Autore Mariana Mazzucato
Titolo Non sprechiamo questa crisi
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2020, i Robinson Letture , pag. 154, cop.fle., dim. 13x20x1,5 cm , Isbn 978-88-581-4287-5
TraduttoreDaria Cavallini
LettoreRiccardo Terzi, 2018
Classe economia , economia politica , politica , sociologia












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    I. La triplice crisi

1.  La crisi del Covid-19 è un'occasione per cambiare
    il capitalismo                                               5
2.  La triplice crisi del capitalismo                           11


    II. Strutturare il presente con un orizzonte
        di lungo periodo

3.  Mai più salvataggi incondizionati                           19
4.  Socializziamo i guadagni, non solo i rischi                 25
5.  Contrastare il feudalesimo digitale                         32


    III. Creare un sistema della salute innovativo e simbiotico

6.  Come sviluppare un vaccino per tutti                        41
7.  Evitare che la pandemia diventi un bottino per Big Pharma   47


    IV. Un mondo post-pandemia più verde

8.  Per una ripresa «green» e «smart»                           55
9.  Il Green Deal non può aspettare                             62


    V. Una diversa idea di futuro

10. Una nuova costituzione fiscale                              73
11. Il grande fallimento dello Stato minimo                     91
12. Il Covid-19 e la capacità del settore pubblico              98


    Epilogo

13. Una road map per uscire dalla crisi                        127


Note                                                           137
Fonte dei testi                                                151



 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

1.
La crisi del Covid-19 è un'occasione
per cambiare il capitalismo



Il mondo vive una situazione critica. La pandemia da Covid-19 si sta rapidamente diffondendo in tutti i paesi, con una portata e una gravità che non si vedevano dai tempi della devastante influenza spagnola del 1918. Se non si provvederà a intraprendere un'azione globale coordinata per contenerla, il contagio diventerà presto anche economico e finanziario.

La gravità della crisi richiede l'intervento dei governi, che cominciano a muoversi. Gli Stati stanno iniettando stimoli nell'economia e al tempo stesso cercano disperatamente di rallentare la diffusione della malattia, per proteggere le popolazioni vulnerabili e contribuire alla creazione di nuove terapie e vaccini. La rilevanza e l'intensità di questi interventi ricordano un conflitto militare: è una guerra contro la diffusione del virus e il tracollo economico.

E tuttavia c'è un problema. L'intervento che si richiede necessita di una struttura molto diversa rispetto a quella scelta dai governi. A partire dagli anni Ottanta, è stato chiesto ai governi di fare un passo indietro, lasciando che siano le imprese a imprimere la direzione e a creare ricchezza, e di intervenire solo per risolvere i problemi quando si presentano. Il risultato è che non sempre i governi sono adeguatamente preparati e attrezzati per affrontare crisi come quella del Covid-19 o l'emergenza climatica. Se si parte dal presupposto che i governi debbano attendere il verificarsi di un enorme shock sistemico prima di decidersi a intervenire, arriveranno sempre impreparati.

Così facendo, si indeboliscono le istituzioni essenziali che forniscono servizi pubblici e beni pubblici in senso lato, come il National Health Service del Regno Unito, dove dal 2015 ci sono stati tagli alla spesa sanitaria per un miliardo di sterline.

Il ruolo preminente degli affari nella vita pubblica ha determinato anche una perdita di fiducia in ciò che lo Stato può fare da solo, e questo ha portato alla creazione di numerosi e problematici partenariati fra pubblico e privato che privilegiano gli interessi del business rispetto al bene pubblico. Per esempio, è stato ben documentato che i partenariati pubblico-privato nel settore ricerca e sviluppo spesso favoriscono i cosiddetti farmaci «blockbuster» a scapito di altri, meno appetibili dal punto di vista commerciale, ma estremamente importanti per la salute pubblica, fra cui antibiotici e vaccini per una serie di malattie con potenziale epidemico.

