalità organizzata e al terrorismo, ad ambienti politico-militari, a settori dei servizi segreti, alla massoneria, e muovendosi contemporaneamente su questi piani, ha potuto conseguire una capacità di controllo incredibile sui meccanismi istituzionali fino a divenire un vero e proprio Stato nello Stato".

L'esistenza di questo potere invisibile, che sopra ho chiamato "intreccio perverso", l'abbiamo toccata con mano. Le prove sono molte. Ne riporto succintamente solo una che nella terza parte descriverò in modo più esteso. A un certo punto, nel gennaio 1969, qualche mese prima della strage di piazza Fontana, la chiesa dell'Isolotto fu invasa da una delle prime squadre neo-fasciste che armate di spranghe, catene e bastoni, cacciarono le migliaia di persone che costituivano la comunità parrocchiale decisa a resistere pacificamente alla repressione. E una magistratura compiacente ignorò la violenza fascista e perseguì le vittime della provocazione incriminando e processando quasi mille persone della Comunità dell'Isolotto, totalmente innocenti, che dopo qualche anno saranno infatti pienamente assolte.

La genesi delle altre centinaia di comunità cristiane di base italiane trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell'intreccio perverso di cui abbiamo parlato sopra. Il quale usò come manovalanza le squadre neofasciste al Nord e la mafia al Sud per attuare azioni e provocazioni violente analoghe a quelle avvenute nella chiesa dell'Isolotto.

Successe anche nella Chiesa ciò che avveniva nell'insieme della società. Ovunque in occidente e specialmente in America Latina si usò la violenza stragista fino a rasentare in qualche paese il genocidio, per bloccare il movimento di crescita complessiva della società, culturale, religiosa e politica. A dire queste cose sembra di rimasticare romanzi dell'orrido. In realtà una tale valutazione storica che a noi sembra inequivocabile è completamente ignorata dalla storiografia dominante. Non bisogna quindi stancarsi di riproporla.

L'aborto, dunque, cosa fatta? L'uomo planetario" soffocato nel seno della gestante? E perfino la memoria devitalizzata con la riduzione del '68 a roba da archeologia? Non è proprio questo il messaggio distruttivo che viene trasmesso ai giovani?

L'obiettivo conseguito dalla strategia repressiva è stato quello di aver annebbiato la fiducia nella visione della esistenza personale e della storia come tracciato non sempre lineare ma dotato di senso, passo dopo passo: dalla schiavitù al riscatto, dalla oppressione alla liberazione, dalla alienazione alla responsabilità, dalla sacralità come dominio esterno alla sacralità intrinseca al tutto, dall'angoscia per la finitezza dell'esistenza avida d'immortalità per esorcizzare la morte, all'accettazione fondamentalmente gioiosa del "nulla creativo" che ci avvolge. Non si può negare che di fronte al fiume di sangue versato nel dopoguerra, fino ad oggi, di fronte alle sofferenze inflitte per bloccare il processo di liberazione, di fronte alla vittoria su tutti i fronti e in tutto il mondo dell'intreccio infame, vacilla ogni speranza. È segno di una debolezza interna alle speranze? O forse la liberazione è in radice un processo senza fine e una scommessa perenne? E i salti evolutivi ci sono, e il '68 fu uno di questi, ma non c'è un salto ultimo? C'è sempre un "oltre"? Può tale scommessa chiamarsi fede? Ma fede in che cosa?

Domande inquietanti che mi sono rimaste nell'anima. Da lì, alla ricerca di senso all'interno di reti di relazioni, partono le cose che cerco di dire in queste pagine.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 170

"Oltre"



OLTRE LA VECCHIA FRONTIERA FRA LAICITÀ E RELIGIONE



La partecipazione del mondo cattolico al movimento per un mondo nuovo possibile e contro la guerra è un fatto storicamente nuovo

È sintomatico ciò che avviene nel mondo cattolico. Ed è però anche un impegno nuovo che si apre sia per i cosiddetti credenti che per i laici.

Le realtà associative del mondo cattolico progressista le troviamo inserite nei movimenti che emergono: per la pace, per la democrazia partecipata, per un "mondo diverso". Sembra che finalmente abbiano fatta propria la teologia dei "segni dei tempi" di papa Giovanni. È un fatto storicamente nuovo che apre orizzonti di speranza. Il secolo XX si aprì con la disastrosa separazione, il XXI si apre con un nuova incarnazione?

