Autore Ed McBain
Titolo I morti non sognano
SottotitoloRacconti 1953-2000
EdizioneMondadori, Milano, 2019, Oscar Moderni , pag. 910, cop.rig., dim. 16,5x24x5 cm , Isbn 978-88-04711-99-5
CuratoreRoberto Santachiara
PrefazioneMaurizio de Giovanni
TraduttoreM. Boncompagni, al.
LettoreAngela Razzini, 2019
Classe noir , gialli , narrativa statunitense












 

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Indice


  V Prefazione
    di Maurizio de Giovanni

    I MORTI NON SOGNANO

  3 L'intervista
 22 La donna di Carrera
 32 Robert
 40 Noi due soli
 48 Piccolo omicidio
 61 Una di meno
 64 Bello che morto
 82 L'innocente
 88 Natura morta
102 Rapporto su un incidente

115 Molestie
118 Incensurate
137 La breccia
149 Faccia di gesso
153 Un milione di dollari, forse
170 Smetto quando voglio
185 Libere associazioni
190 Puzzle cinese
206 Come un cavallo
210 I1 fuggiasco

232 Volo mortale
270 Ogni mattina
275 Baciami, Dudley
281 Caldo
294 L'ho visto morire
310 Il grande giorno
327 La muta
335 Testimone oculare
339 Roulette russa
347 Acquazzone

376 Agonia
384 Un bellissimo Natale
391 La prigioniera
404 Occhi belli
412 La fuga
422 Di nuovo viva
435 I turisti
447 Che bella, quell'estate
456 La partner silenziosa
466 Buon anno, Herbie

491 L'ultimo sì
505 Gli squali
521 S.P.Q.R.
534 Le biglie dello zio Jimbo
562 L'Angelo Caduto
577 Cerca di capire
597 Festa di compleanno
617 L'intruso
636 Un taxi per due
655 L'equivoco

672 La stella del cinema
690 La confessione
696 Pornofilm
713 Il catalizzatore
737 Motel
770 Una storia piccola piccola
778 Auto che scottano
789 Natale all'Ottantasettesimo Distretto
805 In fuga da Legs
830 Lezioni di guida

876 Can che abbaia
884 La coppia della stanza accanto
890 La vittima
901 Ma voi ci conoscete


 

 

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Pagina 61

Una di meno



Con un sorriso pigro e appagato, appoggiata ai cuscini del letto, fumava. La spirale di fumo le saliva attorno al viso. Teneva gli occhi chiusi, forse aveva ancora sonno. Un tempo, mi erano piaciuti tanto quegli occhi assonnati, ora non mi piacevano più.

«Come sono contenta, Ben, quando sei a casa.»

«Davvero?» mormorai. Presi una sigaretta dal pacchetto che era sul tavolino da notte, l'accesi e produssi anch'io la mia nuvoletta di fumo.

«Sì, sto proprio bene.»

Guardai senza interesse il suo seno sollevarsi in un sospiro di soddisfazione.

«Detesto il tuo lavoro» disse lei all'improvviso.

«Sì?»

«Sì» insistette, imbronciata. «È come un muro tra te e me. Quando non ci sei, me ne sto qui a letto a maledire il tuo lavoro e a pregare che torni presto a casa. Lo odio, Ben, il tuo lavoro, lo odio davvero.»

«Dobbiamo pur mangiare.»

«Non potresti cambiare, trovarne un altro?»

Era la centesima volta che me lo chiedeva.

«Sì, credo di sì.»

«E allora perché non lo fai?» Si mise a sedere sul letto. «Eh, Ben, perché non ti cerchi un altro lavoro?»

«Perché mi piace viaggiare» dissi. Non ne potevo più di sentirmi ripetere sempre le stesse cose, ogni volta che ero a casa, ma ormai ero deciso e volevo solo sbrigarmi.

Lei sorrise, civettuola. «Hai sentito molto la mia mancanza mentre eri in viaggio?»

«Certo.»

Mi strinse le mani sulla nuca come due ventose e mi passò e ripassò le labbra lungo la mascella.

«Molto molto?»

Mi baciò l'orecchio e, con un piccolo brivido, mi strinse un po' più forte.

«Sì, molto molto» ripetei.

Smise di abbracciarmi e disse: «Ti piace la casa, Ben? Ho fatto tutto come volevi tu, ho traslocato appena è arrivata la tua lettera. Perché non me l'avevi detto prima, Ben? Non sapevo che non ti piaceva vivere in città».

«Avevamo dei vicini troppo curiosi. Meglio qui, in campagna.»

«Ma è un posto così solitario... Sono arrivata la settimana scorsa e non ho ancora visto un'anima, e sai perché? Perché non c'è un'anima.»

Avvicinai la sua faccia alla mia e applicai con precisione la mia bocca sulla sua per farla tacere. Lei mi mise subito le braccia al collo e mi tenne stretto, incollato a sé. Cercai di spingerla un po' in là, ma mi teneva bloccato con tutto il peso del suo corpo e intanto si dava da fare con la bocca così che non riuscivo più a staccarmi. Teneva gli occhi chiusi. Per distrarmi, cercai di ascoltare il canto dei grilli, nella campagna.

«Mi ami?» chiese lei più tardi.

«Sì.»

«Davvero, Ben? Con tutto il cuore?»

«Davvero. Con tutto il cuore.»

«Quanto mi ami?»

«Tanto, Adele.»

«Allora... ma dove vai, Ben?»

«A prendere una cosa che ho lasciato nella tasca della giacca.»

«Ah!» Restò zitta un istante, pensosa. Poi disse: «Ben, se dovessi rifarlo lo rifaresti? Cioè, mi risposeresti? Sceglieresti ancora me come moglie?».

«Certo.»

Aprii l'armadio. Sapevo esattamente dove l'avevo lasciata. Nella tasca destra della giacca.

«Che cos'è, Ben, un regalo?» Si rimise a sedere, appoggiata ai cuscini. «Un regalo per me?»

«In un certo senso, sì.»

L'impugnai e mi voltai di scatto. Lei spalancò gli occhi.

«Ben, ma quella è una pistola! Che cosa fai con una pistola in mano?»

Risi e non risposi. Lei lesse qualcosa nei miei occhi e le si allentarono i muscoli della faccia.

«No, Ben!»

«Sì, Adele.»

«Ben, sono tua moglie, stai scherzando, dimmi che stai scherzando!»

«No, Adele, faccio sul serio.»

Lei tirò giù le gambe dal letto, districandosi dalle coperte che si attaccavano alla stoffa leggera della camicia da notte.

«Ben, perché? Ben, ti prego, ti prego!»

Piangeva, ora, in piedi, appoggiata al muro, e aveva gli occhi sempre più tondi per la paura.

Alzai la pistola.

«Ben!»

Sparai due volte e tutti e due i proiettili le arrivarono al cuore. Sulla camicia da notte apparve il sangue, schizzò come fango rosso sulla parete bianca. Lei cadde in avanti, con lo sguardo spento. Io misi via la pistola, mi vestii e feci la valigia.


Arrivai due giorni dopo. Aprii la porta ed entrai in cucina. C'era odore di carne e patate fritte, un odore che detestavo. La radio andava a tutto volume, come sempre. Feci una smorfia di disgusto.

«C'è qualcuno?» gridai.

«Ben?»

Era sorpresa, ansiosa.

«Sei tu, Ben?»

«Sì, Betty» risposi, senza nessuna particolare espressione nella voce.

Corse a buttarsi nelle mie braccia. Aveva i bigodini in testa e odorava di fritto.

«Ben, Ben caro, sei tornato! Oh, Ben, sapessi come ho sentito la tua mancanza!»

«Davvero?»

«Ben, lasciati guardare!» Mi scostò da sé per un attimo, poi alzò la testa e mi addentò la bocca come un'affamata. Sapeva di fritto.

La spinsi un po' in là, delicatamente. «Ehi,» dissi «calma, a vederti nessuno penserebbe che siamo sposati da tre anni.»

«Lo sai, Ben,» sospirò «che io lo odio il tuo lavoro?»


Titolo originale: One Down

«Manhunt», giugno 1953

Traduzione di Luciana Crepax

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Pagina 206

Come un cavallo



Mia moglie mi stava guardando di nuovo. Faceva finta di leggere il giornale, ma sapevo che mi stava guardando. Sentivo i suoi occhi che bucavano le pagine. Era molto furba e teneva il giornale aperto davanti alla faccia, ma non mi fregava: non più.

«Che cosa stai leggendo?» le ho chiesto.

Ero seduto sulla poltrona, proprio di fronte a lei. Aveva incrociato le gambe, e ho pensato che era un vero peccato, una ragazza così carina e una malattia così brutta, di quelle che non si possono curare nemmeno con le pillole, o l'elettroshock.

«Le vignette» ha risposto.

«Quali? Che vignette?»

«"Pogo." Perché?»