A ciò si aggiunge la mancanza di una rete di sicurezza e protezione per le persone che lavorano in società caratterizzate da disuguaglianze crescenti, specie chi, privo di tutele, opera nell'ambito della cosiddetta gig economy, ossia l'economia a chiamata.

Ma oggi ci si presenta l'occasione di approfittare di questa crisi per capire come fare capitalismo in modo diverso. Occorre ripensare il ruolo dello Stato: anziché limitarsi a correggere i fallimenti del mercato quando si verificano, i governi dovrebbero assumere un ruolo attivo plasmando e creando mercati che offrano una crescita sostenibile e inclusiva, oltre a garantire che le partnership con le imprese in cui confluiscono fondi pubblici siano guidate dall'interesse pubblico, e non dal profitto.

Innanzitutto, i governi devono investire in, e in alcuni casi creare, istituzioni che contribuiscano a prevenire le crisi e a facilitarne la gestione quando si presentano. Il budget di emergenza del governo britannico, pari a 12 miliardi di sterline per il servizio sanitario nazionale, è un'iniziativa lodevole, ma altrettanto importante è l'attenzione agli investimenti a lungo termine per potenziare i sistemi sanitari, invertendo le tendenze degli ultimi anni.

In secondo luogo, i governi devono coordinare meglio le attività di ricerca e sviluppo, orientandole verso obiettivi di salute pubblica. La scoperta dei vaccini richiederà un coordinamento internazionale di proporzioni titaniche, esemplificato dallo straordinario lavoro della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi). Ma i governi nazionali hanno anche un'enorme responsabilità nel plasmare i mercati guidando l'innovazione per conseguire obiettivi pubblici, come hanno fatto ambiziose organizzazioni pubbliche quali la Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa) negli Stati Uniti quando, nel cercare di risolvere il problema di far comunicare i satelliti, finanziò quella che oggi è la rete Internet. Un'iniziativa analoga nel settore sanitario porterebbe a convogliare i finanziamenti pubblici nella soluzione dei grandi problemi sanitari.

Terzo, i governi devono strutturare i partenariati pubblico-privato così da garantire che ne traggano vantaggio sia i cittadini sia l'economia. La sanità è un settore che a livello globale riceve miliardi di denaro pubblico: negli Stati Uniti, il National Institutes of Health (Nih) investe 40 miliardi di dollari all'anno. Dall'epidemia di Sars del 2002, il Nih ha speso 700 milioni di dollari in ricerca sul coronavirus. Visti gli ingenti finanziamenti pubblici destinati all'innovazione sanitaria, i governi dovrebbero vigilare sui processi per garantire che i prezzi siano equi e che non si abusi dei brevetti, oltre a salvaguardare la fornitura dei medicinali e controllare che i profitti vengano reinvestiti nell'innovazione, anziché essere dirottati nelle tasche degli azionisti.

E devono anche garantire, qualora si rendano necessarie forniture di emergenza - come medicinali, letti ospedalieri, maschere o ventilatori -, che le stesse aziende che beneficiano di sussidi pubblici nei periodi di congiuntura favorevole non speculino alzando indebitamente i prezzi quando le cose vanno male. L'accesso universale e a prezzi accessibili è essenziale non solo a livello nazionale, ma anche internazionale. Questo vale in special modo nelle pandemie: non c'è posto per il pensiero nazionalistico, come il tentativo di Donald Trump di acquisire in esclusiva per gli Stati Uniti la licenza per il vaccino contro il coronavirus.

