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| << | < | > | >> |Pagina 9Era estate. L'avanzata dell'anno, così timida nei primi mesi di primavera, ora sembrava procedere implacabile. Il giorno più lungo, che dava sempre l'idea di presentarsi con un anticipo indecente, era trascorso tra raffiche di vento e una lieve pioggia, ma era stato seguito da una meravigliosa esplosione di caldo, penetrata fin dentro le pietre stesse di Edimburgo. Qua e là sui marciapiedi era comparsa una manciata di sedie e tavolini, popolati da gruppetti di persone incredule di potersi sedere all'aperto, in Scozia, a fine estate. Non poteva durare, lo sapevano tutti. Settembre era alle porte; dopo di che, come aveva ben presente chiunque tranne i meno perspicaci, veniva ottobre... e con ottobre il buio. E il clima scozzese, fedele alle tradizioni nazionali, faceva capire con estrema chiarezza una cosa: tutti i piaceri si pagano, e anche pronta cassa, di solito. In Scozia era un principio rigorosamente rispettato anche dalla natura. Quel panorama di monti e loch in riva al mare era affascinante, sì, ma cos'era che ti svolazzava alle spalle, nel frattempo? Un nugolo di midges, i fastidiosissimi moscerini delle Highlands. Mentre tornava verso Scotland Street, Pat Macgregor passò accanto a quegli edonisti da caffè all'aperto. Aveva attraversato la città a piedi, qualche ora prima, per pranzare con suo padre — sua madre era ancora via, stavolta a trovare l'ennesima sorella «difficile» a Forfar — e lui l'aveva invitata al pranzo del sabato al Canny Man's di Morningside Road. Posto curioso: una vera istituzione di Edimburgo, con i suoi scaffali ingombri di oggetti assurdi e quadri a profusione. Come i trofei appesi alle pareti, i frequentatori del locale offrivano ben più che fugaci motivi d'interesse storico o estetico. Il sabato pomeriggio si poteva incontrare un rinomato cantastorie che si godeva un bicchiere di birra in compagnia di un vecchio amico, oppure, in rare occasioni, capitava di trovarci Ramsey Dunbarton, delle Braids, che molti anni prima aveva interpretato il duca di Plaza-Toro nei Gondoliers al Church Hill Theatre (riscuotendo un notevole successo). Quel giorno non c'erano persone così interessanti. Un uomo dall'aria sorcina in completo blu stava seduto in silenzio in un angolo insieme a una donna; il mutismo che regnava tra i due era interrotto solo di tanto in tanto da un sospiro dell'uno o dell'altra. Lui guardava imperterrito il menu degli open sandwiches, quasi sconfitto da tanta scelta e dalla vita; lo sguardo di lei vagava fuori dalla vetrata, verso la piccola porzione di cielo tra i caseggiati di Morningside Road, sul barista che lucidava i bicchieri, sulle piastrelle del pavimento. Mentre aspettava l'arrivo di suo padre, Pat si ritrovò a interrogarsi su quale percorso avesse condotto quei due a un inaridimento simile: forse una vita di chiacchiere inutili che aveva semplicemente esaurito il suo slancio. Oppure, magari, succedeva sempre così alle coppie sposate. Di sicuro no, si rispose: i suoi genitori erano ancora capaci di guardarsi e di trovare almeno qualcosa da dirsi, anche se spesso i loro discorsi formali la mettevano a disagio, quasi parlassero una lingua che imponeva di mantenere a ogni costo le distanze, come il giapponese di corte. Quando era con Pat, il padre sembrava più a proprio agio. Mentre consultava il menu appoggiato allo schienale della panca del Canny Man's, iniziò una conversazione che prese il solito andazzo, passando da un argomento all'altro secondo facili associazioni. «Questo ovviamente è il Canny Man's» sottolineò. «Ma avrai notato che l'insegna qui fuori dice tutt'altra cosa. C'è scritto Volunteer Arms. Tutti, però – almeno, tutti quelli addentro –, lo chiamano Canny Man's. E quel pub sulla strada per andare a Slateford è noto come il Gravediggers, anche se sull'insegna c'è scritto Athletic Arms. Sono test verbali, non credi? Servono a creare dei distinguo.» Pat lo guardò interdetta. Suo padre si faceva capire, sì, ma non sempre. «Sono fatti per escludere gli altri dalla cerchia degli adepti... proprio come la parola 'adepti' serve a escludere certe persone. Sono parole che servono a dire agli altri: 'E una faccenda riservata. Se non capisci cosa stiamo dicendo, non fai parte del gruppo'. «Perciò, se chiami questo posto Canny Man's vuol dire che fai parte di una cerchia, che sai come vanno le cose qui a Edimburgo. Ed è questo che sotto sotto vogliono tutti, sai? Vogliamo far parte di qualcosa.» Posò il menu sul tavolo e guardò sua figlia. «Sai cos'è l'NB?» Pat scosse la testa e stava per rispondere di no; ma il padre la interruppe con un sorriso e una mano a mezz'aria. «Era una domanda sleale» ammise. «Almeno per una persona della tua età. Chiunque abbia passato i quaranta, però, dovrebbe sapere che l'NB è il North British Hotel, oggi chiamato Balmoral: quel catafalco enorme in fondo a Princes Street. È sempre stato l'NB, finché non hanno cominciato a chiamarlo Balmoral, decisione davvero irritante. Se vuoi mettere in chiaro le cose, far sapere a qualcuno che stavi qui prima di lui e che questa è la tua città, allora lo puoi chiamare NB. Certe persone, perlomeno, non capiranno di che parli.» «Ma perché uno dovrebbe volere una cosa simile?» chiese lei. «Perché amiamo fare allusioni private» rispose il padre. «E, come dicevo prima, vogliamo sentire di appartenere a qualcosa. Cerchiamo semplicemente un po' di sicurezza...» Sorrise a sua figlia. «A proposito dell'NB Hotel, un tempo c'era un poeta eccezionale di nome Robert Garioch. Scriveva poesie su Edimburgo, dedicate alla città e alle sue manie. Ne aveva composta una nella quale osservava le persone che uscivano dal ristorante dell'NB per salire in quella che aveva definito 'una Rolls Royce municipale di dimensioni spropositate'. Bastava quello, capisci? Diceva più lui sulla città della sua epoca in quelle poche righe di quanto facessero molti altri in una cinquantina di pagine.» Si interruppe. «Ma tesoro, avrai fame. E hai detto che dovevi confidarmi qualcosa. Hai detto di aver preso una decisione fondamentale, e io sto qui a tediarti con la semiotica e la poesia di Robert Garioch. È davvero una decisione importante? Importantissima?» «Sì» rispose Pat. «Davvero. Riguarda tutta la mia vita, credo.» «Credi?»