I suoi soliti trucchi. Il classico atteggiamento da avvocato difensore, sempre pronta a rispondere per le rime e a trarre vantaggio da qualunque cosa dovessi dirle. È così che si fanno furbe. Imparano a rigirarsi le cose come meglio credono, e diventano furbe. Solo che io ero comunque più furbo di lei.

«Perché che cosa?» le ho chiesto.

«Voglio dire, che differenza c'è se leggo una vignetta o un'altra?»

«Credevo stessi leggendo qualcosa di cruento» ho detto. Ho sorriso, e lei ha abbassato il giornale e mi ha guardato incuriosita. Forse per un attimo ha sospettato che mirassi a fregarla.

«Cruento?»

«Sì, cruento. Morte e violenza. Sangue a volontà. Cruento, insomma. Cristo santo, non sai cosa significa "cruento"?»

«Certo che lo so, cosa significa.»

«E allora perché mi hai risposto come se non lo sapessi? Volevi mettermi alla prova? Scoprire se lo sapevo io?»

«Non dire sciocchezze. Tutti sanno che cosa significa "cruento". Ero solo sorpresa che me lo avessi chiesto.» Si è stretta nelle spalle e ha risollevato il giornale, ma sentivo i suoi occhi che foravano le pagine e guardavano, senza darmi tregua. Ho fissato il giornale fino a quando non lo ha riabbassato.

«Cosa c'è che non va, Dave?» mi ha chiesto.

Ho fatto un risolino, poi ho stretto gli occhi. «Non c'è niente che non vada» ho risposto.

«Da un po' di tempo ti comporti in modo così... strano» ha detto.

«Forse invece sto cominciando a comportarmi in modo sensato» ho ribattuto.

«Non ti capisco. Era proprio a questo che mi riferivo. Le cose che dici non hanno senso.»

«E la minestra ha senso, invece?»

«Come, scusa?» Faceva la santarellina, come se non sapesse della minestra, e non avesse la minima idea di cosa stessi parlando.

«La minestra» ho ripetuto. «Che problema hai? Non capisci quando parlo?»

«Che cosa c'entra la minestra, adesso? Non ti seguo proprio.»

«La minestra di ieri sera» ho detto, studiandola con attenzione, gli occhi ridotti a fessure.

«Sì, ieri sera abbiamo mangiato minestra.»

«No» l'ho corretta. «Non abbiamo mangiato la minestra. Io l'ho mangiata.»

«Faceva troppo caldo» ha detto, tentando di farsi vedere stanca, fingendo di non sapere dove volevo andare a parare. «Troppo davvero, per mangiare minestra. Non mi andava, tutto qui.»

«Io però l'ho mangiata.»

«Hai detto che ne avevi voglia.»

«Sì, ma l'ho detto prima di sapere che tu non intendevi mangiarla.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Niente» ho risposto. Sono rimasto in silenzio, aspettando di vedere cosa avrebbe detto, ma non ha aperto bocca, perciò ho provato a stuzzicarla. «Ti ha stupito che io non abbia finito la minestra?»

«Non particolarmente. Faceva molto caldo.»

«È vero, ma ne ho mangiati soltanto due cucchiai. Non ti ha stupito?»

«No» ha risposto.

Era molto cauta perché stavamo arrivando al nocciolo del problema, e la cosa non le piaceva. Non potevo fermarmi, ma al tempo stesso mi dispiaceva per lei. Non era colpa sua se era malata, ed era una vergogna che non fossero riusciti a fare niente per aiutarla a guarire. Ero davvero addolorato.

«Ma non ti sei chiesta perché mi sono fermato dopo due soli cucchiai?»

«Ancora con questa maledetta minestra?»

«Esatto. Non abbiamo ancora finito. È una vera fortuna che io abbia delle papille gustative tanto sviluppate.»

«Di che diavolo stai parlando?»

«Del motivo per cui non ho finito la minestra. Dopo averla assaggiata. Ecco di cosa sto parlando.»

«C'era qualcosa che non andava nella minestra?»

Questa sì che mi piaceva. Quell'espressione innocente sul suo viso, e la vocina dolce che fingeva di non sapere niente, come se nella minestra non ci fosse proprio nulla che non andasse.

«No, niente» ho mentito. «Assolutamente. Come non c'era niente che non andasse nei freni dell'auto. O comunque, niente che non si potesse sistemare con sessanta dollari, una volta che me ne sono accorto.»

«Adesso ricominciamo con la storia dei freni» ha detto lei.

«Non ti piace che ne parli, vero?»

«Non facciamo altro da almeno tre settimane. Che cosa ti rode, Dave?»

«Niente, tesoro. Non, c'è niente che mi rode.»

«E allora perché continui a tornare sempre sulle stesse cose? Come facevo a sapere che i freni erano rotti? Come avrei potuto?»

«Oh, no, certo. Non potevi saperlo.»

«Lo vedi? Continui a insinuare che lo sapevo.»

«Non sto insinuando un bel niente. Smettila di travisare tutto quello che dico.»

«Li hai fatti riparare, i freni. Giusto?»

«Certo. Perché mi sono accorto in tempo che erano rotti. Proprio come con la minestra. Appena in tempo.»

«Dave...»

Si è interrotta e ha scosso il capo, e io mi sono sentito di nuovo triste per lei, ma cosa potevo farci? Come potevo continuare a vivere con lei, sapendo quello che sapevo? E come potevo consegnarla nelle mani di gente che, ne ero certo, non avrebbe fatto niente per aiutarla? La amavo troppo per ridurmi a questo. Non sopportavo l'idea di vederla appassire senza il minimo sostegno, chiudersi in se stessa, tagliarsi fuori dalla realtà, sfuggire al mondo che conoscevamo entrambi. Ma al tempo stesso sapevo quanto fosse pericoloso trovarmela tra i piedi e permetterle di studiarmi, aspettando la sua occasione.

«Mi stai sempre a guardare, vero?» le ho detto.

«No. Non passo il mio tempo a guardare te. Dio sa se non ho cose più interessanti da fare.»

«Cosa ho che non va?»

«È proprio quello che vorrei sapere, credimi» mi ha risposto, calcando i toni.

«Non era questo che intendevo, e lo sai. Mi stai travisando di nuovo. E lo fai in continuazione. Cristo santo, Anne, ti rendi conto che sei fuori di testa? Tutti questi attentati alla mia...»

«Fuori di testa? Io?» ha ribattuto, con un profondo sospiro.

Mi sono alzato dalla poltrona e mi sono avvicinato a lei.

«Perché hai tentato di uccidermi, Anne?» le ho chiesto.

«Che cosa? Ma come ti...»

«Il veleno nella minestra, e i...»

«Veleno nella minestra? Dave, ma che diavolo...»

«... i freni manomessi, e il buco sullo scalino per scendere in cantina, e tutto il resto. Credi davvero che non me ne sia accorto, e già da un bel pezzo?»

Mi ha guardato, sbalordita, e mi sono sentito ancora più triste per lei, ma non potevo neanche immaginare di metterla nelle mani di gente che non avrebbe fatto niente per aiutarla, o di consegnarla alla polizia.

L'ho presa per il collo strappandola dalla poltrona; ha spalancato gli occhi, terrorizzata, e ha tentato di urlare il mio nome, ma ho premuto ancora più forte sulla trachea.

Ha continuato a guardarmi per tutto il tempo, con gli occhi di fuori; mi guardava mentre le spremevo tutto il marciume dal cervello, e ha continuato a farlo sino a quando non si è afflosciata tra le mie braccia.

L'ho lasciata cadere sul pavimento e l'ho guardata. Da morta, non sembrava più matta come un cavallo, ma sapevo che lo era e adesso non mi avrebbe più fissato. Mentre lo pensavo, però, non sono riuscito a trattenermi, e ho cominciato a piangere.


Titolo originale; Bedbug

«Manhunt», settembre 1954

Traduzione di Luca Briasco

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Pagina 521

S.P.Q.R.



Epman era un ometto con una testa calva e dei baffi che sembravano sperimentali e temporanei. L'aspetto transitorio dei baffi era causato forse da due fenomeni coincidenti, uno del tutto naturale, l'altro dovuto alla squisita mano dello stesso Epman.

In base all'elemento naturale, i baffi, per il resto neri, erano generosamente spruzzati di un grigio che, invece di conferire all'insieme quel tocco di "finezza" così ricercato, creava semplicemente un'impressione di scarsità, di zone glabre in mezzo alle altre scure. Lasciata a se stessa, la natura avrebbe anche potuto trionfare su quella strana colorazione, ma era a quel punto che Epman entrava nel quadro. Ignaro dell'illusione ottica, Epman aveva contribuito senza volere all'effetto naturale tagliando gli ampi baffi in modo da tenerli molto vicini al labbro. L'effetto complessivo non era molto gratificante. Si sarebbe potuto pensare che Epman si fosse strofinato un dito sporco sotto il naso, oppure, sempre sbagliando, si sarebbe potuto credere che avesse iniziato a farsi crescere quegli sgradevoli baffetti solo due giorni prima.