Infine, è quindi giunto il momento di mettere in pratica la dura lezione della crisi finanziaria globale del 2008. Quando le aziende, dalle compagnie aeree alla grande distribuzione, si fanno avanti con richieste di salvataggio e altre forme di assistenza, è importante non limitarsi a distribuire denaro. Si possono dettare condizioni affinché i salvataggi siano strutturati in modo da trasformare i settori destinatari degli aiuti, portandoli a far parte di una nuova economia, incentrata sulla strategia del Green New Deal di ridurre le emissioni di carbonio, investendo al tempo stesso sui lavoratori per aiutarli ad adattarsi alle nuove tecnologie. E bisogna farlo adesso, fintanto che lo Stato si trova in posizione di forza. Sfruttiamo questo momento per ripensare il sistema capitalistico con un approccio che restituisca centralità a tutte le parti in causa. Non permettiamo che questa crisi vada sprecata.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

2.
La triplice crisi del capitalismo



Il Covid-19 è un evento di vasta portata che mette in luce la fragilità di un'economia sempre più globalizzata e interconnessa, e non sarà certo l'ultimo.

Il capitalismo, infatti, sta affrontando almeno tre grandi crisi. Una crisi sanitaria indotta dalla pandemia ha rapidamente innescato una crisi economica con conseguenze ancora sconosciute per la stabilità finanziaria, e tutto questo si gioca sullo sfondo di una crisi climatica che non può essere affrontata con il solito approccio del «business as usual». Non dimentichiamoci che, fino a soli due mesi fa, i media ci proponevano immagini spaventose di vigili del fuoco, e non operatori sanitari, sopraffatti dalla fatica e dal superlavoro.

Questa triplice crisi ha portato alla luce diversi problemi rispetto al nostro modo di «fare capitalismo», che devono essere tutti affrontati nello stesso momento in cui siamo alle prese con l'emergenza sanitaria. Altrimenti, risolveremo semplicemente i problemi in un settore per crearne di nuovi altrove, così come accadde con la crisi finanziaria del 2008. I politici inondarono il mondo di liquidità senza indirizzarla verso opportunità di investimento valide. Di conseguenza, il denaro finì di nuovo in un settore finanziario che era (e rimane) inadatto allo scopo.

La crisi del Covid-19 sta mettendo in evidenza altri difetti ancora presenti nelle nostre strutture economiche, non ultima la crescente precarietà del lavoro, dovuta all'affermarsi della gig economy e al decennale deterioramento del potere contrattuale dei lavoratori. Molto più semplicemente, il telelavoro non è un'alternativa praticabile per la maggior parte dei lavoratori; e sebbene i governi stiano estendendo alcune tutele ai lavoratori con contratti regolari, gli autonomi potrebbero restare abbandonati al loro destino.

Peggio ancora, i governi stanno concedendo prestiti alle imprese in un momento in cui il debito privato è già storicamente elevato. Negli Stati Uniti, il debito totale delle famiglie poco prima dell'attuale crisi era di 14.150 miliardi di dollari, ovvero 1.500 miliardi in più rispetto al 2008 (in termini nominali). E non dobbiamo mai dimenticare che è stato l'alto livello di indebitamento privato a causare la crisi finanziaria globale.

Purtroppo, nell'ultimo decennio, molti paesi hanno perseguito l'austerità, come se il problema fosse il debito pubblico.

[...]

Questa volta, è essenziale che gli aiuti siano subordinati a una serie di condizioni. Ora che lo Stato è tornato a recitare un ruolo da protagonista, deve fare la parte dell'eroe, e non del gonzo. Ciò significa fornire soluzioni immediate, ma pensarle in modo da servire l'interesse pubblico nel lungo periodo. Per esempio, si possono mettere in atto delle condizionalità per il sostegno pubblico alle imprese. Le aziende che ricevono aiuti di Stato dovrebbero essere obbligate a mantenere i posti di lavoro e a garantire che, finita la crisi, investiranno nella formazione dei dipendenti e nel miglioramento delle condizioni occupazionali. Meglio ancora, come in Danimarca, il governo dovrebbe sostenere le imprese affinché continuino a pagare gli stipendi anche nei periodi di inattività dei lavoratori, aiutando allo stesso tempo le famiglie a preservare il loro reddito. In questo modo si evita la diffusione del virus e si agevola un rapido ritorno all'attività produttiva da parte delle imprese, una volta superata la crisi.

