Copertina
Autore Mary McCarthy
Titolo Gli uomini della sua vita
Edizioneminimum fax, Roma, 2012 [1962], Sotterranei 160 , pag. 292, cop.fle., dim. 14x18x2 cm , Isbn 978-88-7521-425-8
OriginaleThe Company She Keeps [1942]
PrefazioneGuia Soncini
TraduttoreAugusta Darè
LettoreGiorgia Pezzali, 2012
Classe narrativa statunitense
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Indice


Prefazione                                             5
di Guia Soncini

Profilo bio-bibliografico                             12

Bibliografia                                          18


Premessa                                              23

1. Trattamento barbaro e crudele                      25

2. La galleria di un imbroglione                      42

3. L'uomo con la camicia Brooks Brothers              91

4. L'amabile anfitrione                              140

5. Ritratto dell'intellettuale come uomo di Yale     165

6. Padre spirituale, io mi confesso                  237


 

 

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Pagina 23

PREMESSA



«Cerca di ricordare. Quando l'avevi l'ultima volta?», diciamo all'amica petulante che apre la borsetta e si accorge di aver perduto qualcosa, qualcosa di ordinario ma indispensabile, gli occhiali, il portamonete, la patente di guida. Se siamo pazienti, ripassiamo con lei tutta la sua giornata: «So che l'avevo sull'autobus, perché... Sono sicura di averlo visto quando ho pagato il conto del pranzo...» Se siamo energici, ritorniamo con lei sui suoi passi, al banco delle calze, nella cabina telefonica, nell'ambulatorio del medico: vediamo svolgersi la sua giornata davanti a noi, come un film proiettato in senso contrario, dove il tuffatore emerge dall'acqua e atterra sul trampolino.

«Quando l'avevi l'ultima volta?», chiede implorante l'autrice alla protagonista distratta che sta frugando nella sua borsetta spirituale alla ricerca di un oggetto perduto, del suo ordinario, indispensabile io che, chissà come, si è smarrito. È un caso di identità perduta. Insieme, autrice e lettore accompagnano la protagonista in un itinerario retrospettivo della sua vita, fermandosi di tanto in tanto per chiedere: «Era qui? L'avevi ancora a questo punto?», con il sospetto che, malgrado insista a dire il contrario, forse non l'ha affatto preso con sé nell'uscire la mattina.

Non solo scene e persone, ma anche i punti di vista vengono passati in rassegna: l'intimo «lei», l'affettuoso, riduttivo «tu», il sottile, astratto, autobiografico «io». Se il lettore è spinto a chiedere: «Possibile che sia sempre la stessa persona?», ebbene, è questo il problema che l'autrice e la protagonista affrontano. Di fatto, la ricerca non ha conclusione: non si può decidere quale di queste personalità sia quella «reale»; il domicilio del proprio io, come quello dell'anima, non lo si può trovare nel libro.

Mary McCarthy

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Pagina 25

1. TRATTAMENTO BARBARO E CRUDELE



L'idea di ferire il marito le era insopportabile. Lo confermò all'Amico, alle sue confidenti e, alla fine, al marito stesso. Di fatto, sosteneva, il pensiero di Dirglielo le procurava un improvviso e sgradevole batticuore. Proprio così, e tuttavia sentiva che essere una divorziata potenziale era profondamente piacevole, più o meno come era stato piacevole essere fidanzata. In entrambi i casi, si cominciava con un corteggiamento segreto, la cui importanza era necessario celare agli occhi degli osservatori esterni. Tuttavia, l'originale corteggiamento prematrimoniale era stato tenuto nascosto per poco, per semplice superstizione. In fondo s'era anche trattato di un riserbo personale, non di una congiura del silenzio. I sospetti della famiglia e degli amici erano stati sviati per paura che la storia potesse non avere una conclusione felice, potesse non condurre, in linea chiara, diretta, all'altare. Confessare le proprie aspirazioni poteva equivalere, alla fine, a rendere pubblico il proprio insuccesso. Una volta raggiunta una solida intesa, era seguito un breve intermezzo di rituale timidezza, al quale entrambe le parti avevano partecipato goffamente, dopodiché c'era stato l'Annuncio.