A peggiorare la situazione, Epman riportava sempre i suoi baffi all'attenzione di chiunque gli fosse stato vicino. A metà di una conversazione, le sue dita si alzavano di colpo, spasmodicamente, per lisciare un baffo che non aveva alcun bisogno di essere lisciato. Il pollice accarezzava un'estremità di quella specie di macchia dai peli radi, mentre l'indice si dedicava freneticamente all'altra. Sam Epman si trasformava allora in un colonnello della cavalleria indiana intento a massaggiare, lisciare, carezzare con vigore un paio di baffi a manubrio inesistenti. La mano si muoveva a intermittenza verso il basso, come se cercasse disperatamente di arginare quella selvaggia crescita pilifera nell'ansia di fondere i baffi con la bocca.

Alle quattro di quel pomeriggio, con l'acquazzone che si era ormai ridotto a una pioggerella lenta ma continua, e col sole romano che cercava timidamente di aprirsi un varco tra la persistente copertura, Sam Epman era in piedi davanti alla lunga finestra della sua suite e, sempre massaggiandosi i baffi con vigore, mi presentò a Peter Wainwright. Un pallido bagliore si rifletteva sul corpo di Epman, così che il suo viso restava una macchia da cui si irradiava soltanto il riverbero fastidioso dell'anello di brillanti che portava alla mano sinistra.

«Sono sempre sorpreso quando mi rendo conto che due scrittori di primo piano non si conoscono» disse con un sorriso, portando di colpo la mano che accarezzava i baffi in giù verso il panciotto, dove un pollice si agganciò automaticamente a una tasca. «In qualsiasi altro tipo di attività, la gente che conta di solito si conosce quanto basta da salutarsi, anche se magari non in modo intimo. Se uno produce pistole a salve, non è ragionevole che debba conoscere i suoi possibili competitori? Persino i proprietari di Gimbels conoscono quelli di Macy's. Ma come vanno le cose con la scrittura e gli scrittori?»

Gli occhi azzurri di Epman scintillarono come se fossero sul punto di rivelare il segreto della nascita a un paio di ostetriche atee. Quegli occhi erano sormontati da folte sopracciglia nere, arruffate, che sembravano decise a compensare la mancanza di capelli e il diradamento dei baffi. Quelle sopracciglia sarebbero potute sembrare anche minacciose, se non fosse stato per il calore che si sprigionava dagli occhi azzurri. Erano stati quegli occhi, forse, a convincermi sin da subito che poteva esserci qualcosa di valido in un progetto che, almeno in superficie, appariva assolutamente ridicolo.

«Tra gli scrittori non c'è alcuna vera competizione» spiegò Epman, compiaciuto della sua analisi. «Scrivere è la faccenda... la professione, scusate... in cui non ha importanza quanti autori di successo ci sono. David Cohen se la prende a male se la gente compra anche un libro di Peter Wainwright? Qui non è come con le pistole a salve, dove, quando ne hai comprata una, non te ne serve un'altra. Di libri c'è sempre bisogno. Quando ne leggi uno buono, in effetti, non vedi l'ora di precipitarti fuori per comprarne un altro. Perciò non c'è alcuna vera competizione. Oh, sì, magari ti brucia un po' quando il libro di un altro scrittore è al numero tre della classifica mentre il tuo è solo al quarto posto, ma non c'è alcuna vera competizione: tu scrivi il libro migliore che puoi e poi lasci il testo al destino. Non devi uscire fuori e lottare con i denti e le unghie per conquistarti quel pezzetto di terra di cui alla fine riesci a impadronirti.»

La mano di Eprnan balzò su dalla tasca del panciotto, massaggiò con forza un'estremità dei baffi e scese di nuovo.

«Quindi, dato che non c'è competizione, non è necessario che voi scrittori vi conosciate. Anzi, questa è sempre un po' una scocciatura. Di che cosa vogliono parlare gli scrittori? Ma di scrittura, di cos'altro? E sarebbe divertente ascoltare un altro scrittore che ti parla della sua nuova trama? Pensate che sia un divertimento, questo?» Scosse la testa. «Gli scrittori evitano gli altri scrittori. Oh, ne conoscono qualcuno, certo. Ma è solo per mantenere le apparenze, perché la gente non dica che sono degli asociali. Ma quanti dentisti credete ci siano che hanno amici al di fuori della loro professione? Forse tre o quattro, ma quelli sono dei vecchi barbogi che hanno già un piede nella tomba. I dentisti frequentano i dentisti, così come i dottori frequentano i dottori e persino i papponi frequentano altri papponi. Ma i migliori amici degli scrittori sono le loro macchine da scrivere.»

Sam Epman sorrise. Aveva una bocca larga che, quando sorrideva, sembrava prendere possesso dell'intero viso. «Dunque, David Cohen,» disse «le presento Peter Wainwright.» Sorrise di nuovo. «Siete due persone così ricche di talento che, nello stringervi la mano, dalle orecchie dovrebbero schizzarvi fuori tanti bei racconti.»

Sollecitati dall'invito di Epman, Wainwright e io ci stringemmo la mano, ma dalle nostre orecchie non schizzò fuori niente. Wainwright indossava un abito nero con una cravatta anch'essa nera, e dava l'impressione di un uomo abituato a vestire in modo così elegante da rasentare la perfezione. Abito scuro, capelli scuri, occhi scuri, un sorriso circospetto e una stretta di mano energica: erano quelle le mie prime impressioni di Peter Wainwright.

«Piacere di conoscerti, Dave» disse Wainwright, e io aggiunsi alle mie precedenti impressioni anche quella di una voce profonda e ben modulata, appartenente a una persona che chiamava per nome un totale sconosciuto dandogli subito del tu. «Ho letto il tuo libro. Un eccellente lavoro.»

«Grazie» risposi. Non potevo dire che avevo letto o apprezzato nessuno dei suoi libri, perché non ero mai stato sfiorato dall'idea di aprirne nemmeno uno. Né potevo indurmi a chiamare quello sconosciuto alto e magro Peter, Pete, o Petey; ma neppure Mr Wainwright, nonostante il suo approccio così informale di poco prima. Sentendomi completamente inadeguato, optai per quell'unica parola, "grazie", e una vigorosa stretta di mano, nella speranza di non sembrare né sciocco né distaccato.

«Ho trovato il titolo del film» disse all'improvviso Epman, interrompendo la scena di quella interminabile stretta di mano che iniziava a diventare imbarazzante. «Se ricordate, quando vi ho parlato al Waldorf di New York, non avevo ancora un titolo. Allora sapevo solo che volevo fare Giulio Cesare, ma sapevo anche che non potevamo chiamare il film Giulio Cesare. Se vuoi aggiornare Giulio Cesare, non puoi chiamarlo Giulio Cesare, giusto? Ma non puoi nemmeno chiamarlo Il grande Julie o roba del genere. Non puoi scegliere un titolo così, perché il film deve avere una certa dasse, e dunque non cominci scegliendo della spazzatura hollywoodiana. E io conosco la spazzatura hollywoodiana da quando avevo diciotto anni e portavo le comunicazioni interne a Irving Thalberg.»

«Lei ha lavorato con Thalberg?» chiese Wainwright con la sua voce profonda e ben modulata. Si protese in avanti con interesse, gli occhi castani vigili nel viso magro, le sopracciglia inarcate per la trepidazione.

«Ho lavorato con tutti. Nominatemene uno e salterà fuori che ho lavorato anche con lui. Tutti i grossi produttori, i registi, le star... Fate qualche nome e vedrete che ci ho lavorato insieme. E se mi parlate di competizione, be', il mondo del cinema non è meno competitivo del campionato di baseball.» La mano sali ad accarezzare i baffi. «Ma sono ancora vivo e vegeto, grazie al cielo, e ho fatto abbastanza grana da poter lavorare da indipendente e pagare i talenti di cui ho bisogno per produrre un film di classe. Signori, questa pellicola non dovrà essere un musical della Metro o un'epopea gangsteristica della Warner Brothers. Ma non dovrà nemmeno essere una di quelle cose in cui un furbone compra un best-seller e poi assume uno sceneggiatore incompetente per millecinquecento dollari alla settimana chiedendogli di rovinare la storia con l'inserimento di idee originali che quello non ha mai avuto in vita sua. No, il mio dovrà essere un film di classe, ed è per questo che ho ingaggiato dei talenti, non degli scribacchini, dei talenti capaci di pensare in modo originale, di prendere una commedia come il .cor Giulio Cesare di Shakespeare, che ha resistito all'usura del tempo da quanto?... tre secoli?... di prendere questa commedia, dicevo, e tradurla in un linguaggio che il normale spettatore cinematografico, il signor Qualunque, può capire senza che si debbano mettere delle didascalie in fondo al film per rendere comprensibili i versi sciolti.»

Lanciai un'occhiata a Wainwright, ma lui sembrava completamente assorbito dalle parole di Epman. Provai di nuovo quella fitta che avevo provato per la prima volta al Waldorf, il mese precedente, quando Epman ci aveva delineato il suo progetto.