«Sì. Credo proprio di sì.»
Quando sua figlia gli aveva annunciato di aver preso una decisione importante – annuncio buttato lì con nonchalance al telefono prima del loro pranzo al Canny Man's –, il dottor Macgregor aveva provato una fitta di paura dolorosamente familiare. Da quando Pat aveva deciso di passare l'anno sabbatico in Australia, era stato assillato dalla possibilità che la figlia se ne andasse dalla Scozia e decidesse semplicemente di non tornare più. L'Australia era dall'altra parte del mondo, ed era piena di possibilità. Non si poteva biasimare nessuno per essere andato a Melbourne o a Sydney – o persino a Perth – e aver scoperto che la vita da quelle parti era più piena di quella che faceva prima. In Australia c'era molto più spazio, più luce... e poi era vero che là si godeva di una libertà inebriante, proprio quel tipo di libertà che avrebbe fatto la felicità di una diciannovenne. E poi c'erano i ragazzi, particolare che aggiungeva attrattiva al posto. Poteva conoscerne uno e restare là per sempre, ignara del fatto che i vigorosi maschi australiani nel giro di pochi anni si tramutavano nell' homo Australiensis suburbis, gran bevitore di birra e maniaco della versione locale del football trasmessa in tv: farfalle, insomma, che regredivano allo stadio di bruchi. Aveva passato, perciò, dieci mesi d'ansia, a chiedersi se Pat sarebbe tornata in Scozia, e a rimproverarsi perché nutriva simili timori. Sapeva che i genitori sbagliavano a pensarla così; l'aveva detto anche a molti dei suoi pazienti, di smetterla di preoccuparsi dei propri figli, di lasciarli andare. «Dovete riuscire a lasciarli andare» aveva ripetuto in innumerevoli occasioni. «Dovete permettere ai vostri figli di vivere la loro vita.» Ma nel preciso istante in cui pronunciava quelle parole si rendeva conto di che insulse banalità fossero; era difficile dire di lasciar andare qualcuno senza che sembrasse una citazione del Profeta di Kahlil Gibran, che aveva scritto un brano in proposito. Il problema del Profeta era che sembrava un'opera tanto profonda alla prima lettura, ma era uno di quei libri che si superavano col crescere, un po' come i romanzi di Jack Kerouac. Andava benissimo avere Il profeta nella propria libreria a vent'anni o poco più, ma non certo, si disse il dottore, una volta superata la quarantina. Bisogna essere pronti a lasciar andare Il profeta al suo destino. | << | < | > | >> |Pagina 22La spada venne ingoiata e rigurgitata, come previsto. Ci furono sussulti d'ansia e applausi finali. Molti dei presenti dissero ad alta voce che non gli sarebbe piaciuto provare – ah, no grazie! – e si udì Sir Timothy borbottare qualcosa a proposito di Tiziano prima di rintanarsi nella sua galleria. Domenica, che aveva visto spettacoli decisamente più insoliti durante il suo soggiorno in India, si voltò verso Pat e disse: «Private della dimensione religiosa, imprese del genere sono meno impressionanti, credo, rispetto a quelle che alludono alla sfera del sacro. A che serve ingoiare una spada, se a quel gesto non si dà un significato spirituale?» Pat rimase perplessa da quel commento e, mentre attraversavano Princes Street per cominciare a scendere lungo la collina, chiese a Domenica di spiegarsi meglio. «In India qualche volta si vedevano scene del genere» disse Domenica. «Vivevamo nel Kerala, nel Sud cristiano del paese, ma ogni tanto spuntava qualche santone indù a ricordarci degli dei antichi. Alcuni erano fachiri, capaci di camminare sui carboni ardenti, di ingoiare il fuoco, o di altre imprese simili. Lo facevano per dimostrare che lo spirito è in grado di vincere il corpo, di superare il mondo materiale. E si poteva offrire la propria impresa a maggior gloria degli dei, con una finalità religiosa. Invece il nostro mangiatore di spade del Mound non ha in mente nulla di tutto questo, temo. Puro intrattenimento.» Pat sentì di non avere molto da aggiungere in proposito. Non era mai stata in India, e dell'induismo non sapeva nulla, come del resto di molti degli argomenti sui quali Domenica sembrava informatissima. Però era di mentalità abbastanza aperta da ammettere che non sapeva, ed era brava ad ascoltare. Era il suo dono. Le strade erano piene di turisti venuti per il Festival, e le due donne avanzarono lente lungo Dundas Street, interrotte da crocchi di persone piantate in mezzo al marciapiede, alcune con gli occhi vitrei per l'indigestione di cultura, altre intente a spulciare cartine e programmi. Domenica diede indicazioni a una coppia di giapponesi dall'aria sperduta e alla fine si inchinò educatamente, dando il via a una sequela di nuovi inchini e cenni della testa. «Di solito ci trovano molto maleducati» disse. «Basta qualche inchino qua e là per rimettere le cose a posto.» Si interruppe per un istante. «E poi per loro abbiamo un odore un po' rancido, sai. Sono fissati con l'igiene, bagni di vapore e tutto il resto. Per quanto ci laviamo, a noi resta sempre questo leggero olezzo, mi dicono: persino noi edimburghesi, ci crederesti? Sa il cielo cosa pensano i giapponesi di quelle parti del paese in cui non si sta troppo a guardare la pulizia...» Pat sorrise. Questa era una Domenica d'annata. Nessun'altra delle sue conoscenze avrebbe parlato così, e lei lo trovava stranamente