Allo stesso modo, gli aiuti dovrebbero essere strutturati in modo da orientare le aziende verso la creazione, e non l'estrazione, del valore, impedendo il riacquisto di azioni e incoraggiando gli investimenti nella crescita sostenibile e nella riduzione dell'impatto ambientale.

[...]

Come abbiamo già detto, è anche giunto il momento di ripensare i partenariati pubblico-privato. Troppo spesso questi accordi hanno un carattere più parassitario che simbiotico. Lo sforzo per realizzare un vaccino contro il Covid-19 potrebbe diventare l'ennesimo rapporto a senso unico in cui le aziende raccolgono enormi profitti rivendendo al pubblico un prodotto nato dalla ricerca finanziata dai contribuenti.

[...]

Abbiamo un disperato bisogno di Stati innovatori che investano di più nella ricerca: dall'intelligenza artificiale alla salute pubblica alle energie rinnovabili. Ma come ci ricorda questa crisi, abbiamo anche bisogno di Stati che sappiano negoziare, in modo che i profitti degli investimenti pubblici ritornino al pubblico.

Ora che i governi sono sul piede di guerra, abbiamo l'opportunità di risanare il sistema. Se non lo faremo, non avremo speranze di fronte alla terza grande crisi - quella di un pianeta sempre più inabitabile - e a tutte le crisi minori che ne deriveranno negli anni e nei decenni a venire.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 22

In alcuni casi, í governi sono andati oltre la condizionalità per modificare i modelli di proprietà. La Germania e la Francia stanno acquisendo o aumentando (rispettivamente) la partecipazione dello Stato nelle compagnie aeree, facendo leva sulla necessità di salvaguardare le infrastrutture strategiche nazionali.

Ma ci sono anche esempi negativi. In Italia il salvataggio dell'industria automobilistica si è svolto in modo molto diverso rispetto alla Francia. Il Gruppo Fca ha convinto il governo italiano - che storicamente ha sempre concesso ingenti sussidi alla Fiat - ad accordare alla sua controllata Fca Italy un prestito garantito di 6,3 miliardi di euro praticamente senza alcuna condizione. Si prevede che entro la fine di quest'anno Fca Italy si fonderà con il Groupe Psa, e lo stesso Gruppo Fca non è più nemmeno una società italiana. Nato nel 2014 dalla fusione di Fiat e Chrysler, è domiciliato nei Paesi Bassi e ha la sua sede finanziaria a Londra. Ma c'è di più: la società non gode di buona reputazione quanto al fatto di mantenere i propri impegni di investimento in Italia, paese che è uscito dalla scena mondiale come produttore di auto in termini sia di volumi sia di veicoli elettrici.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

4.
Socializziamo i guadagni,
non solo i rischi



Quando l'economia è in crisi, a chi ci rivolgiamo per chiedere aiuto? Non alle aziende, ma allo Stato. Quando l'economia prospera, però, ignoriamo lo Stato e lasciamo che a guadagnare siano le imprese.

Questa è stata la storia della crisi finanziaria del 2008. Una storia simile è quella che stiamo vivendo oggi. L'emergenza del coronavirus ci offre l'occasione di cambiare questa dinamica e di pretendere che le cose vadano diversamente. Gli Stati hanno speso migliaia di miliardi in pacchetti di incentivi senza creare strutture - come un dividendo di cittadinanza, che premierebbe gli investimenti pubblici - capaci di trasformare i rimedi a breve termine in strumenti capaci di realizzare un'economia inclusiva e sostenibile.