«Shakespeare scriveva in latino?» chiese ora Epman, così come aveva chiesto lo stesso giorno del mese precedente nella suite del Waldorf. «No, lui scriveva in versi sciolti elisabettiani, ma la gente che guardava le sue commedie era abituata ad ascoltare questi versi sciolti e li capiva. Quello era un linguaggio compreso immediatamente dalla folla che accorreva al Globe Theatre per divertirsi. E Shakespeare divertiva il suo pubblico. Rubava le sue trame robuste dalle fonti più svariate... da Plutarco, da Thomas Lodge, da Fiorentino. Shakespeare soffiava una buona storia a chiunque fosse stato in grado di metterla nero su bianco. A quei tempi non c'erano le leggi sul diritto d'autore, miei cari signori; perciò, quando lui vedeva qualcosa di suo gradimento, se lo prendeva. Quel figlio di puttana non ha mai concepito una trama originale in tutta la sua vita. Insomma, ha preso queste trame e vi ha scritto intorno delle pagine di gloriosa poesia, ma sono i versi sciolti che funzionano oggi, o è la costruzione delle commedie, il fuoco che cova sotto tutta quella poesia? Ve lo dico subito cos'è.»

Sam Epman accese un sigaro e ci passò la scatola. Wainwright e io rifiutammo. Tirando una boccata, Epman disse: «È la storia. La storia, ecco il segreto. La poesia va bene per i corsi di letteratura inglese. Sto forse cercando di diminuire il valore della gloriosa poesia scritta da quell'uomo? Ma la poesia non vende al botteghino. Nel periodo elisabettiano, sì, lì vendeva perché quello era il linguaggio che la gente dell'epoca poteva capire. Ma oggi la gente non lo comprende. Perciò quel linguaggio sminuisce la commedia, sminuisce la penetrazione psicologica che Shakespeare aveva. Sminuisce, per metterla in termini che voi scrittori potete capire, sminuisce la sua universalità.

«E cosa diavolo è il Giulio Cesare se non universale? Cos'è questa, la storia di un dittatore? La storia di una congrega di patrioti? Scemenze! Questa è la storia di una scalata al potere, ecco cos'è. Potreste ambientare questa vicenda in una città industriale del New England, e funzionerebbe ancora. Perché? Perché l'uomo si è interessato al potere dal momento in cui ha scoperto che poteva colpire in testa un altro uomo con una clava e portargli via dalla caverna la donna e la stuoia fatta con la pelle della tigre dai denti a sciabola. Il potere e il successo: su cosa diavolo ruota il Giulio Cesare se non su questo? E su che cosa ruota la vita oggi se non sul potere e sul successo? Oggi non abbiamo nessun cavernicolo da uccidere. Oggi si può uccidere tutt'al più qualche figlio di puttana di un colletto bianco. Oggi, quando scali il potere, non prendi la Gallia, ma al massimo acquisisci il diritto di dire alla gente quanto sono buone le Chesterfield. Ma questo è il mondo odierno, un mondo in cui ti compri quella Cadillac o quella Mercedes, in cui prendi sottobraccio quella bionda appetitosa, in cui ti paghi i vestiti fatti su misura. Non illudetevi: tra quello che succede oggi e quello che succedeva allora non è cambiato niente. Oggi non si usano le daghe, si usano parole e sorrisi, ma si punta sempre alla stessa cosa, il potere! Ma questo, in fondo, coincide col successo, ed è lì che noi possiamo prendere per i genitali il nostro signor Qualunque, perché il successo o il fallimento, il potere o la mancanza di potere sono qualcosa con cui il nostro personaggio vive ogni giorno della sua vita.»

Sam Epman iniziò a passeggiare avanti e indietro sul pavimento coperto di tappeti della sua suite, un ometto calvo che indossava un abito tropicale grigio e dei calzini antiscivolo di un verde brillante. Continuava a tirare boccate dal sigaro, lasciando una pesante scia di fumo dietro di sé.

«E dunque, su che cosa verte il nostro film? Il nostro film verte sul potere. E noi vogliamo raccontare la nostra storia di potere in una lingua moderna, quotidiana, parlata dalla gente. Vogliamo raccontare la storia di un assassinio politico con dei termini che qualsiasi cittadino degli Stati Uniti sarà in grado di comprendere. Manterremo l'antica ambientazione romana e la stessa situazione di base, ma racconteremo questa storia di una scalata al potere in modo che nessuno possa fraintenderla. La racconteremo perché tutti coloro che vedranno questo film straordinario capiscano che può ancora riguardare le loro vite quotidiane, e che anche adesso, in questo stesso istante, noi stiamo continuando ad assassinare della gente nella nostra sete di potere. Vi sembra che abbia senso?»

«A me pare di sì, e anche molto» disse tranquillamente Wainwright.

Epman si girò verso di me, e io annuii prontamente.

«Volete sapere il titolo?» disse Epman. «Eccovelo, e tenetevi forte. Il titolo è S.P.Q.R.» Fece una pausa a effetto. Wainwright e io gli lanciammo un'occhiata vacua. «Non significa niente per voi?»

«È un crittogramma?» chiese Wainwright.

«No, non è un crittogramma, ma ha un alone di mistero, dovete ammetterlo. Ha anche delle lettere alte due metri che potremo proiettare su uno schermo Cinemascope una alla volta. S...» Scrisse la lettera in aria col sigaro. «... P... Q... R... Non vedete queste lettere materializzarsi sullo schermo? S.P.Q.R., con la musica trionfale dell'antica Roma sullo sfondo, e tra gli interpreti Burt Lancaster o un altro grande attore, mentre i titoli di testa sfilano sovrapposti a una ricostruzione della vecchia Roma, e una strada romana, brulicante di vita, balza agli occhi degli spettatori nelle battute d'esordio di...»

«Crede di poter scritturare Lancaster?» interruppe Wainwright.

Epman liquidò l'interruzione con un gesto impaziente della mano. «Lancaster, Shmancaster,» disse «chi se ne frega di quale star scrittureremo? Perché una star l'avremo, non preoccupatevi; anzi, una bella serie di star. Cosa diavolo sono gli attori se non strumenti su cui un regista soffia per ricavare da loro la musica che tu hai scritto? Quando si hanno i soldi, si hanno anche le stelle. Solo nell'astronomia le stelle sono dei soli che danno la vita. Nella vita vera, invece, le stelle sono nient'altro che una finzione alla quale sottostiamo per rendere felice la gente. Le star sono le divinità romane di oggi, solo che noi non erigiamo statue in loro onore, ma facciamo film di celluloide. Non preoccupatevi delle star, le star accorreranno a bizzeffe. Cosa ve ne pare del titolo?»

«Suona bene,» disse Wainwright «ma non so cosa significa.»

«Dato che è il suo primo giorno a Roma, non può sapere ancora cosa significa. Ecco perché si trova qui, perché deve darsi un'occhiata intorno e prendere confidenza con l'ambiente. Come farà a scrivere di Roma se non si fa un'idea di com'è? Non sarebbe più economico se vi tenessi a New York, invece di ospitarvi qui? Ma è proprio questo che darà classe al film, una ricostruzione dell'antica Roma fino all'ultimo particolare, anche se gli attori si esprimeranno in un linguaggio che tutti potranno capire.» Si girò verso di me. «Lei sa cosa significa S.P.Q.R.?»

«No» ammisi.

«Significa Senatus Populusque Romanus. Che, tradotto, significa: "Il Senato e il popolo di Roma". Questa scritta veniva impressa su ogni proprietà governativa ai tempi degli antichi romani, e la si può vedere ancora oggi in giro per Roma. S.P.Q.R.»

«Era usata anche durante l'epoca di Cesare?» chiesi.

«Non lo so e non me ne importa un accidente. Credo di sì, comunque. Ma se anche la risposta fosse no, chiuderemo un occhio, perché non intendo scartare un titolo eccellente solo perché Giulio Cesare non ci aveva mai pensato.» Fece una pausa. «Allora? Che ve ne pare?»

«Non saprei» disse Wainwright in tono guardingo. «Potrebbe essere un titolo un po' troppo esoterico per l'uomo della strada.»

«Ci sono due parole il cui significato mi sfugge» disse Epman. «Esoterico e uomo della strada. L'uomo della strada sa solo quello che gli si getta addosso negli annunci pubblicitari. Pubblichiamo un annuncio a tutta pagina sul "New York Times", e su un lato mettiamo quelle grandi lettere nere, S.P.Q.R. Sull'altro invece, e per tutta la lunghezza della pagina, mettiamo una pupa vestita con una toga romana, diciamo Calpurnia. La toga è tagliata sul davanti all'altezza dell'ombelico, e il lettore vede tutta la gamba destra della donna fino alla coscia, dove la toga ha uno spacco sul fianco. L'uomo della strada non si chiede più cosa significhi S.P.Q.R. L'uomo della strada dà un'occhiata a quella bambola seminuda e capisce subito che S.P.Q.R. significa SESSO.