piacevole. La sua generazione era troppo timida, costretta al conformismo da una serie di idee inculcate a forza. Si guardò intorno, con aria quasi furtiva. «E quali parti sarebbero?» chiese. Domenica fece un gesto vago con la mano. «Ah, ci sono diverse zone in cui la gente non si è mai lavata granché. Probabilmente perché non c'erano rubinetti e bagni a sufficienza nelle case. I borghesi possono riempirsi la bocca quanto vogliono con l'igiene, ma un tempo per la gente era una gran fatica. «Sai, io avevo una zia che era ufficiale dei corpi femminili della Marina durante la guerra. Mi raccontava sempre che alcune delle sue reclute erano ragazze deliziose, davvero, ma non riusciva mai a fare in modo che si lavassero. Doveva cacciarle nelle docce a forza. Credo che mia zia esagerasse un po', però. Aveva una leggera tendenza a ingigantire sempre le cose. «Ma raccontava delle storie fantastiche, sai. Quando la mandarono alla scuola per ufficiali nel 1940 era in un gruppo di venti donne. Dormivano tutte in queste lunghe caserme di lamiera con il tetto a botte... se vai a Cultybraggen, vicino a Comrie, ne sono rimaste ancora alcune. Comunque, stavano tutte lì, ammassate insieme. E mia zia, che veniva da Argyll, si era ritrovata con gente di ogni tipo. La sua vicina di letto si dava un sacco di arie – suo zio era ammiraglio, o qualcosa del genere – e al momento di arruolarsi si era portata dietro la cameriera. Da non credersi, no? Oggi sembra una cosa fuori dal mondo, ma lei lo fece... e la Marina la lasciò fare! La cameriera si arruolò insieme a lei, e le venne assegnato un letto in fondo alla caserma. Puliva l'equipaggiamento della signora, le lucidava le scarpe, le rifaceva il letto e tutto il resto. Un'assurdità clamorosa, ma nessuno batteva ciglio, a quanto pare. Era un paese diverso, allora, sai. «Sembra, tra l'altro, che questa gran dama bevesse. Ogni notte, dopo lo 'spegnete le luci', mia zia sentiva qualche fruscio dal letto accanto e poi un glu, glu, glu..., mentre la signora si scolava il gin. Tutte le notti! Del resto c'era una guerra in corso, e la gente tirava avanti come meglio poteva. E ce la facevano, sai. Tenevano duro e non si lamentavano quasi mai. T'immagini come ci comporteremmo oggi se dovessimo rimboccarci le maniche e affrontare un altro mostro fascista che ci viene a bussare alla porta? Ci arrenderemmo in quattro e quattr'otto. Non ce la faremmo... proprio così: semplicemente non ce la potremmo fare.» Si interruppe e per un attimo, un solo istante, parve dubitare. «O forse sto commettendo l'errore enorme di tutte le persone della mia età, credere che le cose siano peggiorate con gli anni. Sono peggio adesso, Pat?» Pat fu lieta di avere la possibilità di rispondere. «No, non sono peggiorate. Se le guardi dal punto di vista di quelli della mia età, ora si sta molto meglio di prima. Molto meglio. Pensa al colonialismo. Pensa a cosa succedeva alle persone che lo dovevano subire. Oggi questo non può più capitare.» «È vero» disse Domenica. «Ma visto che accenni a certi valori – autodeterminazione, diritti umani e via dicendo – quello che intendevo è questo: saremmo capaci di difenderli se si arrivasse al dunque? Quei ragazzi che montavano sui loro Spitfire, o quel che erano, allora... molti avevano la tua età, sai. Vent'anni. A volte anche meno. Conoscevano i rischi. Sapevano che sarebbero morti. I tuoi compagni di scuola farebbero la stessa cosa, secondo te? La farebbero adesso? Sii sincera. Che ne pensi?» Pat rimase in silenzio. Non sapeva bene cosa rispondere. Ma poi le venne in mente: alcune delle ragazze l'avrebbero fatto. Forse era quella la differenza. Eh già. | << | < | > | >> |Pagina 38Bruce stava ancora con Sally, la ragazza americana che aveva conosciuto al Cumberland Bar. Il loro rapporto non era progredito quanto aveva pensato Bruce, e lui aveva deciso che sicuramente non le avrebbe chiesto di sposarlo, ma era una situazione che faceva comodo a entrambi: si vedevano un paio di volte alla settimana, di solito al Cumberland Bar, e poi andavano al 44 di Scotland Street, dove avevano modo di proseguire la conversazione.«Lo trovo un po' palloso» aveva scritto Sally in un'e-mail alla sua amica Jane, che abitava a Nantucket. «Non li conosci gli scozzesi, vero? Be', adesso ti racconto un paio di cose. Di solito sono pallidissimi, come se fossero rimasti troppo tempo chiusi in casa, cosa che spesso è vera (anche se devo ammettere che Bruce è proprio bello, e dopo qualche mese in Arizona o in un posto del genere sarebbe ancora meglio). Gli piace bere, e non la finiscono più – ore e ore, davvero – di parlare di calcio, anche quelli un po' più civili (quelli che si incontrano al Cumberland Bar... dovresti vedere gli altri!). Bruce di calcio non parla, ma compensa con il rugby. Probabilmente tu non sai neanche cos'è il rugby, Jane. È uno sport stranissimo, che somiglia un po' al football – quello vero, quello che si gioca da noi –, ma senza i paraspalle. È una cosa tribale. Corrono avanti e indietro su un campo tutto infangato e si buttano a terra a vicenda con degli abbracci. Non credo che li chiamino così, ci dev'essere un'altra parola, ma sono proprio degli abbracci. E si va avanti in questo modo. «Bruce per un paio di mesi va anche bene, credo. (Okay, d'accordo, mi