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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione Tempo in movimento 33 Capitolo primo Sul Commandement 81 Capitolo secondo Sul governo privato indiretto 121 Capitolo terzo L'estetica della volgarità 167 Capitolo quarto La Cosa e i suoi doppi 201 Capitolo quinto Fuori dal mondo 245 Capitolo sesto Il fallo di dio 271 Conclusioni La maniera finale 283 Bibliografìa 307 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina 10Il lungo sonno dogmaticoInsomma, il continente africano è l'immagine per eccellenza dell'"estraneo", tanto nel discorso quotidiano quanto nelle narrazioni accademìche - qualcosa di simile all'inaccessibile "Altro con la A maiuscola" cui allude Jacques Lacan. In questo universo ai margini della Terra, a quanto pare, la ragione è sempre con le spalle al muro, e a quanto pare l'ignoto vi celebra il suo trionfo. L'Africa, figura senza testa minacciata dalla follia, quasi del tutto ignara di nozioni come centro, gerarchia o stabilità, è dipinta come una vasta grotta oscura in cui qualunque confronto e distinzione si trasforma in totale confusione, portando alla luce le profonde lacerazioni di una storia umana tragica e infelice: qualcosa a metà tra il semicreato e l'incompleto, pieno di strani segni e movimenti convulsi - in breve, un abisso senza fondo in cui ogni cosa è clamore, che ti aspetta con le fauci aperte per inghiottirti e riportarti al caos primordiale. Ma dato che in principio niente di quanto l'Africa dice è intraducibile in una lingua umana, questa presunta inaccessibilità non deve nascere dalla difficoltà intrinseca dell'impresa: non è causata da ciò che bisogna udirvi e vedervi, né da ciò che vi è nascosto. A causarla, è il fatto che non esiste praticamente alcun discorso autonomo sull'Africa: sin dall'inizio del suo formarsi, nel suo linguaggio e nelle sue finalità la narrazione sull'Africa è sempre un pretesto per parlare di qualcos'altro, di qualche altro luogo, di qualche altro popolo. Per essere più precisi, anzi, l'Africa è la mediazione che da modo all'Occidente di accedere al proprio stesso subconscio e fornire un pubblico resoconto della sua soggettività (cfr. Miller 1985). Di conseguenza, non c'è alcun bisogno di chiedersi quale sia lo statuto di tale discorso: nel migliore dei casi, ha a che fare con l'autoinganno; nel peggiore, con la perversione. | << | < | > | >> |Pagina 28Sin dall'inizio mi sono imbattuto in due difficoltà. Anzitutto ogni età, compresa la postcolonia, è in realtà una combinazione di molte temporalità differenti. Nel caso della postcolonia, postulare l'esistenza di un "prima" e un "dopo" la colonizzazione non bastava a risolvere il problema del rapporto fra temporalità e soggettività, e non era sufficiente neppure a mettere in questione il passaggio da uno stadio (prima) all'altro (dopo), con l'ulteriore problema di transito che un simile passaggio sollevava. E non è tutto: quell'ipotesi non consentiva neppure di rendersi conto del fatto che ogni età ha significazioni contraddittorie per attori differenti. Bisognava insomma riuscire a sapere in che modo, per ogni periodo di tempo, questa molteplicità di temporalità diverse doveva essere re-inscritta non solo nella longue durée ma anche nelle singole durées indigene. E dunque era necessario pensare allo statuto di un tempo particolare: il tempo che si manifesta [emerging time].Per riflettere adeguatamente su questo tempo che sta apparendo, sul tempo che procede, era tuttavia necessario abbandonare tutti gli approcci convenzionali: questi percepiscono infatti il tempo solo come una corrente, che trascina con sé individui e società da uno sfondo lontano a un primo piano più vicino, con il futuro che nasce necessariamente dal passato e segue quel passato in sé stesso