«Il giorno dopo compare lo stesso annuncio, solo che sulla destra, invece della pupa, si vede un tizio che pugnala un altro tizio vestito con la toga, e a quel punto l'uomo della strada capisce che S.P.Q.R. significa VIOLENZA. Non c'è nulla di comune nell'uomo della strada se non le sue reazioni. L'unica cosa che lo spaventa è la classe, perché non è sicuro di che cosa sia. Perciò se gli dai qualcosa che ha classe, devi fargli credere che sia spazzatura. E dopo un po', quando lui comincia a credere che la classe sia veramente spazzatura... cosa che è in grado di capire... allora si sente a suo agio. S.P.Q.R. è un titolo che ha classe, credetemi.»

Epman fece una pausa.

«Cosa c'è di così grande in un titolo come Da qui all'eternità, vi spiacerebbe dirmelo? A me sembra una cosa che avrebbe potuto concepire uno come Norman Vincent Peale. Quando compare sullo schermo, è così lungo che metà degli spettatori si addormenta prima ancora di terminare la lettura. Tutt'a un tratto, però, diventa un grande titolo perché è associato a una produzione di successo. Okay. C'è una cosa sulla quale potete scommettere tutto quello che volete. S.P.Q.R. diventerà un film di successo. Sarà il film, maledettamente migliore che abbia mai fatto, e credetemi, ne ho fatti molti. Se non incassiamo quaranta milioni di dollari con questo, mi mangio il copione.» Epman sogghignò, poi passò a esaminare l'estremità del sigaro. «S.P.Q.R.» disse piano. «È un buon titolo. E diventerà un titolo eccezionale quando sarà associato a una produzione di successo.»

«Molta gente» disse Wainwright con la stessa aria di cautela di poco prima «ha la sensazione che il successo sia predeterminato spesso dalla scelta del titolo.»

«Be', tutto quello che posso dire io è che questa gente si sbaglia» replicò Epman. «Prendete Anatomia di un omicidio. È uno dei titoli più ridicoli che abbia mai sentito, e sul libro ci mettono pure una sovraccoperta orrenda. Ma poi cosa succede? Il libro diventa un best-seller per più di un anno. Se parliamo di titoli, potrei citarne qualcuno che non aveva nemmeno senso fino a quando non è stato associato a una delle più grandi produzioni mai realizzate. Cos'è Via col vento? Un'ispirazione? Vi fa piangere? Vi fa ridere? A me, personalmente, fa venir voglia di uscire a comprarmi un cappotto. E cosa vi fa venire in mente un titolo come Lolita? Sembra la storia di una ballerina di flamenco messicana, invece che quella di un tizio che sbava per le dodicenni. I titoli non cominciano dai titoli. Volete sapere il segreto di un titolo? Ve lo dico io. Anche il miglior titolo del mondo non significa assolutamente nulla. Quello che importa sono i lettori e il pubblico che lo vedono e decidono che significato abbia. Questo è un titolo che dice qúalcosa. E per dire qualcosa, non deve dire assolutamente nulla. S.P.Q.R. non dice proprio niente.» Fece una pausa. «Ed è esattamente per questo che dice tutto.»

Epman soffiò una nuvola di fumo e chiese: «Ho ragione sì o no?». Sembrava che avesse rivolto la domanda a me, ma mi fu risparmiata la risposta perché, proprio in quel momento, si aprì la porta esterna della suite. Ci girammo tutti a guardare la porta. Epman si accarezzò i baffi.

«Sam, caro, mi daresti una mano con questi pacchetti, per favore?» disse una voce, e io la riconobbi all'istante perché era quella di Flora Epman, la moglie del produttore. La voce emanava da una piccola rossa sulla cinquantina che, nonostante un ispessimento intorno ai fianchi che si notava a malapena, sembrava il manifesto vivente di quello che le riviste di carta patinata definiscono spesso lo Stile di Vita Americano. Indossava un impermeabile di velluto nero sopra un completo di lino marrone chiaro, con scarpe beige e una camicetta bianca guarnita di pizzi che spuntava all'altezza della gola dalla giacca dell'abito. Con i lunghi capelli rossi arrotolati premurosamente in uno chignon alla base della nuca, e col viso e la gola preservati dalla magia di infinite applicazioni di pappa reale, Flora entrò nella stanza lottando con i pacchetti che reggeva tra le braccia, ed Epman corse immediatamente ad aiutarla.

«Grazie, caro» disse lei, e subito si aggiustò lo chignon con una mano fresca di manicure, una mano su cui luccicava un diamante grande come una casa. «Oh, signori, non mi ero resa conto che foste qui. Spero di non aver interrotto niente. Oh, ma l'ho fatto, vero? Perdonatemi. Me ne starò muta come un pesce.»

«Avevamo quasi finito, Flora» disse Epman. «Ti ho già presentato Mr Cohen e Mr Wainwright, vero?»

«Sì. Dovete scusarmi, signori. So come vanno le riunioni di Sam. Lui non tollera nemmeno il suono del telefono.»

«Be', ma lei ha portato la luce del sole in questa stanza, Mrs Epman» disse Wainwright sorridendo. Io lanciai un'occhiata alla finestra e mi accorsi che, alla fine, il sole era riuscito a forare la coltre nuvolosa.

«Troppo gentile» rispose Flora con uno sguardo che sembrava inconsciamente civettuolo, anche se in un modo regale, come potrebbe essere il sorriso concesso da una regina a una guardia. Quello sguardo era curioso, perché Flora Epman non era bella, mi resi conto, eppure sembrava credere di esserlo, e la sua convinzione era contagiosa. «Vado a togliermi questi abiti bagnati» disse.

«Stavo giusto parlando del titolo del film, Flora» disse Epman. «S.P.Q.R.»

«Sì, è un buon titolo, non credete?» Si tolse l'impermeabile nero, prese una gruccia dall'armadio e si fermò lungo la strada verso il bagno per rivolgersi a me.

«Non lo so ancora» dissi. «Ci vuole un po' perché un titolo possa crescere nella mia immaginazione.»

Flora andò in bagno, apparentemente per appendere l'impermeabile sopra la vasca. Tornò proprio mentre Epman diceva: «Crescerà, crescerà, non si preoccupi. E anche se non crescesse, resterebbe lo stesso un gran titolo. Invece l'unica cosa che cresce all'uomo della strada, per riprendere la terminologia di Mr Wainwright, sono i capelli e le unghie dei piedi».

«Ma Mr Cohen non è l'uomo della strada» disse Flora, lisciandosi la corta giacca dell'abito sui fianchi. «Se lo fosse, non lavorerebbe a questo film.»

«Grazie» dissi, e poi mi chiesi se quello fosse stato un complimento.

«Devo andare a cambiarmi» disse Flora. «Mi si è bagnata persino la biancheria intima.» Abbozzò un sorriso materno, come se sperasse che quel riferimento involontario alle sue mutandine di pizzo non avesse destato un'immagine troppo provocante di sé. «Ci metterai ancora tanto, Sam? Perché vorrei andare di sotto per un cocktail.»

«Ancora qualche minuto» disse Epman. «Tu vai pure a cambiarti.»

«Chiedo scusa» disse Flora, poi sorrise di nuovo e si avviò verso il bagno con una camminata singolarmente poco femminile, anche se le movenze dei fianchi e delle gambe erano quelle associate di solito a una donna dotata di fascino, se non proprio apertamente sexy. Quell'effetto mi lasciò perplesso. La osservai mentre attraversava la stanza. Era alta sul metro e cinquantacinque, suppongo, e camminava con le spalle dritte e la testa eretta, mentre lo chignon alla base della nuca si arricciava con la precisione artistica di una conchiglia di strombo. La vita, anche se cominciava a registrare l'avanzata degli anni, era comunque sottile e scorreva dolcemente nella curva degli ampi fianchi. Lei si muoveva con una fluidità che faceva aderire la gonna a un posteriore sodo e invitante, e le gambe, impeccabili, tanto erano curate, scendevano restringendosi fino alle scarpe eleganti con i tacchi alti. L'effetto avrebbe dovuto evocare una femminilità desiderabile, pur se un po' matura. Eppure c'era qualcosa che mancava.

Si muove come un uccellino spaventato, pensai.

Mi resi conto in un baleno che Flora Epman aveva frequentato Hollywood o Sam Epman da troppo tempo. Il suo zuccheroso lato esteriore forse un tempo era stato solo la copertura di un solido nucleo d'acciaio, ma adesso era abbastanza genuino. Qualsiasi forza Flora avesse posseduto un tempo, adesso era diventata cedevolezza. E nonostante tutti i suoi sorrisi, era una donna smarrita e spaventata. Mi domandai se non fosse stato Sam Epman a ridurla così.

Epman attese che la porta del bagno si chiudesse alle spalle della moglie.