sono stufata. Ma non puoi farmene una colpa se mi annoia.) Ma mi piacerebbe tanto – tantissimo – conoscere un ragazzo simpatico e normale – capisci? –, come quello che hai incontrato tu a Dartmouth (com'è che si chiamava? Ti ricordi?!?). Ma da queste parti non esistono proprio. Insomma, mi accontenterò di Bruce ancora per un po' prima di scaricarlo, poi torno a casa e ci possiamo vedere, così mi presenti qualcuno. Ci stai?» E Jane aveva risposto: «Non preoccuparti. Ho conosciuto un ragazzo troppo carino a una festa dai Martinson e lo sto tenendo da parte per te! Gli ho raccontato tutto di te ed è molto interessato. Torna presto, dai. Non ti sembrerà vero quando lo vedrai. Si chiama Billy, a proposito. Non è un nome carino? E va a Yale». | << | < | > | >> |Pagina 46Per Bertie non era stata un'estate molto bella. Aveva pensato — come tutti i bambini — che i mesi estivi non sarebbero mai finiti, una lunga, confusa sequenza di giorni pieni d'avventure ed emozioni. E invece l'estate si era rivelata diversa. Tanto per cominciare, non erano quasi usciti dalla città nonostante le sue ripetute richieste di andare da qualche parte... da qualunque parte. Sarebbero andate bene anche le Pentland Hills. Aveva sentito dire che lì c'erano dei lochs in cui si potevano pescare le trote. Un bambino che stava in Fettes Row aveva raccontato a Bertie di esserci andato con suo padre: avevano preso due trote a testa. Era facile, diceva il bambino; si metteva la mosca in acqua e la trota saltava fuori per mangiarsela. «Ci riuscirebbe anche uno come te» aveva aggiunto. «Posso andare a pesca sulle Pentland?» aveva chiesto Bertie a sua madre. «Quel bambino che sta in Fettes Row è andato a pescare con suo papà e hanno preso due trote. A te piace la trota, mamma. Potrei prendertene qualcuna. E potrei prendere anche le mandorle da mettere sopra la trota.» «Se è una battuta, Bertie» disse Irene con aria severa, «allora non fa ridere. La pesca è una crudeltà. Pensa alla povera trota che nuota nel suo loch; a un certo punto arriva un bambino sgarbato di Fettes Row, la tira fuori dall'acqua, e fine della trota. Vorresti davvero fare una cosa del genere? Sono sicura di no. Comunque, non ci possiamo proprio andare sulle Pentland. Tuo padre ha parcheggiato la macchina da qualche parte e adesso dobbiamo trovarla. Ma ora non ho proprio tempo di cercarla.» Bertie ci pensò su un momento. «Ma tu la trota la mangi, vero? La mangiate sia tu che papà. Vi ho visto. Mangiare le trote non è crudele come pescarle? Che differenza c'è?» «C'è una differenza importante» disse Irene. «Te la spiegherò prima o poi, ma non in questo momento.» Si interruppe. «Bertie, sai che la mamma fa del suo meglio per te, vero? Lo sai che ti vuole tanto bene e vuole solo che tu sia felice?» Bertie guardò per terra. «Sì» disse a bassa voce. «Solo che non mi sembra di divertirmi molto. Vorrei divertirmi un pochino di più. Quel bambino di Fettes Row si diverte più di me.» «Oh, Bertie, non dire così! Pensa a quante cose divertenti fai! C'è il sassofono... quello ti piace tanto. Scommetto che quel bambino non sa suonare il sassofono, anzi, non sa suonare niente. Tutti sono capaci di pescare... ma non ci sono tanti bambini che suonano il sassofono. Poi hai le lezioni d'italiano, lo yoga e poi...» Irene stava per aggiungere «la psicoterapia», ma si trattenne. Non sapeva bene se Bertie si divertisse quanto lei, e forse era meglio non citarla in quella conversazione. A Bertie la psicoterapia non piaceva per niente. Non che detestasse il dottor Fairbairn, noto psicoterapeuta e autore di un saggio molto innovativo su un piccolo tiranno di tre anni, Wee Fraser; no, non gli dispiaceva quell'uomo... il problema era che Bertie trovava il dottor Fairbairn insondabile e bizzarro. Anzi, Bertie era convinto che il dottore fosse matto e che l'unica strategia possibile fosse assecondarlo, nella speranza di evitare di essere bersaglio delle sue imprevedibili ire. Questa strategia accomodante aveva ottenuto l'effetto desiderato sullo psicoterapeuta. Il dottore trovava Bertie sempre più collaborativo e riteneva che nella psiche del bambino ci fossero profondità che avrebbero meritato uno studio accurato. Forse ne poteva anche uscire un articolo: qualcosa per il «British Journal of Child Psychotherapy», o magari per «Studia Kleinia». Ma era un obiettivo a lungo termine; il compito più immediato, secondo il dottor Fairbairn, era scoprire quali dinamiche fossero all'opera nell'ego ancora in pieno sviluppo di Bertie, per appurare quali blocchi gli impedissero di creare una personalità più integrata. Il dottor Fairbairn era una specie di pioniere, e una delle tecniche da lui sperimentate si chiamava «Metodo degli elenchi di Fairbairn». Il piccolo paziente era invitato a scrivere un elenco delle cose che più lo infastidivano, mettendole in ordine di importanza. Non era una novità in psicoterapia; anzi, alcuni comunissimi genitori, del tutto digiuni delle tecniche di Freud e Melanie Klein, avevano usato proprio quel sistema per prendersi cura dei propri figli infelici o problematici. «Dimmi cosa ti preoccupa: scrivilo e poi lo guardiamo insieme.» Benissimo, certo, e in molti casi era d'aiuto identificare i punti conflittuali nella relazione