È esattamente così che si alimenta la disuguaglianza: socializziamo i rischi ma privatizziamo i guadagni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 77

L'ortodossia economica pre-Covid Il grande fallimento dell'attuale modello economico è legato al fatto di aver trascurato i beni pubblici, essenziali per il corretto funzionamento di un'economia progressiva che il settore privato non è incentivato a soddisfare. Per questo Adam Smith, nel suo trattato La ricchezza delle nazioni, attribuisce allo Stato il compito di sviluppare le infrastrutture fisiche e umane di un'economia di mercato. La finanza ortodossa ha invece subordinato il dovere dello Stato di provvedere ai beni pubblici a quello di tenere il bilancio in pareggio. In sostanza, lo sviluppo delle risorse reali di una nazione è stato sacrificato alla logica economica di un nucleo familiare privato. Per ridare vita al concetto di beni pubblici dobbiamo fare in modo che non siano periferici al mercato - vale a dire che non devono essere intesi come «correzioni» ai fallimenti del mercato - bensì al centro del «come» pubblico e privato interagiscono. In questo senso, i beni pubblici non devono più essere visti secondo questa logica ristretta bensì in un'ottica proattiva in cui i mercati vengono co-creati e plasmati.

L'ortodossia finanziaria di fondo parte da due assunti ritenuti assiomatici: (l) l'investimento pubblico è una forma di spreco, che dovrebbe quindi essere ridotta al minimo; (2) le economie di mercato tendono spontaneamente alla piena occupazione (definita come il tasso «naturale» di disoccupazione). Ne consegue (3) che solo quando i mercati «falliscono», gli investimenti pubblici devono intervenire a «correggere» gli «attriti» del mercato.

La crisi finanziaria del 2008-2009 ha già mostrato la debolezza di questo modello. La riduzione degli investimenti pubblici (nel Regno Unito, in percentuale del Pil, sono scesi dall'8,9 per cento nel 1975 all'1,7 per cento nel 2000) ha spostato gli investimenti verso la speculazione finanziaria, con conseguente aumento degli sprechi e della volatilità e l'innesco di una serie di crisi finanziarie. La crisi del Covid-19 ha messo ulteriormente in luce questa debolezza e la grave insufficienza di beni pubblici (dalle infrastrutture sanitarie di base alla capacità di garantire la produzione dei dispositivi di protezione individuale), e ha dimostrato che molti governi occidentali sono del tutto impreparati ad affrontare eventi imprevisti. Dal settore ricerca e sviluppo in ambito medico e tecnologico ai trasporti, all'assistenza, all'istruzione, alla privatizzazione, alla tutela dei brevetti e all'esternalizzazione delle forniture, si sono create lacune nella catena logistica e lo Stato si è dimostrato impotente in settori di importanza vitale. La storia che abbiamo sentito ripetere era quasi ovunque sempre la stessa: troppo poco, troppo tardi. La capacità dello Stato è frutto di pazienti investimenti all'interno delle istituzioni pubbliche, non degli aiuti a pioggia che dispensa all'economia in tempi di crisi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 80

Un nuovo modello dell'offerta Gli investimenti pubblici sono essenziali non solo per porre «rimedio» ai fallimenti dei mercati, ma anche per guidare e trasformare la direzione dello sviluppo del capitale delle nazioni. Questo può avvenire attraverso investimenti trasformativi proattivi dal lato dell'offerta e politiche di approvvigionamento ben studiate dal lato della domanda. Eppure, la logica finanziaria ortodossa ha fatto sì che queste funzioni dello Stato siano state in gran parte «esternalizzate» ai mercati. I governi dei paesi sviluppati lo hanno fatto volontariamente, mentre il Washington Consensus ha subordinato il sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo da parte delle organizzazioni multilaterali alla deregolamentazione dei settori finanziari, alla privatizzazione delle imprese statali, alla deregolamentazione dei mercati del lavoro e all'austerità fiscale. Simbolicamente, questi paesi sono stati ribattezzati «mercati emergenti» nel linguaggio comune.

La dottrina neoliberista ha quindi affermato un modello unico di economia in cui microeconomia e macroeconomia diventavano un tutt'uno in un insieme di leggi universalmente valide e applicabili a tutti i paesi in qualsiasi epoca. È un esempio supremo della tendenza dell'economia a portare le generalizzazioni ben oltre il punto in cui sono valide o utili.