«Per farla breve,» disse «voi siete i ragazzi che dovranno scrivere questo film. Ma dovrete sedervi e lavorare insieme senza nemmeno sapere che marca di sigarette fumate? Impossibile. Perciò mi sono preso la libertà» riprese, muovendosi verso una scrivania a ribalta vicino alle finestre, abbassandone la parte frontale e frugando all'interno, «di comprare delle copie dei vostri rispettivi libri. Tutti dovrebbero prendersi simili libertà, no? Non che a voi servisse.» Sogghignò. «Mr Cohen, di suo ho comprato Il ragazzo dei bassifondi perché questo libro è il solo che lei ha scritto finora. Di suo, Mr Wainwright, ho comprato il più recente che ha scritto, Tamburello, in base all'ipotesi che l'ultimo libro di uno scrittore sia sempre il più riuscito.» Prese i due volumi e li portò con sé attraverso la stanza. «C'è un solo libro per ciascuno» disse con un sorriso: «Anche perché non ha senso che leggiate il vostro libro.» Ci porse i volumi. Io presi la mia copia. Wainwright guardò la sua e la restituì a Epman.

«Questo l'ho già letto» disse.

«Cosa?» chiese Epman, come se non avesse sentito l'elogio che poco prima Wainwright aveva tributato al mio romanzo.

«Pensavo che fosse una buona idea quella di esaminare il lavoro del mio collega» spiegò Wainwright. Poi si strinse nelle spalle con un certo imbarazzo, come uno studente che, in una classe di quaranta persone, sia stato l'unico ad aver fatto i compiti.

«Be', buon per lei» disse Epman. «Ma se non le dispiace, non potrebbe rileggerlo? Voglio che ciascuno di voi due si abitui allo stile dell'altro. Perché dobbiamo coniugare questi due stili diversi nel copione finale, e non bisogna dare l'impressione che a scriverlo sia stata l'Armata Rossa. Perciò applicatevi. Non sarà noioso, credetemi, perché questi sono dei buoni libri. Se non lo fossero, i loro autori non lavorerebbero al mio film.»

Estrasse un piccolo orologio da tasca dal panciotto, lo posò per un istante sul palmo della mano e poi se lo rimise in tasca. «Ci vediamo domani mattina» disse. «Meglio che vada a vestirmi, nel frattempo, altrimenti a Flora verrà una crisi. Grazie per essere venuti.»

«È stato un piacere ascoltare le sue idee, Mr Epman» disse Wainwright. «Sembra proprio che faremo un grande film.»

«Credo di sì» disse Epman in tono riflessivo. «Credo che faremo un grande film.»

Fece una pausa e mi guardò.

Mi schiarii la voce. «Credo che faremo un grande film» dissi.

Epman sorrise. Quindi, con improvvisa energia, disse: «Sentite, mi spiacerebbe se pensaste che vi sto sbattendo fuori, perché è proprio quello che sto facendo, in effetti. A meno che non vogliate vedere un produttore con le gambe pelose rimasto in mutande». Sorrise e si lisciò i baffi, come se quell'accenno ai peli glieli avesse ricordati. Aprì la porta con la mano libera.

«Ci vediamo domani mattina, Mr Epman» disse allegramente Wainwright.

«Bene.» Epman annuì seccamente con la testa calva e chiuse la porta dietro di noi.

Wainwright e io ci fermammo nel corridoio con un certo imbarazzo.

«Ti va di unirti a me per un drink, Dave?» mi domandò lui. Poi sorrise. «O preferisci iniziare a leggere il mio romanzo?»

«Prima i drink» dissi. «Il romanzo dopo.»

Percorremmo il corridoio in silenzio. Suonai per chiamare l'ascensore, dopodiché mi girai verso Wainwright con uno sguardo accigliato e gli chiesi: «Cosa ne pensi di tutto questo? Credi che funzionerà davvero?».

Wainwright annuì prontamente, ma nei suoi occhi c'era la stessa paura che avevo visto emanare da Flora Epman. «Credo che sarà un grande film» disse, e poi, come se non l'avessi già fatto io, suonò di nuovo per chiamare l'ascensore.


Titolo originale: S.P.Q.R.

1963

Traduzione di Mauro Boncompagni

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Pagina 876

Can che abbaia



Quel dannato cane abbaiava di continuo. Rumori lontani che nessun essere vivente avrebbe potuto percepire, nel bel mezzo della notte. Lui - non si sa come - li sentiva, e abbaiava.


«Caro, lo fa per proteggerci» lo difendeva Carrie.

Proteggerci, diceva. Ma se bagnato fradicio avrà pesato a stento quattro chili. Figuriamoci, il suo nome scientifico era "maltese nano".

Proteggerci un cazzo.


Si chiamava Valletta. Che poi è la capitale di Malta. È lì che hanno selezionato la razza, credo. Sarà stato qualche nobile maltese un po' frocio. Un bel giorno avrà deciso che aveva bisogno di un botolo da tenere in salotto, qualcosa che somigliasse a un piumino per spolverare. Nasetto e labbra nere, occhietti porcini. Risultato, un piccolo mostro irsuto che rispondeva al nome di Valletta. E che abbaiava praticamente a qualunque cosa, dalle scoregge alle farfalle. Suonava qualcuno alla porta? Ecco che lo sgorbio si fiondava all'ingresso ringhiando come un grizzly inferocito. Faceva un tale casino da svegliare i morti dell'intera contea.

«Vedi? Fa la guardia» ripeteva Carrie.

Fa la guardia un cazzo.

Lo odiavo.

E lo odio ancora.


In realtà era proprio il cane di Carrie, vedete. Lo aveva strappato da cucciolo alle grinfie di una coppia che ogni giorno lo riempiva di botte. Non fatico a immaginare il perché... Comunque era stato due anni prima di sposarci. All'inizio: pensavo che fosse perfino simpatico. Ai tempi di quando Carrie provava ad addestrarlo. Gli diceva: «Siediti, Valletta», e lui trotterellava via. Oppure: «Fermo, Valletta», e lui abbaiava. «Vieni qui, Valletta», e si bloccava di colpo, come in catalessi. È andata avanti così per sei mesi.

E ancora oggi, non obbedisce a nessuno.


Carrie lo amava alla follia. E lui, come Cerbero, aveva un solo essere al mondo che adorava, Carrie. Be', insomma, se salvate la vita a qualcuno è naturale che si senta in debito con voi. Ma questo andava oltre la semplice gratitudine. Ogni volta che lei usciva di casa, Valletta si piazzava subito dietro la porta e aspettava che tornasse. Provavo ad attirarlo con la sua pappa preferita: «Vieni, Valletta, c'è il tuo pastramino, quello che ti piace tanto». Niente. Mi guardava come se l'amore della sua vita lo avesse abbandonato e non valesse più neppure la pena respirare.

Sentiva la macchina di Carrie arrivare nel vialetto e allora iniziava a uggiolare come un pazzo e spisciazzava tutto in cerchio sul tappeto. Il minuto che lei metteva la chiave nella toppa, cominciava a fare piroette per aria come un acrobata cinese. Quando poi lei apriva la porta ed entrava, si tirava su, sulle zampe posteriori, e partiva con la sua danza rituale grufolando e saltellando tutto intorno. La sceneggiata durava fino a che lei non si inginocchiava accanto a lui e lo pigliava fra le braccia con versetti e moine: «Sììì, Vallettino, ma certo. È la mamma che è tornata. Ma che bravo il mio bambino. Ma che bello il mio piccolino...».


Io, scherzando, mi divertivo a lanciare l'idea di cucinarlo e mangiarcelo.

«Lo sai che il polpettone di maltese viene buonissimo. Prima si svuota dalle interiora, lo si lava ben bene, gli si mette dentro il ripieno. Poi in forno a fuoco vivo per... facciamo un'ora. O magari quarantacinque minuti, dipende dal peso. E per finire, servire con patatine novelle...»

«John! Non dire queste cose neppure per scherzo. Guarda che capisce tutto.»

E infatti lo stronzetto di solito sollevava la testa e mi guardava interrogativo. Faceva finta di niente, il piccolo figlio di cagna.

«Non ti piacerebbe diventare un bel polpettoncino?» continuavo. E lui rispondeva con uno sbadiglio. «Guarda che ti conviene fare il bravo cagnetto, sai? Altrimenti ti rivendo a un filippino...»

«Smettila! Non vedi che capisce. Non dirgli queste cose orribili.»

«Allora non ti va di andare a stare con una bella famigliola filippina?» andavo avanti imperterrito.

«Ma perché gli parli così? Gli fai paura.»

«Nelle Filippine i cagnetti come te se li pappano. Lo sapevi, eh, Valletta? Non ti piacerebbe diventare una bella porzione di spezzatino alla maltese?»

«Basta, che così mi fai impressione.»

«O magari una bella cotoletta alla maltese. Che dici, Valletta, ce lo facciamo questo viaggetto a Manila?»

«Dai, John, piantala! Lascialo stare! Poverino! Lui è il tesorino della sua mamma...»


A quel punto di solito Carrie andava in bagno e la bestia le correva appresso. Si accucciava di fianco alla vasca mentre lei si faceva la doccia e poi, quando usciva per asciugarsi, le leccava le gocce d'acqua dai piedi. Il bastardo non la mollava mai. Neppure quando stava seduta sul cesso a pisciare. E neppure quando in camera facevamo l'amore. Era sempre lì. Accanto al letto, come una specie di maniaco pervertito.