genitore/figlio. Ma ciò che rendeva la tecnica del dottor Fairbairn così avanzata era che oltre a elencare le fonti di problemi o insoddisfazioni, il bambino veniva invitato ad aggiungere, in una colonna separata, il nome della persona che considerava responsabile di quello stato di cose. Secondo il dottor Fairbairn, ne usciva uno spaccato diretto e assai utile sulla visione che il bambino aveva delle dinamiche da cui scaturivano i problemi. Aveva chiesto anche a Bertie di farlo. «Voglio che tu faccia un elenco» aveva detto il dottor Fairbairn, dandogli un foglio. «Voglio che tu scriva un elenco di cose che ti rendono infelice: cose che non ti piace fare e che vorresti cambiare. Poi tracci una freccia da ogni punto dell'elenco — una bella freccia lunga, con le penne se preferisci — e alla fine della freccia scrivi il nome della persona responsabile di quella specifica cosa. Vuoi che ti faccia vedere come si fa, Bertie?» «Sì, grazie» rispose il bambino. «Lei faccia il suo elenco, dottor Fairbairn, e io faccio il mio.» Il dottore si mise a ridere. «Non farò un elenco completo. Non sei il mio psicoterapeuta, Bertie! Ricordatelo! Ne farò uno breve giusto per darti l'idea... ecco, passami la matita. Un elenco di due o tre cose.» L'illustre psicoterapeuta prese la matita che gli porgeva Bertie e scrisse in fretta qualche riga. «Ecco» disse. «Guarda, si fa così.» Bertie guardò l'elenco del dottore. Cosa diavolo voleva dire? E quella parola, cos'era? Non l'aveva mai sentita prima. Avrebbe dovuto cercarla, alla prima occasione. Ora toccava a lui. Il dottor Fairbairn gli passò un foglio bianco. Bertie prese la matita e guardò il soffitto. C'erano così tante cose sbagliate nella sua vita che era difficile decidere da che parte cominciare. Fare la classifica sarebbe stato complicato; attribuire le colpe molto, molto più facile. | << | < | > | >> |Pagina 69«Sediamoci sopra, Bertie» disse Irene. «Possiamo guardare fuori e vedere cosa succede sul marciapiede.»Trovarono posto al piano di sopra e si sedettero. Bertie rimase in silenzio mentre l'autobus prendeva la via del ritorno. Si guardò la macchia di terra sul ginocchio dei pantaloni, quella provocata dall'aggressione ai suoi danni da parte del povero Tofu, ormai condannato. Aveva ragione Olive quando diceva che quel bambino stava morendo di fame? Possibile che al giorno d'oggi, con il partito Laburista al governo, qualcuno fosse lasciato morire d'inedia? No di certo. Anche Irene era immersa nei suoi pensieri. L'autobus si era fermato vicino a un bancomat, e lei notò un giovane, con una coperta sulle gambe, seduto sul marciapiede accanto allo sportello. Quando le persone andavano a prelevare, il ragazzo alzava lo sguardo e chiedeva qualche monetina. Quella vista la riempì di rabbia. Non era menomato, giusto? Era abbastanza giovane per poter lavorare, o per chiedere il sussidio se non trovava lavoro: che diritto aveva di infastidire la gente a quel modo? Le persone, pensò, dovevano poter prelevare senza essere sottoposte ad alcun tipo di pressione. E la polizia dov'era? Tollerava cose del genere senza muovere un dito? A quanto pareva, sì. Si interruppe. Dovrei pensarla così? si chiese. Come... Si rispose da sola: come una conservatrice. Il problema era che negli ultimi tempi ogni volta che i Conservatori facevano una dichiarazione, lei era sempre d'accordo. Si sentiva a disagio, per come la vedeva lei, e scacciò quel pensiero dalla testa. Poi però le venne in mente: forse sono una donna di sinistra conservatrice. Sembrava molto più apprezzabile di una conservatrice di sinistra. Ma la differenza, di preciso, dov'era? | << | < | > | >> |Pagina 276Incoraggiata a proseguire, Domenica prese dalla pila uno dei libri, gli diede un'occhiata pensierosa e lo rimise a posto. «Volevo andare all'Avana prima che succedessero due cose. In primo luogo, prima che crollasse tutto. Lo sapevi che ogni anno si sfasciano un centinaio di quei deliziosi palazzi antichi che ci sono a Cuba? E poi volevo andarci prima che gli americani ci mettano sopra le mani. Non sono una che ama parlar male degli Stati Uniti, ma la verità in questo caso è che gli americani tengono il fiato sul collo a Cuba fin dall'inizio dell'Ottocento, e continuano a farlo. Non posso credere — davvero, mi rifiuto di farlo — che l'americano medio, se sapesse come l'America ha trattato nel corso dei secoli quell'isola incantevole, proverebbe altro che vergogna. Vergogna allo stato puro. Cuba è stata maltrattata da tutti. Gli spagnoli prima si sono dimostrati dei puri e semplici assassini. E poi l'hanno depredata. Anche noi abbiamo fatto la nostra parte. Poi gli americani hanno cercato di comprarsela. L'hanno occupata. L'hanno trattata come il cortile di casa. A dirigere la baracca è andata la mafia. Hanno costruito alberghi di lusso, dove i boss tenevano le loro riunioni. Poi sono spuntati Castro e compagni e sappiamo tutti com'è finita. Migliaia e migliaia di persone imprigionate, tenute sotto scacco. Poveri cubani. Sempre così.»Pat si chiese cosa c'entrasse questo con i cani, e Domenica colse la sua perplessità. «Ti chiedi perché ne parlo a proposito di cani, vero?» «Più o meno» rispose Pat.
«I cani c'entrano eccome» rispose Domenica. «I cani cubani, devi sapere,
sono molto speciali.»