Con il corteggiamento extraconiugale, invece, l'inganno era protratto laddove era stato effimero, necessario laddove era stato frivolo, cospiratorio laddove era stato individuale. Era, in breve, serio laddove era stato dilettantesco. Il fatto che si accompagnasse a sensi di colpa, a moti di repulsione improvvisi e spontanei, serviva soltanto a complicare e ad acuire le sue delizie, limando le rispettive sensibilità, infondendo agli amanti un senso di illegalità e di conseguente, reciproca dipendenza. Ma, riconosceva, questo intermezzo di inganno le offriva soprattutto l'opportunità, senza precedenti nella sua esperienza, di sfoggiare sentimenti di superiorità sugli altri. Era convinta di provare per il marito soltanto comprensione e contrizione. Non si divertiva, confessò all'Amico, a mettere le corna al suo tesoro; e mai, dichiarò, neppure per un momento, lui le era apparso come il personaggio ridicolo del marito cornuto, quale lo si vede sulle scene. (A sua volta, l'Amico le assicurò che i propri sentimenti erano altrettanto delicati, che nutriva il più profondo rispetto, venato di stima, per l'uomo offeso.) Era come se, per il semplice fatto di tradire il marito, lei lo avesse adeguatamente superato; per lei era del tutto superfluo compiacersene, e se mai provava alcun compiacimento, era per il magnifico controllo che aveva nel non compiacersi, per l'integrità del proprio senso morale che le permetteva di conservare, anche quando era immersa fino al collo nel peccato, la sensazione precisa del peccato e della vergogna. I più smaccati sentimenti di superiorità li riservava alle amiche. Pranzi e tè, che erano stati fino allora semplici passatempi, avvenimenti del tutto ordinari, divennero ora avventure pericolose e drammatiche. Il nome dell'Amico sembrava una palla lucente e terribilmente esplosiva che lei faceva rimbalzare qua e là con nonchalance in quei tête-à-tête femminili. Parlava di lui nella sua qualità di amico di famiglia, faceva congetture sulle ragazze che poteva avere, lo attaccava o lo difendeva, lo dissezionava, conservando lo sguardo limpido e indifferente, la voce priva di particolare enfasi, i modi ironicamente distaccati. Mentre nel frattempo...!

Tre volte la settimana, o più spesso, a pranzo o ai tè, osava spingersi fino al punto, affascinante, di tradirsi, trascinando le amiche in un gioco rischioso, di cui solo lei conosceva le regole e i pericoli. Le Apparizioni In Pubblico erano poi anche più soddisfacenti. Incontrarsi, di comune accordo, in casa di un amico e fingere sorpresa, riservargli nei cocktail party la giusta nota di affetto da giovane donna sposata, trattarlo ufficialmente come «il mio accompagnatore» a teatro durante gli intervalli, erano tutti trionfi di regia teatrale, di più difficile esecuzione e più snervanti rispetto ai pranzi e ai tè, perché qui gli attori coinvolti erano due. Lo sguardo troppo acceso di lui andava rapidamente deviato, il suo eccessivo imbarazzo nel recitare le battute andava da lei registrato nel libro mastro dell'amore, sotto la voce passivi: in attesa di un indulgente conteggio in privato.

Le deficienze della recitazione di lui le erano, in verità, gradite. Non perché, pensava, l'impetuosità e la goffaggine fossero una prova della passione che nutriva per lei, non perché dimostravano la sua poca dimestichezza in quel gioco d'intrighi, ma piuttosto perché l'alto livello della recitazione di lei acquistava risalto al confronto. «Mi sarei dovuta dare al teatro», gli diceva allegramente, «o avrei dovuto sposare un diplomatico o diventare una spia internazionale». E lui annuiva, ammirato. In realtà, lei dubitava che avrebbe mai potuto fare l'attrice, riconoscendo di trovare più divertente e soddisfacente interpretare se stessa anziché recitare una qualsiasi parte creata da un drammaturgo. In queste private rappresentazioni lei esibiva la propria poliedrica natura e il pubblico, in questo caso sfortunatamente limitato a due persone, poteva applaudire sia le sue doti di proiezione sia la sua innata varietà interpretativa. Era quella, inoltre, una commedia in cui la donnée era reale, e la penalità per una battuta sbagliata o un'entrata in scena inopportuna era, almeno all'inizio, inconcepibile.