irreversibile. Ecco, allora, la forma di temporalità più interessante in tale contesto: un tempo che potrebbe essere chiamato tempo dell'esistenza e dell'esperienza, il tempo dell'intrico. Non v'era però alcun modo di elaborare un'analisi plausibile di questa temporalità senza al contempo riaffermare, sin dall'inizio, tre postulati. In primo luogo, questo tempo dell'esistenza africana non è né un tempo lineare né una semplice sequenza in cui ogni momento cancella, annulla e prende il posto di quelli che lo hanno preceduto, cosicché all'interno della società esiste sempre un'unica età. | << | < | > | >> |Pagina 78Oggi, all'inizio del ventunesimo secolo, l'Africa ha innanzi a sé la possibilità di gettarsi nel nuovo secolo riuscendo a vincere la sfida della produttività - cioè volgendo a proprio vantaggio le condizioni che determinano il suo rapporto con l'economia mondiale. Senza dubbio il conflitto con il mercato mondiale non si risolverà a vantaggio dell'Africa se verrà negoziato, ancora una volta, nel quadro dei programmi di adattamento strutturale; tali programmi si limitano per lo più a offrire ai paesi africani un ritorno agli anni Sessanta del Novecento, quando le strutture delle loro economie li avevano trasformati innanzitutto in esportatori al netto di prodotti tropicali.Con o senza creditori internazionali, insomma, l'Africa deve affrontare la sfida della competitivita delle proprie economie a livello mondiale. Ma nell'economia attuale del pianeta questa sfida non può essere vinta senza una crescita della produttività - vale a dire, in ultima analisi, senza mettere in atto modi efficaci per creare ineguaglianza e organizzare l'esclusione sociale. Tuttavia, come si è visto con estrema chiarezza durante il perìodo coloniale, i rapporti tra violenza, produzione di ineguaglianza e accumulazione sono straordinariamente complessi, e non esistono legami causali necessari fra queste variabili. Quanto alla svolta in direzione della democrazia, dipenderà dal modo in cui il dibattito relativo alla legittimità dell'esclusione sociale verrà storicamente formulato - e a favore di quali forze sociali; se così non fosse, infatti, come sarà possibile legittimare e codificare istituzionalmente tale esclusione? Non è difficile cogliere la complessità di un simile progetto, soprattutto in contesti nei quali la redistribuzione ha costituito per lungo tempo la suprema forma di mediazione politica e sociale e dove, oggi più che mai, i problemi della povertà stanno riaccendendo le lotte sociali su scala ancora più ampia che in passato. | << | < | > | >> |Pagina 113La democrazia come una possibilitàNell'analisi del fenomeno della guerra non si deve dimenticare che oggi la distinzione fra uno stato di guerra e uno stato di pace è sempre più illusoria. In precedenza ho notato la comparsa di un modello di sfruttamento fondato sulla privatizzazione della sovranità e del capitale sotto forma di rendita, estorsione e di un'economia fondata su concessioni. Ho sostenuto più volte la sempre più frequente assenza di una qualunque distinzione fra attività di estorsione da un lato, e dall'altro la "corruzione" o attività simili alla guerra. Ora è opportuno tornare ad affrontare il problema essenziale della fiscalità e del suo rapporto con l'altro modello di dominio noto come democrazia. | << | < | > | >> |Pagina 201Capitolo quinto Fuori dal mondo"È ancora vivo quell'uomo, o è morto?" (Tutuola 1952, p. 12). In questo capitolo prenderò in esame la fenomenologia della violenza; o meglio, per essere più precisi, formulerò alcune riflessioni su quello stato dì deprivazione o apparente non attualità che viene chiamato morte. Nel concentrare la mia attenzione sulla violenza della morte intendo analizzare tutte le forme in cui si realizza, e il modo in cui abbraccia ogni sostanza