«Sono arrivata all'Avana di notte» disse Domenica. «È un buon momento per arrivare in qualsiasi posto, perché non hai modo di vedere molto, ma la mattina, quando apri le persiane, ti ritrovi in un mondo nuovo. Mi sono sentita proprio così. La mia camera aveva un balcone che dava sui tetti, di fronte alla torre più bella che io abbia mai visto. Si trovava in cima a una specie di palazzetto tutto decorato, con delle arcate piccole e le finestre dipinte di quell'azzurro chiaro che va tanto a Cuba... quasi turchese. Quando ho abbassato lo sguardo sulla via che passava davanti al mio palazzo, non ho visto altro che costruzioni a tre o quattro piani con le facciate decorate di stucchi, tutte bianche, gialle o rosa scolorite. Ringhiere in ferro battuto. Non ho mai visto tanta bellezza in una città. Mai. Nemmeno in Italia. Nemmeno a Siena o a Vienna. È un'architettura stupenda, molto femminile. «Il problema della bellezza dell'Avana, però, è che è così decrepita. Tanti di quei palazzi meravigliosi stanno tirando le cuoia. La gente non può permettersi di ripararli. Non ci sono soldi. Quando non c'è denaro a sufficienza nemmeno per mangiare o comprare il sapone e cose simili, di sicuro non te ne resta abbastanza per le ristrutturazioni, non credi? «Perciò si passa accanto a questi palazzi in cui sono crollati piani interi, oppure alcune stanze di ogni piano. Eppure la gente che abita nelle stanze accanto a quelle crollate al suolo continua a viverci come se niente fosse. Si vedono dei buchi nei palazzi, come denti mancanti, e dietro uno spazio vuoto si nota una finestra illuminata, a riprova che c'è gente che resiste in mezzo a quelle macerie pericolanti. «Avevo un'amica che abitava in un palazzo come quelli. L'avevo conosciuta in Giamaica, a un convegno di antropologia, qualche anno prima, ed eravamo rimaste in contatto. I cubani cercano amici a tutti i costi. Sono persone affascinanti e simpatiche, che vogliono far parte del mondo come tutti noi. Perciò scrivono, non appena si possono permettere il francobollo. «La mia amica mi ha chiesto di essere ospite a casa sua, ai margini della città vecchia. La scalinata per arrivare all'ultimo piano, dove abitava lei, era piuttosto inquietante, con dei grossi buchi sugli scalini. Bisognava guardare dove si mettevano i piedi. Casa sua era composta da tre locali. La cucina, e altre due stanze. In una viveva lei con il bambino piccolo, mentre suo marito, da cui era divorziata, occupava l'altra. Già: lei aveva ottenuto il divorzio perché lui la tradiva e la maltrattava, eppure erano intrappolati lì dentro insieme, perché nella società cubana è difficile traslocare, a meno di non seguire un iter complicato e costoso per scambiare l'appartamento con quello di qualcun altro. Loro non se lo potevano permettere. Perciò, stando così le cose, dovevano continuare a vivere sotto lo stesso tetto e condividere la cucina e il bagno. E per entrare in camera sua, lui doveva attraversare quella della ex moglie, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Te l'immagini? «Ciò nonostante, come molti cubani, la mia amica aveva un cane, una bestiolina di nome Basilio. Voleva che suo figlio ne avesse uno, perciò l'aveva preso. A Cuba il cibo è razionato, e non si ottiene nient'altro se non si hanno soldi da spendere, cosa che lei non aveva. Perciò Basilio mangiava parte della razione già povera e a malapena sufficiente che spettava alla mia amica. Insomma, si toglieva letteralmente il pane di bocca per lui. «Uscendo per la strada o in una plaza, si vedevano piccoli branchi di cagnolini che giravano per la città tutti allegri. Non erano randagi, ognuno aveva un padrone, e tutti avevano qualcuno che gli era affezionato. In altre città, ai cani senza collare di solito si dà la caccia. Vengono catturati, portati al canile, e poi gli fanno l'iniezione letale. Questi, invece, giravano tutti contenti. «In un certo senso, mi è parsa una metafora della società cubana. Quei perritos così allegri, nonostante tutte le tremende privazioni materiali a cui erano sottoposti. Le sopportavano con tanto buonumore, proprio come sembrava fare la gente intorno a loro. Tutti quanti, cani e padroni, con il sorriso di fronte a una povertà continua e opprimente. «E questo potrebbe essere parte del problema, tra l'altro. Il comunismo ha miseramente fallito a Cuba, proprio come sembra aver fallito altrove. Non sembra sia stato proprio in grado di provvedere ai bisogni materiali della gente. È sopravvissuto solo attraverso la soppressione della libertà... sono molte le accuse che gli si possono muovere. E se le persone non fossero di indole tanto buona, si sarebbero già rivoltate con rabbia, per esigere libertà, esigere risposte più adatte ai bisogni materiali, proprio com'è successo nell'Europa dell'Est. Invece no. Continuano a ballare, a fare musica e conservare il senso dell'umorismo. È un'impresa notevole e piuttosto triste: è penoso pensare che devono esserci state tante persone che in cuor loro volevano creare una società buona, gente convinta di fare la cosa giusta, per poi scoprire che era andato tutto a rovescio, che tutto quello sforzo portava con sé bugie, distorsioni della verità, repressione, e che tutto quanto andava in malora. È quello che è successo. Persino le scritte che inneggiano alla vittoria cadono in pezzi. E la popolazione, non appena si presenta una mezza possibilità, scappa, per pura disperazione, sfidando qualsiasi pericolo. «E in attesa dietro le quinte ci sono quelli che si fregano le mani, al pensiero che manca poco perché il paese intero si ricopra di fast food, i porti si affollino di navi da crociera piene di turisti viziati, prostitute e magnaccia spopolino e quella cultura così bella e affascinante finisca travolta dal diluvio. «La globalizzazione, mia cara. E così sul nostro vasto mondo incantato, un mondo vivo, di canzoni, musica e diversità culturale, viene scritta la parola fine dalla rozzezza, dalla falsità, dalla stupidità, dalla prepotenza.» Domenica tacque. Ora stava guardando per terra. Pat non aveva