Leone XIII si alleò col capitalismo vincente escludendo i movimenti dal basso e in primo luogo il movimento operaio a cui fu sottratto l'apporto delle coscienze ed esperienze anticapitaliste di orientamento religioso e cattolico. I cattolici furono invece indirizzati su percorsi rigidamente interclassisti e quindi di sostanziale dipendenza dei deboli dai forti. Ecco cosa scrive il papa, osannato per una sua presunta vicinanza al mondo del lavoro, nell'Enciclica Quod apostolici muneris del 1878, anteriore alla più nota Rerum novarum:

Stando così le cose,... ai popoli ed ai Prìncipi sbattuti da violenta procella... preoccupati dall'estremo pericolo che sovrasta, indirizziamo loro l'Apostolica voce; ed in nome della loro salvezza e di quella dello Stato di nuovo li preghiamo insistentemente e li scongiuriamo di accogliere ed ascoltare come maestra la Chiesa, tanto benemerita della pubblica prosperità dei regni, e si persuadano che le ragioni della religione e dell'impero sono così strettamente congiunte che di quanto viene quella a scadere, di altrettanto diminuiscono l'ossequio dei sudditi e la maestà del comando. Anzi, conoscendo che la Chiesa di Cristo possiede tanta virtù per combattere la peste del Socialismo, quanta non ne possono avere le leggi umane, né le repressioni dei magistrati, né le armi dei soldati, ridonino alla Chiesa quella condizione di libertà, nella quale possa efficacemente compiere la sua benefica azione a favore dell'umano consorzio... Infine, siccome i seguaci del Socialismo principalmente vengono cercati fra gli artigiani e gli operai, i quali, avendo per avventura preso in uggia il lavoro, si lasciano assai facilmente pigliare all'esca delle promesse di ricchezze e di beni, così torna opportuno di favorire le società artigiane ed operaie che, poste sotto la tutela della Religione, avvezzino tutti i loro soci a considerarsi contenti della loro sorte, a sopportare la fatica e a condurre sempre una vita quieta e tranquilla.

Questa strategia tesa ad organizzare il mondo operaio "sotto la tutela della Religione" sottraendolo all'influenza del socialismo fu una catastrofe. La degenerazione totalitaria della rivoluzione socialista è anche frutto del dimezzamento del movimento operaio.

Papa Giovanni ritengo che abbia indirizzato la Chiesa su un percorso opposto. Egli, il papa dell'era atomica, ha visto nella folle scalata all'armamento atomico una grave minaccia alla democrazia e alla pace. L'arma atomica esalta il senso di onnipotenza del potere e conduce alla assolutizzazione del dominio. Contro il potere assoluto dell'arma totale Papa Giovanni ha fatto l'unica cosa a cui è chiamato il profeta in senso biblico: cercare e indicare nei segni dei tempi, in ciò che accade nella vita e nella storia vissuta e vista dal basso, il messaggio divino della salvezza. Il gigante imponente dall'aspetto terrificante, descritto dal libro biblico del profeta Daniele, non viene vinto da un altro gigante ma da un sassolino che si stacca spontaneamente dalla montagna. Papa Giovanni ha avuto l'umiltà di farsi in qualche modo da parte come persona e come ruolo per dare spazio alle periferie della Chiesa. Non ha fatto molte prediche sulla democrazia da difendere contro la minaccia atomica. Ha dato spazio alla democrazia possibile in quel momento storico nella sua Chiesa. Ha convocato il Concilio. E così ha indicato una strada di salvezza per tutti: dare spazio ovunque al recupero della democrazia valorizzando i processi sociali dal basso, quelli che lui ha chiamato appunto "segni dei tempi". Questo è anche il succo della Pacem in terris. Ed è di una attualità sconcertante.

Oggi quel messaggio viene ripreso e attualizzato. I cattolici dell'associazionismo progressista fanno propri i temi dei movimenti dal basso portando talvolta la radicalità e la forza dell'ispirazione evangelica. Questo come dicevo è molto positivo. Può essere un crinale storico.


Di fronte al "sacro potere delle chiavi" vale il principio che l'obbedienza non è più una virtù?

Ma questo apre anche a compiti nuovi. Perché il ruolo dei cattolici nei movimenti non può limitarsi ad essere una voce in più. Hanno un compito specifico specialmente nell'era dei fondamentalismi. Se è vero che la pace è cultura e sistema complessivo, allora bisogna che ognuno faccia la sua parte nella trasformazione lavorando nell'ambito di cultura e società in cui è inserito. E i cattolici sono inseriti nell'ambito religioso ed ecclesiale. Non possono far mancare il loro impegno in tale ambito.