«Scusa, cara, ma... è come avere un pubblico di guardoni ad assistere alla nostra intimità.»

«Ma dai... E poi lui è educato, non è che guarda.»

«Seee, non guarda... Sta lì a occhi sbarrati che non si perde un movimento.»

«Questo non è vero.»

«Sì che è vero, invece. E ti dirò che mi imbarazza anche un po' averlo lì a fissarmi il culo.»

«Il culo? E da quando in qua usi queste espressioni volgari?»

«Da quando lui sta lì a guardarmelo.»

«Via, non sta lì a guardartelo.»

«Come, no. Anzi sembra che disapprovi. Sai che secondo me è geloso. Non gli va che io faccia l'amore con te.»

«Non essere sciocco. Macché geloso, se è appena un cucciolino...»

Sarà anche stato vero. Fatto sta che un bel giorno il cucciolino incominciò ad abbaiare a me.

Andò così. Stavo entrando dall'ingresso principale e il piccolo stupido bastardo stava accucciato proprio in mezzo all'entrata. Be'... non ci crederete, ma cominciò a ringhiarmi e ad abbaiare come se fossi il tizio che veniva a leggere il contatore del gas.

«Cosa?» gli urlai.

Ma non smetteva.

«Idiota! Stai abbaiando a me, te ne sei accorto? Al tuo padrone. Questa è casa mia. Guarda che io vivo qui, brutto nano maltese di merda. Non azzardarti neppure per scherzo...»

«Ehi, ehi, cosa succede qui» accorse Carrie gridando lungo il corridoio.

«Succede che questo fesso sta abbaiando a me» le urlai.

«Cuccia, Vallettino... buono, non abbaiare a John» provò a calmarlo lei.

Assolutamente inutile. L'ossesso continuava come se l'avesse morso la tarantola.

«Allora, brutto cretino, dimmi soltanto che ti piacerebbe diventare un hamburger e ti accontento subito» lo minacciai.

Nulla da fare. Continuò a dare in smanie.


Non ricordo esattamente quando fu che presi la decisione di eliminarlo. Probabilmente fu quella sera che Carrie lo fece sedere a tavola con noi a cena. Fino a quel giorno si era sempre accontentata di tenerlo seduto ai nostri piedi come un lurido mendicante bavoso. Stava lì a osservare col suo sguardo ottuso ogni pezzetto di pane che prendevamo nella speranza che cadesse qualche briciola.

«Stattene pure li,» gli dissi mentre fissava ogni boccone «ma non azzardarti a sperare che ti si dia qualcosa dalla tavola.»

«Dai, John, sii buono...» intervenne Carrie.

«Ma se non riesco neppure a gustarmi la cena, con quello che mi sta a fissare tutto il tempo.»

«Non è mica che sta fissando te.»

«E allora come lo chiami tu quello che sta facendo adesso? Guardalo, è lì che pende dalle mie labbra!»

«Lo sai che hai una bella immaginazione? Secondo me tu sei davvero ossessionato da questa idea.»

«Forse perché non sto immaginandomi proprio niente...»

«E poi, caro, se anche fosse? Chiaramente lo fa per amore. Perché ti vuol bene.»

«Vuol bene un cavolo, Carrie. È te, che adora.»

«D'accordo, ma... dico davvero, vuol bene anche a te.»

«Tu sei pazza! Anzi, guarda... se vogliamo parlare di ossessione, è lui il caso clinico, non vedi? È fissato con te il piccolo bastardo.»

«Intanto non è un bastardo. E poi non è ossessionato. È solo che vuole sentirsi parte della famiglia. Ci vede che mangiamo e vorrebbe mangiare con noi. Dai, su, Valletta... vieni su, piccolino. Vieni a sederti qui fra la mamma e il papà» fece Carrie sollevandolo da terra per piazzarlo sulla sedia tra noi due. «Vedrai che ora la mamma dà un piattino anche a te, ciccino bello...»

Questo era troppo.

«Carrie, basta! Non voglio questo bastardo sacco di pulci a tavola con noi.»

«Ti ho già detto che non è un bastardo» protestò lei. «È di razza purissima...»

«Vallettaaa!» urlai. «Scendi subito da quella sedia prima che ti faccia volare via a calci.»

Per tutta risposta la bestiaccia rognosa cominciò ad abbaiarmi contro.

«Non ci provare nemmeno a toccarlo!» urlò Carrie. «Lo sai che l'hanno traumatizzato... e se fai così penserà che tu voglia picchiarlo.»

«Picchiarlo? E chi vuole picchiarlo? Io voglio semplicemente tirargli il collo.»

E intanto quello andava avanti senza sosta ad abbaiare, abbaiare, abbaiare...

Ebbene sì. Fu proprio allora che mi decisi.


Ottobre era un mese perfetto per morire.

«Dai, Valletta» gli feci un giorno. «Vieni, che andiamo a fare un bel giretto.»

Naturalmente lo stronzo, non appena mi sentì chiamarlo per uscire, andò ad accucciarsi di fronte al televisore.

«Amore, ma non senti che papino vuole portarti a fare la passeggiatina?» intervenne Carrie.

Papino un cazzo, pensai.

Peccato che papino nella tasca del giaccone tenesse pronti i suoi due vecchi amici Mr Smith e Mr Wesson. E avrebbe portato a spasso quel piccolo otre di piscio proprio nel boschetto un po' più a nord della casa. Dove gli avrebbe anche piantato nella zucchetta un bel colpo di 44 Magnum. Poi con quanto restava avrebbe potuto alimentarci un filippino. O magari un bel coyote. O perché no?, con un bel tuffo nel fiume avrebbe ingrassato i lucci.

E poi papino avrebbe raccontato a mammina che - chissà come, chissà perché - il suo amoroso cucciolino - bastardo di merda - quando lui gli aveva fatto un fischio per tornare a casa anziché obbedire era corso via. «L'ho chiamato e cercato dappertutto, cara, ma scappava sempre più lontano fino a che non l'ho più visto. Dio solo sa dove si sarà cacciato...»


«Non dimenticarti il guinzaglio...» Si raccomandò Carrie dalla cucina.

«Certo, cara...» la rassicurai.

«... e stai attento ai serpenti a sonagli» concluse lei.

«Non ti preoccupare. E poi c'è Valletta a proteggermi.»

E in un baleno fummo fuori nel bosco.

Le foglie erano nel pieno dei colori dell'autunno. Ramate sugli alberi, fruscianti sul terreno sotto i piedi. Valletta continuava a tirare indietro il suo guinzaglio di cuoio rosso, impuntandosi fra gli arbusti ogni dieci passi. Testardo come un mulo, nel tentativo di tornare a casa dalla sua amata che lo aspettava. Io insistevo come un giuda a dirgli che eravamo al sicuro, lì sotto gli alberi. «Dai, vieni, bello di papino...» tubavo mellifluo «vieni a giocare, piccolo babau. Non c'è da aver paura qui sotto i rami. Guarda come cadono le belle foglie colorate.»


L'aria era frizzante, rigida come il collare di un prete.

Quando fummo abbastanza lontano dalla casa tirai fuori di tasca la pistola: «La vedi questa?» gli feci, sventolandogliela sotto il muso. «Ora con questa paparino ti farà un bel buchino in testa e Vallettino non abbaierà più. Diventerà il cagnolino più buono e silenzioso del mondo. Capisci cosa ti sto dicendo, vero?»

Capiva. E infatti cominciò immediatamente ad abbaiare.

«Buono! Sta' zitto!» tentai di chetarlo.

Niente da fare.

«Lurida bestiaccia!» urlai. «Zitto!»

Poi, senza preavviso, da quell'animale infido e isterico che era, mi strappò il guinzaglio di mano e scappò come un fulmine. Per un attimo vidi una cosa bianca e pelosa tagliare per il sottobosco tinto di giallo, arancio e marrone. Sibilò come una palla di stracci attraverso il tappeto di foglie, seguito dalla striscia del guinzaglio rosso che sembrava un sottile filo di sangue.

Mi buttai sulle sue tracce. Ero a non più di due metri dietro di lui quando raggiungemmo una radura illuminata dalla luce del sole che filtrava abbagliante tra i rami degli alberi. Lo seguii con la pistola in pugno, tentando di prendere la mira. Proprio mentre il dito premeva il grilletto, dal lato opposto sbucò Carrie: «No!» urlò gettandosi in ginocchio verso di lui per prenderlo fra le braccia. La detonazione dello sparo scosse l'incessante stormire delle foglie. Il cane era balzato fra le sue braccia e contemporaneamente sul petto di Carrie si era aperto un fiore di sangue.

Oddio santo, no!, pensai. Oh Gesù mio, che ho fatto! Lasciai cadere a terra la pistola e mi precipitai su di lei tentando di tamponare il sangue. Ricordo che la tenevo stretta a me mentre quel dannato animale continuava ad abbaiare e ad abbaiare...

Fu l'ultima volta.