[...]

Si rende ora necessaria una nuova era di investimenti pubblici per riorganizzare il nostro panorama tecnologico, produttivo e sociale, fondata sulla consapevolezza che le nostre economie si evolvono sempre in una direzione. Ci siamo lasciati ossessionare dalla velocità della crescita anziché guardare alla direzione che prendeva. Se lasciate libere di agire, le economie di mercato tendono a prendere direzioni che privilegiano il breve termine o l'estrazione del valore, come la finanziarizzazione e la deindustrializzazione a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Un approccio alla spesa pubblica orientato alla sfida ci incoraggia a mettere l'economia su una traiettoria diretta al raggiungimento di obiettivi che vanno oltre la crescita fine a sé stessa e a pensare piuttosto a una crescita che abbia uno scopo pubblico.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 84

Investimenti pubblici: il lato della domanda e un programma per l'occupazione Un approccio orientato alla missione offre nuove opportunità per la creazione di posti di lavoro. È qui che entra in gioco il secondo caposaldo della nuova costituzione fiscale attraverso un programma per l'occupazione nel settore pubblico. Molti analisti prevedono un tasso di disoccupazione del 10 per cento di qui alla fine dell'anno. Anziché studiare aumenti delle tasse e tagli alla spesa per far fronte all'inflazione, i ministri delle Finanze dovrebbero cercare di generare una base imponibile sostenibile includendo attività economiche che altrimenti la crisi renderà inattive.

La piena occupazione può essere considerata un bene pubblico. Una persona occupata a tempo pieno non solo consolida il proprio reddito, ma attraverso i suoi acquisti aumenta quello della collettività nel suo complesso. Lo stato di disoccupazione o sottoccupazione non incide negativamente solo sul reddito del diretto interessato, ma anche su quello di tutti gli altri.

[...]

Nella nostra ipotesi di un programma di impiego nel settore pubblico (Pjp), lo Stato garantirebbe un lavoro a qualsiasi richiedente in età lavorativa che non riesca a trovare un'occupazione nel settore privato, a una paga oraria fissa non inferiore al salario minimo nazionale. L'attenzione potrebbe essere focalizzata sui posti di lavoro in aree critiche per guidare l'economia verso una transizione verde. Potrebbero essere nuove aree emergenti, come quelle legate ai mezzi per la manutenzione, che ridurrebbero gli sprechi e favorirebbero il reimpiego, il riutilizzo e il riciclo. Il governo promuoverebbe programmi di formazione durante la creazione di posti di lavoro in modo da permettere ai lavoratori che partecipano al programma Pjp di incrementare il loro capitale umano, riuscendo più facilmente a passare all'occupazione nel settore privato.

Il Public Job Programme presenta quattro importanti vantaggi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 94

La Nuova Zelanda è un'altra storia di successo, e non a caso. Dopo aver inizialmente fatto proprio il mantra dell' outsourcing negli anni Ottanta, il governo neozelandese ha cambiato rotta, abbracciando uno «spirito di servizio» e un'«etica della cura» in tutti i suoi servizi pubblici, diventando il primo paese al mondo a prevedere un budget per il benessere. Grazie a questa visione della gestione pubblica, il governo si è posto di fronte alla crisi attuale adottando l'approccio «prima la salute, poi l'economia». Anziché rincorrere l'immunità di gregge, si è impegnato fin dal primo momento a prevenire l'infezione.

Lezioni analoghe valgono per i dati e la tecnologia digitale, settori in cui i vari governi si sono comportati nei modi più diversi. Durante l'emergenza, i cittadini pakistani hanno potuto presentare la domanda per ricevere i contributi in denaro (erogati a ben 12 milioni di persone) direttamente dai loro telefoni cellulari, mentre gli italiani dovevano stampare i moduli di autocertificazione per poter uscire di casa durante il lockdown.

| << |  <  |