Apro qui una riflessione critica in senso costruttivo sulla linea strategica della cultura di pace e nonviolenza come rivoluzione.

I cattolici dei "segni dei tempi" rifuggono per lo più dall'usare gli strumenti critici di trasformazione culturale, economica e politica della società nell'ambito proprio della loro appartenenza religiosa ed ecclesiale.

Un esempio eclatante è il messaggio di don Milani: "l'obbedienza non è più una virtù" secondo il priore di Barbiana vale per tutti gli ambiti laici ma non per l'ambito religioso ed ecclesiale. Si deve disubbidire agli ordini ingiusti di tutti i poteri meno che di quello ecclesiastico. Di fronte al "potere delle chiavi" non c'è disubbidienza che tenga. Altrimenti – egli diceva – chi mi assolve dal mio peccato?

Di fronte al sacro molti cattolici si bloccano. E così fanno mancare al cammino umano proprio il contributo specifico di persone "credenti", cioè di persone inserite nell'apparato simbolico religioso che sostiene quegli automatismi psicologici inconsci i quali sono all'origine di quella stessa violenza e ingiustizia contro cui si trovano a combattere. Vivono (ma bisogna dire viviamo, perché in un modo o nell'altro ci siamo dentro tutti) una forma di schizofrenia. Pensiamo di immaginare e costruire "un mondo nuovo possibile" lavorando solo nell'orizzonte del visibile e del misurabile. E così la violenza cacciata dalla porta della politica rientra dalla ferita aperta nel sacro e nel profondo.

È un frutto, direi l'altra faccia, della secolarizzazione dimezzata, cioè basata tutta e solo sul dominio del mondo attraverso la mente. L'alfa e l'omega dell'ordine umano, sociale, politico, culturale, non è più l'onnipotenza di Dio ma l'onnipotenza della mente, nuova divinità. E la rivoluzione, quella di Marx come anche, fatte le debite proporzioni, quella di un don Milani, cambia l'ordine dei fattori, il basso in alto l'alto in basso, ma il risultato è sempre il dominio della mente. L'altra metà dell'essere umano, il mondo simbolico, l'inconscio, il sacro, il mistero, è affidata alla vecchia casta dei ministri consacrati o alla nuova casta degli specialisti dell'anima.

Una tale visione critica dove vuole andare a parare? Non ho risposte sicure. Dobbiamo trovarle insieme.


Per un mondo nuovo possibile, nuovi mondi religiosi possibili

Il cattolicesimo ufficiale non ha ancora elaborato il lutto rispetto alla perdita del "controllo totale", cioè del potere totalizzante e universalistico in senso imperiale, potere che è stato la sua natura intima fin dalla nascita e la sua forza in millecinquecento anni di storia.

Cattolico infatti significa letteralmente universale ma storicamente il suo senso preciso è derivato dall'universalismo imperiale. Non era cattolico il cristianesimo dei primi due secoli. All'inizio non era neppure propriamente una religione. Diventa "religione della società" quando entra in simbiosi con l'universalismo dell'Impero e si trasforma così in religione essa stessa universale, cioè cattolica. La politica di simbiosi iniziata da Costantino fu compiuta come si sa da Teodosio che proclamò nell'editto del 380 la religione cristiana religione dell'Impero: "Vogliamo che tutti i popoli a noi soggetti seguano la religione che l'apostolo Pietro ha insegnato ai Romani ... Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico; gli altri invece saranno stolti ed eretici ... essi incorreranno nei castighi divini e anche in quelle punizioni che noi riterremo di infliggere loro".

La scelta dell'universalismo imperiale non fu indolore. Creò una profonda spaccatura interna al cristianesimo. E fu una spaccatura verticale. Gli strati del cristianesimo più lontani dal centro imperiale ed ecclesiale e socialmente più umili, in particolare i contadini poveri della Chiesa africana, insieme ad alcuni loro episcopi, percepirono una tale alleanza fra la Chiesa e l'Impero come un tradimento del profetismo evangelico. L'eresia più importante fu il Donatismo.