Sapeva di amarlo perché era un cattivo attore, per la docilità con cui accettava le sue istruzioni tenere, finto-impazienti. Quei sentimenti di superiorità erano alimentati non solo dalla credulità delle sue amiche, ma anche dalla comica remissività dell'amante e dalla vulnerabilità della sua posizione. In siffatto alveare, lei era senza dubbio l'ape regina.

Le Apparizioni In Pubblico non erano sempre e solo dei duetti. A volte prendevano la forma di trio. In tali occasioni, la studiata e benevola premura che sempre mostrava per i sentimenti del marito serviva a un doppio scopo. Era solita ostentare un'intimità senza riserve, una affettuosa espansività coniugale; condiva i suoi discorsi di «tesoro», e li punteggiava di carezze e di strizzatine, finché la figura del marito ingigantiva a vista d'occhio e quella dell'amante, penosamente, s'impiccoliva. Né all'Amico era possibile rendere la pariglia. Queste sue effusioni erano sanzionate dalla legge, dalle convenzioni e dall'abitudine; facevano parte del suo ruolo di moglie, e un giovane scapolo non poteva né condannarle né imitarle. Erano chiare provocazioni, però non le si poteva definire tali, e l'Amico preferiva non parlarne. Ma lei sapeva. Pur conscia degli scopi sadici di queste esibizioni, non se ne vergognava, come invece a volte perversamente si vergognava del colpo che si preparava a infliggere al marito. Da un lato, sentiva che erano una punizione che l'Amico si meritava ampiamente per il male che stava facendo a suo marito, e che lei stessa mettendole in atto incarnava, com'era opportuno che fosse, sia il ruolo del giudice che quello dell'imputata. Dall'altro, recitando la parte della moglie innamorata si credeva giustificata, qualunque fosse il danno arrecato all'autostima dell'amante, perché, in un certo senso, lei era veramente una moglie innamorata. Sosteneva di nutrire davvero questi sentimenti, che li mettesse in campo o no.

In ogni modo, alla fine la riluttanza a ferire il marito e la sollecitudine per il suo orgoglio furono sopraffatte dall'intima convinzione che la storia d'amore dovesse passare allo stadio seguente, già previsto. Le potenzialità del corteggiamento segreto si erano esaurite; era giunto il momento dell'Annuncio. Lei e l'Amico cominciarono a dirsi, in maniera piuttosto affannosa e letteraria, che La Situazione Era Insostenibile e che Le Cose Non Potevano Più Continuare Così. Il significato lampante di queste concitate lamentele era che, nelle attuali condizioni, non si vedevano abbastanza, che le ore passate assieme erano troppo brevi e i periodi di separazione troppo tristi, che tutto quell'inganno era diventato moralmente disgustoso. Forse l'Amico credeva davvero a tutto questo, ma lei no. Per la prima volta, capiva che il vantaggio del matrimonio, come istituzione, era rappresentato dalla sua natura pubblica. Protratta a lungo, l'intimità della coabitazione era, concluse, una noia. Nonostante il tepore confortevole dell'isolamento e l'eccitante piacere della segretezza, una relazione amorosa finiva sempre per giungere al punto in cui, per ravvivare l'interesse dei protagonisti, occorreva lo splendore della pubblicità. Di qui, pensava, le feste di fidanzamento, le esposizioni dei regali, le nozze imponenti in chiesa, i doni, i ricevimenti. Questi per gli innamorati altro non erano che espedienti, socialmente approvati, per fare parlare di sé. Ma un pettegolezzo su un divorzio o un secondo matrimonio era logicamente molto più importante che un pettegolezzo su un semplice fidanzamento; e lei ora era nella giusta condizione mentale, anzi proprio desiderosa, di sentire Quello Che Avrebbe Detto La Gente.