Chissà. Forse pensa che lei se ne sia andata via da casa, in un qualche posto lontano e sconosciuto. Troppo distante perché il suo cervellino da botoletto maltese possa anche solo immaginarselo. E in un certo senso è la verità. Ho ripetuto la mia versione così tante volte e a così tante persone che ho finito per crederci anch'io. L'ho raccontata ai suoi familiari, ai miei e a tutti gli amici comuni. L'ho raccontata anche alla polizia, dove quella serpe sospettosa di suo fratello era andata a denunciare la scomparsa: «Sono tornato a casa dal lavoro e lei non c'era. Semplicemente, non è più tornata. Nessun indizio di malessere, mai nessun accenno a volersene andare. Nessuna lettera, nessun biglietto, niente di niente. Tutto quello che mi aveva lasciato era il cane. E pensare che non si è neppure preoccupata di dargli da mangiare prima di sparire...».


Valletta invece si aggira ancora nel bosco per trovarla. Vaga in cerchio intorno allo spiazzo dove - ormai sono passati due anni - il sangue di Carrie ha inzuppato il terreno. La radura in queste giornate è esplosa dei freschi germogli della primavera e lui continua a sniffare in tondo annusando l'erba novella, cercando disperato la sua dea.

Non la troverà mai, ovviamente. Il corpo è avvolto in una tela cerata e sepolto bene in profondità nel bosco, quasi centotrenta chilometri a nord del luogo dove un tempo vivevamo felici tutti e tre: Carrie, io e Valletta.

Ora siamo restati soli, noi due.

E lui è tutto quello che mi resta del ricordo di lei.

Ma non abbaia più.

E io, da parte mia, non gli rivolgo mai la parola.

Mangia quando gli do il cibo, ma poi si allontana dalla sua ciotola senza degnarmi di uno sguardo. Per andare ad accucciarsi al suolo davanti all'ingresso.

E resta lì ad aspettarla.


Onestamente, dire che mi stia simpatico sarebbe troppo.

Anche se ha smesso di abbaiare.

Ma qualche volta... Be', qualche volta, quando gira la testolina per fissare col suo sguardo da folle una farfalla che svolazza... Be', è così carino che me lo mangerei vivo.


Titolo originale: Barking at Butterflies

Murder and Obsession, 1999

Traduzione di Roberto Santachiara

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Pagina 901

Ma voi ci conoscete



All'inizio, Michael pensò che fosse un altro falso allarme.

Ma i bip erano abbastanza regolari.

Impulsi che provenivano a intervalli costanti di esattamente un secondo. Con la precisione di una parte su cento milioni. E tuttavia...

Venti anni prima, sulla TASS, era apparsa la notizia dall'Unione Sovietica che Gennardy Sholomitsky, dell'Istituto astronomico Shternberg, aveva rilevato dei segnali radio emessi a distanze regolari dai quali si poteva comprendere che non eravamo soli nell'universo. Ma i segnali venivano da un quasar, un corpo celeste che emetteva frequenze radio, oltre che radiazioni visibili. Un falso allarme, naturalmente. Dodici anni prima, i sovietici avevano intercettato di nuovo dei segnali radio che loro credevano essere di origine extraterrestre, segnali da una possibile civiltà di Tipo III in base alla scala di Kardashev. Una civiltà in possesso di una forza di trasmissione pari all'energia di un'intera galassia. La TASS diceva che i segnali sembravano provenire da un satellite, e l'idea era che questo fosse una sonda spaziale simile a quella immaginata da Ronald Bracewell a Stanford. Ma in seguito si dovette ammettere, con un certo imbarazzo...

Ecco.

Di nuovo.

E ancora.

Si chiese se dovesse svegliare Lowell.

Erano passati più di undici anni da quando Frank Drake aveva teletrasmesso nello spazio - dal radiotelescopio di Arecibo - il suo "anti-enigma", un "codice concepito per essere decifrato con grande facilità". Da allora, gli ascoltatori di tutto il mondo erano in attesa di un segnale che qualcuno, chiunque, avesse ricevuto e decifrato il codice. Il telescopio che Michael stava monitorando possedeva un'antenna radio in grado di esplorare le galassie vicine a una lunghezza d'onda di ventuno, diciotto e dodici centimetri punto sei. Il messaggio di Drake, nella forma di un pittogramma che usava il linguaggio dell'aritmetica binaria, inizialmente spiegava come contare da uno a dieci, poi passava ai numeri atomici dell'idrogeno, del carbonio, dell'azoto, dell'ossigeno e del fosforo, per finire con i componenti del DNA, la molecola genetica della vita sulla...

Gli impulsi erano troppo regolari e troppo forti per essere ignorati.

Michael accese il circuito di controllo automatico del guadagno.

Lo schermo si mise a fuoco con un effetto accecante mostrando virtualmente un bip.

Nello stesso tempo, la stampante collegata al monitor del computer iniziò a ticchettare producendo un miscuglio di spirali e segni indecifrabili che si disposero all'istante in quelli che sembravano caratteri russi e poi cinesi, e subito dopo in parole inconfondibilmente francesi, tedesche, spagnole e italiane, per poi terminare in un'unica parola: SALVE.

Michael batté le palpebre.

I bip erano scomparsi dallo schermo.

La stampante aveva ripreso a ticchettare.

SALVE, SALVE, SALVE. ABBIAMO RICEVUTO IL VOSTRO MESSAGGIO. MA NON CAPIAMO.

Lui fissò la stampante. "Lowell," pensò "ma dove diavolo sei quando ho bisogno di te? Oh, mio Dio, questo è..."

RISPONDETE, PER FAVORE, SÌ?

Lui posò le mani sulla tastiera del monitor.

"Salve" scrisse prudentemente.

La stampante iniziò a ticchettare.

SÌ, SALVE, SALVE, MA QUESTO L'ABBIAMO GIÀ DETTO, SÌ? SECOLI FA. COSA VOLETE?

Le mani di Michael tremavano sulla tastiera. "Confermatelo, per favore" scrisse. "Avete ricevuto il messaggio? Il pittogramma?"

SÌ, SÌ, SALVE. CON LE SUE FORMULE DELLA TIMINA, ADENINA, GUANINA E CITOSINA. GRAZIE. MA NOI SAPPIAMO COM'È FORMATO IL DNA. LA VOSTRA FOTO DI UN UMANO È BELLA. ANCHE QUELLA DEL RADIOTELESCOPIO. E DEL VOSTRO SISTEMA SOLARE CON I SUOI NOVE PIANETI. MA COSA VOLETE?

"È uno scherzo?" scrisse Michael.

UNO SCHERZO? NO, NO. UNO SCHERZO? NO. ASSOLUTAMENTE NO.

"Allora... chi... cosa...?"

COSA VOLETE?

Michael cominciò a scrivere con foga. Disse a chiunque fosse là fuori che gli scienziati spaziali sulla terra avevano desiderato sempre un contatto, che per tutti quegli anni avevano sempre sperato e pregato che ci fosse un contatto, anche magari un minimo segnale che non potesse essere attribuito a emissioni dovute a radiazioni naturali, un chiaro messaggio dallo spazio a indicare che la ricerca dell'intelligenza extraterrestre non era stata vana. E adesso questo! Ben più di un contatto! Una comunicazione! Una vera comunicazione! A distanza di quanti anni luce, non poteva nemmeno sperare di indovinare. "Dove siete?" scrisse con dita frenetiche. "Chi siete?"

La stampante restò in silenzio per un attimo.

Poi le parole si formarono.

MA VOI CI CONOSCETE.

Michael guardò la stampante, certo di aver letto male quell'unica frase. La stampante cominciò di nuovo a ticchettare.

NOI SIAMO LÌ, dicevano le parole.

"Dove?" scrisse lui. "Siete dove?"

SULLA TERRA.

"Qui?" scrisse lui. "Ma..."

VOI CI CONOSCETE.

"Ripetete" scrisse.

VOI CI CONOSCETE. SIAMO LÌ DA SECOLI. E VOI SIETE STATI DEI PADRONI DI CASA VERAMENTE GENEROSI.

Michael guardò la stampante battendo le palpebre.

VI RINGRAZIAMO PER LA VOSTRA OSPITALITÀ.

"Siete i benvenuti, sul serio, scrisse lui, ma..."

VI VOGLIAMO BENE.

"Ma se siete qui da secoli..."

SECOLI.

"Sulla terra?"

SÌ, SECOLI.

"Com'è possibile?" scrisse lui. "Se siete già qui, perché non vi siete fatti conoscere da noi?"

MA VOI CI CONOSCETE.

"Noi non vi conosciamo" scrisse lui. "Per favore, chi siete?"

CONOSCETE IL NOSTRO NOME

"No, noi..."

IL NOME CHE CI AVETE DATO. VI VOGLIAMO BENE.

"Quale nome? Ditemelo, per favore."

Guardò la stampante.

Si era formata una singola parola.

CANCRO.


Titolò originale: But You Know Us

2000

Traduzione di Mauro Boncompagni

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