I donatisti, ma anche altre eresie analoghe, riuscirono a dare profondo contenuto teologico alla loro rivolta sociale e morale. I fatti sono noti ma vale la pena riassumerli perché come dirò sono di un'attualità sconcertante. I proprietari terrieri dell'Africa proconsolare e della Numidia utilizzarono la persecuzione dioclezianea per terrorizzare, torturare, umiliare e reprimere i propri contadini. Mentre alcuni presbiteri ed episcopi accettarono la sorte atroce dei contadini, la maggior parte di loro e specialmente i più importanti lasciarono soli i fedeli, abiurarono, si salvarono, e soprattutto mantennero il loro potere, anzi lo ampliarono orientando sempre più la Chiesa verso il compromesso con l'Impero.

Mensurio, vescovo di Cartagine, fu uno dei "traditori". Quando morì di morte naturale fu eletto al posto di lui il suo collaboratore Ceciliano consacrato dal vescovo Felice, anch'egli però "traditore". Una parte notevole della Chiesa africana, quella rurale, la più povera e angariata, non ritenne valida una tale consacrazione e al posto di Ceciliano elesse vescovo di Cartagine Donato. Ma così il donatismo scardinava uno dei pilastri della dottrina cattolica: il valore assoluto della successione apostolica in sé, da vescovo a vescovo, senza passare attraverso le relazioni circolari e territoriali della ecclesia. Più a fondo, veniva contestata la organizzazione verticista della Chiesa e il suo universalismo imperiale. La Chiesa dell'amore condiviso, fondata sulle relazioni legate alla vita e al territorio si opponeva alla Chiesa del potere, dell'universalità astratta e della legge senz'anima. Il donatismo animò la chiesa per tutto il quarto secolo. Subì una durissima repressione e infine su debellato. Perfino la sua memoria fu annullata. Passò agli annali solo come eresia localista, rigorista e intollerante verso le debolezze umane. Non che non avesse limiti, ma la sua teologia fu completamente distorta.

Finché giunse con i "padri della Chiesa" la definitiva consacrazione dell'universalismo imperiale: un solo Dio un solo impero una sola Chiesa universale.

Basta la citazione di S. Ambrogio vescovo di Milano nel VI sec.: "Tutti gli uomini hanno imparato, vivendo sotto un unico impero universale, a proclamare col linguaggio della fede l'impero dell'Onnipotente". È la pietra tombale sul donatismo. Questo però divenne quella folata di vento dello Spirito o se si vuole quel fermento che ispirò molte delle grandi spinte di trasformazione della storia del cristianesimo.

A ben pensarci soffia anche oggi. Non certo nei modi, ma nella sostanza.

La gran parte dei cattolici che partecipa al movimento pacifista ha capito e acquisito ormai lo spirito profondo della nonviolenza e quindi avverte il bisogno di superare la dipendenza strutturale, chiave di ogni violenza, e di tendere all'autonomia e alla responsabilità della coscienza ("come se Dio non ci fosse") alimentata dalla rete delle relazioni, chiave della nonviolenza. E, come i donatisti, non si fermeranno all'autonomia nel campo politico, etico e sociale. Vogliono una Chiesa "altra". La trasformazione profonda in senso nonviolento di tutte le strutture religiose, nessuna esclusa, simbologie, dogmi, ordinamenti, strutture di potere, è il traguardo che sta loro davanti.

Le comunità di base che da tempo hanno iniziato un tale percorso non sono affatto isolate come si vorrebbe far credere.

Per parte mia, come si vede, non c'è la minima intenzione di svalorizzare e sminuire l'impegno di questo mondo cattolico in fermento. Ritengo che il nostro atteggiamento sia e debba essere quello di una attenzione di sim-patia, nel senso di "sentire insieme", nei confronti delle contraddizioni che di nuovo si aprono, per contribuire ad orientarle verso un ripensamento delle sistematizzazioni religiose ed ecclesiali. E di rispetto verso i tempi e i passi del percorso di ognuno. Purché dia segni di essere in cammino.

Ora che "un mondo nuovo" è tornato negli orizzonti e nei percorsi delle nuove generazioni si può far mancare il contributo della ricerca di "mondi religiosi ed ecclesiali nuovi"? Basta spostare verso le parole di pace la politica religiosa ed ecclesiastica? Si può continuare a rincorrere le emergenze? Non è necessario lavorare anche sulla struttura intima delle religioni, sulla teologia, sulla simbologia e sul profondo? Offro alcuni spunti frutto di una lunga esperienza comunitaria e non pura elucubrazione mentale.

| << |  <  |