nemmeno iniziato le storie che voleva raccontarle, ma ormai non poteva più. Non dopo una storia così triste. Perciò finì il caffè in silenzio e chiese a Domenica di scusarla: ne avrebbero parlato in un altro momento, un altro giorno. Domenica capì. | << | < | > | >> |Pagina 302Will Lyons aveva di meglio da fare che andare a trovare Bruce, ma accettò, per pura gentilezza, di passare al 44 di Scotland Street quella sera, poco prima delle otto. Non si poteva fermare a lungo, spiegò, perché aveva del lavoro arretrato. Aveva iniziato da poco a scrivere una storia del commercio di vini a Edimburgo, e la stesura procedeva, seppure a rilento. Era una sensazione piacevole vedere la pila di pagine crescere sempre di più ma, come ogni scrittore, Will sapeva di dover salvaguardare gelosamente le ore libere in cui poteva scrivere. C'erano intere storie da scrivere, storie che non erano mai andate oltre il primo capitolo, o addirittura oltre l'introduzione. Will sospirò mentre saliva gli scalini diretto all'appartamento di Bruce. Non gli stava particolarmente simpatico, quel giovane, lo trovava supponente e ignorante in pari misura. Aveva cercato di metterlo sull'avviso sui rischi che correva ad avventurarsi nel mondo del commercio di vini, ma i suoi avvertimenti erano caduti nel nulla. Era evidente che Bruce non aveva neppure le basi più elementari per gestire un negozio di vini. E non possedeva nemmeno le nozioni e il gusto necessari per gestire un'enoteca in un quartiere come la New Town di Edimburgo, dove c'era una concentrazione elevatissima di persone supponenti ed esigenti, molte delle quali perdipiù si davano arie da intenditori di vini. Qualsiasi attività di Bruce era destinata a fallire: l'unico dubbio era quanto tempo avrebbe richiesto il fallimento e quanto clamoroso sarebbe stato. Bruce aprì la porta al suo ospite e lo fece accomodare. Aveva preparato il caffè, e andarono in cucina per sedersi al grande tavolo di pino levigato. «Vedo che hai conservato le lastre di pietra originali» disse Will, indicando il bel pavimento. «Per il momento» rispose Bruce. «Non sono ancora riuscito a dargli una sistemata.» «Una sistemata? A me sembra in buone condizioni.» «Intendo ammodernarlo» rispose Bruce. «Vorrei un effetto-quercia. Ci sono dei pavimenti nuovi che sembrano proprio come quelli di quercia. Sfido chiunque a notare la differenza. Costano un po', però.» Will non commentò. Il suo sguardo era stato attratto da una bottiglia su uno scaffale li accanto. Poteva essere...? Era davvero...? «Sì» disse Bruce allegro, notando dove puntava il suo sguardo. «Un Pétrus. Ti va di dargli un'occhiata?» «È un ottimo vino» disse Will. «Molta gente lo considera il migliore al mondo, sai?» «Ah, lo so. Per questo ne ho preso una scorta.» «Scorta?» Bruce finse nonchalance. «In effetti ne ho comprate tre casse per il mio nuovo negozio. Ho pensato che, visto com'è fatta Edimburgo, potesse essere richiesto. C'è molta gente danarosa da queste parti, sai... gente pronta a sborsare un bel po' di quattrini per cose del genere.» «Ah, lo so» rispose Will. Sbirciò la bottiglia sullo scaffale. «Ti spiace se do un'occhiata?» «No, certo» disse Bruce. «Anzi, ti va di assaggiarne un bicchiere?» Will inarcò un sopracciglio. «Molto generoso» rispose. «Ma non volevo...» «Ma certo» disse Bruce alzandosi in piedi. «Aspettavo anch'io l'occasione di assaggiarlo, e chi meglio di te per condividerlo?» Attraversò la stanza e prese la bottiglia dallo scaffale. Poi la passò a Will, che la esaminò con attenzione. «Ottima annata» disse. «Immagino tu sappia che è un vino di grande valore.» Esitò. «Suppongo di sì, se ne hai comprate tre casse.» Bruce non si scoprì. «Sì» rispose con un sorriso. «Non è un vino da quattro soldi, questo è sicuro. Ma a cosa serve averlo se non si è disposti ad assaggiarne un bicchiere di tanto in tanto?» Prese un cavatappi e lo passò a Will. «A te l'onore.» Will liberò con cura il tappo dalla copertura e ne osservò la sommità. Poi, mentre Bruce prendeva i bicchieri dalla credenza, inserì con delicatezza il cavatappi nel sughero e lo fece risalire dal collo della bottiglia. Ne uscì con uno schiocco soddisfacente e Will lo annusò subito. Sorrise. «Fin qui tutto bene» disse. «Adesso, se mi passi i bicchieri, vediamo cosa abbiamo tra le mani.» Mentre gli dava i bicchieri, Bruce aveva un'espressione carica d'ansia. Ecco, pensò amareggiato, l'ora dell'umiliazione... anzi, dell'umiliazione definitiva, dopo tutto quello che gli era andato storto negli ultimi mesi: la storia con quella presuntuosa ragazzina americana, il licenziamento da quella ridicola agenzia, la Macauley Holmes Richardson Black, e infine il tradimento di George e di quell'insaccato della sua fidanzata. Chiuse gli occhi per un attimo, senza quasi osar guardare il liquido rosso scuro che Will stava annusando e faceva roteare nel bicchiere. Guardò affascinato l'uomo mentre assaggiava un sorso di vino e se lo faceva rigirare in bocca, inspirando aria dalle labbra. Nervoso, sollevò il bicchiere anche lui e lo assaggiò. Gli sembrava a posto – anzi, piuttosto buono – ma poi, in un raro momento di sincerità, si disse: ma io che ne so? Will guardò Bruce. «Che schianto!» disse. Bruce restò perplesso. «Schianto?» «Un vino splendido» proseguì Will. «Corposo, maturo... eppure conserva eleganza e durata. Si capisce perché è tanto apprezzato. Lo si capisce davvero.» Più tardi, dopo che Will se ne fu andato dall'appartamento, Bruce andò in bagno a guardarsi allo specchio. Aveva il viso infiammato dal trionfo, e nelle orecchie gli risuonavano ancora le ultime parole di Will. Il suo ospite gli aveva spiegato che a suo parere non ci sarebbero stati problemi a presentare il vino restante, ridotto ora a trentacinque bottiglie, ma ugualmente ancora in quantità notevole, all'asta che si doveva tenere di li a pochi giorni. Aveva aggiunto: «Immagino che incasserai almeno trentamila sterline, tolte le commissioni». Bruce si guardò allo specchio e si sorrise. «Anche tu sei uno schianto» Si complimentò con se stesso. «Uno