esistente - al punto da penetrare ovunque: alla morte non sfugge praticamente nulla, poiché in larga misura è divenuta il normale stato delle cose. Quando penso alla violenza della morte, ho in mente l'Africa contemporanea. E non perché l'Africa sia, più di qualunque altro luogo, una terra di morte e frenesia incontrollata in cui tutto - o quasi tutto - va a finire male - anche se a volte è effettivamente così; in realtà ho in mente l'Africa contemporanea perché nel discorso moderno e contemporaneo si manifesta come quella notte inconsapevole confinata ai recessi della realtà di cui Hegel disse che non giunge alla distinzione in lei, né alla chiarezza del sapere per se stesso (Hegel 1807, p. 418). Non intendo tornare sulla problematica del continente come "invenzione", dal momento che la storia di quell'immaginario è bene attestata e ne sono state messe a nudo tutte le origini (Mudimbe 1988; 1994). Mi interessano piuttosto due questioni - in realtà due facce di una stessa medaglia: da un lato vi è il pesante arbitrio commesso da chi rapisce al mondo e mette a morte ciò le ha precedentemente decretato essere nulla, una figura vuota; dall'altro vi è il modo in cui il soggetto negato, esautorato, sospinto lontano, altrove, oltre il mondo dell'esistente assume su di sé l'atto della propria distruzione e prolunga la propria crocifissione. | << | < | > | >> |Pagina 232Dopo la coloniaIn che modo si ha il passaggio dalla colonia a "quello che viene dopo"? Quali sono le differenze - e se ci sono, di che tipo - tra quel che avvenne nella colonia e "quello che viene dopo"? È davvero tutto chiamato nuovamente in causa, tutto è veramente sospeso, veramente tutto ricomincia da capo, al punto di potersi dire che chi era precedentemente colonizzato rientra in possesso dell'esistenza, prendendo le distanze dalla precedente condizione? Questo è un falso interrogativo, ma dà luogo a interrogativi non solo in merito alla natura specifica del periodo attuale, ma circa la possibilità stessa di cambiare il tempo. Poiché tuttavia non è realmente possibile cambiare il tempo, dobbiamo collocarci saldamente in uno spazio diverso per descrivere la nostra epoca - l'epoca e lo spazio della vita grezza, naturale [raw life]. L'età della vita naturale come spazio alternativo ha alcune proprietà, che prenderemo brevemente in esame. Innanzitutto è luogo e tempo di mezza-morte, o, se si preferisce, di mezza-vita. È un luogo in cui la vita e la morte sono talmente intrecciate da non potersi distinguere, né si può dire se una cosa abbia oltrepassato la linea d'ombra o si trovi invece al di qua di essa: "È ancora vivo quell'uomo, o è morto?" (Tutuola 1952, p. 12}.
Di che morte si muore "dopo la colonia"? "Sono talmente tante le morti, che
non si sa più di quale morire" (Labou Tansi 1981a, p. 44). Ma non sono numerosi
solamente i tipi di morte. Lo sono anche i modi di morire. C'è la morte a
seguito di un incidente, o di breve o lunga malattia, in un letto di ospedale.
C'è la morte per avvelenamento o per infarto. Ci sono il suicidio, il proiettile
nel collo. Si muore nella vasca, fulminati. C'è la morte pubblica, cerimoniale,
richiesta a furor di popolo: "Mi trovavo a Camp Boiro (...). Due settimane dopo
il mio arresto una folla di donne poté avvicinarsi tanto alla nostra morte da
urlarci: 'Morte ai traditori, appendeteli per le palle'. Dopo pochi giorni, la
donna che era stata alla testa di quella moltitudine era divenuta una di noi, la
testa rasata a zero" (Sassine 1985, pp. 182-186}. Il "cittadino" viene legato a
un palo, prossimo all'esecuzione. Il plotone è pronto. "Esprima le sue ultime
volontà", dice il soldato. "Non ne ho alcuna", giunge la replica. La condanna
viene eseguita, un proiettile in mezzo agli occhi...
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