Château Pétrus umano!» | << | < | > | >> |Pagina 350«I porcini» attaccò Domenica. «Versate i porcini essiccati in una ciotola d'acqua calda e lasciate che i funghi rinvengano. Conservate il liquido.» «Perché?» chiese Pat. «Cosa ci dobbiamo fare?» «Lo usiamo per cucinare il riso arborio» spiegò Domenica. «In questo modo anche il riso assorbe il gusto dei porcini. Il principio è lo stesso per cui ai vecchi tempi, in Scozia, si mangiavano patate con una 'passata'. La passata era proprio questo: un pezzo di carne strofinato sulle patate. Il capofamiglia mangiava la carne e i bambini sentivano solo l'odore sulle patate.» «Che vita dura» commentò Pat mentre apriva la confezione di funghi. «Davvero. Ed eccoci qua, discendenti di quelle stesse persone che aprono pacchetti di funghi d'importazione.» Guardò Scotland Street dalla finestra, con i lastroni del marciapiede che luccicavano dopo la pioggerella serale che era calata sulla città e ora avvolgeva il Fife di un velo bianco. «E pensare» proseguì «che la donna che viveva in questa casa all'epoca della sua costruzione probabilmente aveva solo uno o due vestiti. Nient'altro. La gente aveva pochi abiti un tempo, sai. Persino le mogli degli agricoltori benestanti... anche loro spesso avevano un vestito solo. La vita era molto diversa.» «È difficile immaginarselo» disse Pat. «Sì. Ma dobbiamo ricordarcene. Dobbiamo rinnovare il legame tra noi e loro, i nostri tris-tris-trisavoli, o quel che erano. È questo che ci rende un popolo. La consapevolezza di quello che hanno passato, di quel che erano, che ci unisce tutti. Se perdiamo quella, saremo solo una strana accozzaglia di persone che vivono sullo stesso fazzoletto di terra. È questo il mio incubo, Pat... davvero. Il timore che l'idea di noi come gruppo, come nazione, come scozzesi, scompaia.» Pat scrollò le spalle. «Ma nessuno lo farà scomparire. Perché dovrebbero?» Domenica si girò verso di lei. «Ah, c'è tantissima gente che sarebbe felice di vederlo scomparire. Cosa credi che sia la globalizzazione? Chi ci guadagna se siamo ridotti tutti a consumatori obbedienti, tutti con gli stessi gusti, tutti pronti ad accettare decisioni prese a distanza, da gente che non possiamo criticare né controllare? «Io, per conto mio, mi rifiuto di accettarlo» proseguì Domenica. «Voglio vivere in una comunità con una cultura autentica. Sembra una banalità, ma non trovo altre parole per dirlo. Voglio avere una cultura che sia il prodotto del posto dove sto... che affronti i problemi che mi riguardano. È la differenza tra la musica elettronica e quella vera. Tra i papponi predigeriti di Hollywood e i veri film. È una cosa fondamentale, Pat.» Domenica prese il libro di ricette. Sospirò. «A volte mi sento davvero scoraggiata» disse. «Devi scusarmi. Guardo il nostro mondo e mi sento tremendamente scoraggiata. E se accendo la televisione, cosa che cerco di evitare se mi è possibile, peggio ancora. Tutta quella grossolanità, quel rincretinimento. Quiz insulsi e dissennati. Gente che ride dell'umiliazione e della rabbia altrui. E poi il trionfo del materialismo più becero. «E la bassezza, la bassezza assoluta dei personaggi che vengono fatti sfilare sul palcoscenico nazionale per essere scherniti o applauditi. I fatui personaggi famosi, i prepotenti sboccati. Che quadro meraviglioso della vita del paese! «E quali voci si sentono in mezzo a tutto questo... tutto questo rumore? Quali voci si ergono per dire qualcosa di serio e intelligente? Quando il ministro della Giustizia si è rivolta al suo elettorato per cercare di fare qualcosa contro la vendita di alcol ai preadolescenti, è stata subissata di fischi e insulti dai ragazzini, senza che nessuno muovesse un dito per fermarli. Hai visto la foto? Che scena scioccante! Povera donna! Cerca di fare un lavoro impossibile meglio che può, ed ecco la ricompensa. «Non so che dire, Pat. Non lo so. Ho la sensazione che abbiamo assistito allo smantellamento della civiltà, mattone dopo mattone, e ora ci troviamo di fronte il vuoto. Pensavamo di liberare le persone da una situazione culturale opprimente, mentre in realtà le privavamo di qualcosa, cancellavamo la civiltà e le attenzioni. Stavamo minando tutti quei piccoli legami di lealtà, considerazione e affetto che sono indispensabili per la prosperità degli esseri umani. Pensavamo che le tradizioni fossero sbagliate, che creassero società reazionarie, mantenendo il popolo nell'arretratezza. In realtà, non facevano altro che affermare la comunità e il senso di appartenenza reciproca delle persone. Ci amiamo e ci rispettiamo davvero di più in assenza di tradizioni, buone maniere e tutto il resto? Oppure ci siamo semplicemente trasformati in estranei l'uno all'altro sul piano etico... gente che ha trasformato i propri paesi in alberghi a disposizione di ospiti a cui si chiede solo di evitare di pestare i piedi agli altri ospiti?» Domenica posò il libro di cucina. «Mi spiace tanto, Pat» disse. «Non dovresti sorbirti queste mie prediche. Lo so che si potrebbe sostenere l'esatto contrario di quanto ho appena detto. Lo so che si potrebbe sottolineare che ci sono stati progressi morali di ogni tipo.... è vero. Sotto certi aspetti siamo molto più attenti ai sentimenti altrui rispetto a un tempo. E poi, certo, abbiamo una disponibilità immediata di funghi porcini...» Si misero a ridere, e Domenica guardò l'orologio. «Gli ospiti saranno qui tra un'ora» disse. «E ci resta ancora tanto da fare. Apri il vino, Pat, ti spiace? Dobbiamo lasciarlo respirare. Sei stata molto gentile a portare quelle bottiglie.» «Le ho trovate nella credenza» disse la ragazza. «Sono di Bruce, in effetti, ma non ho avuto tempo di chiedergliele. Lui però si è sempre preso il mio, sostituendolo con un vinaccio rosso australiano. Perciò ho pensato di pareggiare i conti.» «Giusto» disse Domenica. Pat si alzò e andò al tavolo dove aveva messo le tre bottiglie. «Château Pétrus» disse, leggendo l'etichetta. «Chissà se sarà buono.»
«Non saprei» rispose Domenica. «Mai sentito.»
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