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Pagina 36

Questo intermezzo fu a un tempo gioioso e straziante; gli unici momenti veramente insulsi erano le sere che passava da sola con l'Amico. Purtroppo, il Periodo Successivo All'Annuncio era, fin troppo chiaramente, soltanto un intermezzo, e la sua stessa natura richiedeva che fosse seguito da qualcos'altro. Non poteva far durare questo insolito stato di cose all'infinito. Non era decoroso, e inoltre la gente si sarebbe annoiata. Dal punto di vista degli amici, andava benissimo considerare un Triangolo come una bizzarra novità; affrontarlo però come un problema permanente era tutt'altra faccenda. Una volta si ubriacarono tutt'e tre e ne seguì una scenata, e benché poi tutti ne parlassero a lei parve che i suoi amici fossero diventati un po' più freddi, un po' più criticoni. Cominciavano a chiederle quando sarebbe andata a Reno. Inoltre, notava che il marito stava leggermente superando in popolarità l'Amico. Era naturale, logico, che tutti fossero dispiaciuti per lui e lo trattassero con particolare gentilezza. Eppure...

Quando seppe dal marito che riceveva attenzioni da certe amiche della sua cerchia, inviti nei quali inspiegabilmente lei e l'Amico non erano inclusi, andò subito alla stazione e comprò il biglietto. L'addio al marito, al quale si era ripromessa di dedicare le sue ultime ore in città, avvenne prematuramente due giorni prima della partenza. Lui stava partendo precipitosamente per qualcosa che lei, dentro di sé, temette che fosse un Allegro Fine Settimana In Campagna: aveva soltanto pochi minuti, le augurava buon viaggio e le avrebbe scritto, naturalmente. Si scolò il whisky mentre il bicchiere di lei era ancora mezzo pieno; si spostò a sedere, nervosamente, sul bordo della sedia; e lei si rese conto di fare la parte del Vecchio Marinaio, ma la dignità non le permetteva di affrettarsi. Sperò che perdesse il treno per lei, ma non fu così. La lasciò seduta al bar; e quella sera l'Amico non seppe, per dirla con le sue stesse parole, da che parte prenderla. Non c'era nessun posto, assolutamente nessuno, dichiarò lei con fervore, dove desiderava andare, nessuno che voleva vedere, niente che voleva fare. «Hai bisogno di bere», disse lui, con l'aria di un diagnostico. «Bere?», rispose lei, con amarezza. «Sono stufa, dopo tutto quello che abbiamo bevuto. Gin, whisky, rum, che altro c'è?» La portò in un bar e lei pianse, ma lui le ordinò un cocktail speciale, chiamato gin fizz Ramos, e lei si calmò un po' perché non lo aveva mai bevuto prima. Poi entrarono alcuni amici e fecero un altro giro tutti insieme e lei si sentì meglio. «Visto?», disse l'Amico tornando a casa, «lo so o non lo so che cosa ci vuole per te? Lo so o non lo so come prenderti?» «Sì», rispose lei in tono umilissimo e sottomesso, ma sapeva che erano caduti bruscamente in un nuovo schema, che non erano più l'attrazione di un gruppo sociale, mà soltanto l'ennesima giovane coppia con una sera da passare, l'ennesima giovane coppia che cercava disperatamente distrazione, incerta se andare a far visita a una coppia sposata o finire da qualche parte a bere. Questa volta la ricetta dell'Amico aveva funzionato, ma aver incontrato qualcuno che conoscevano era stata pura fortuna. Una seconda o una terza volta avrebbero scrutato le facce degli altri bevitori invano, avrebbero ordinato un secondo bicchiere e tenuto d'occhio furtivamente la porta, e infine se ne sarebbero andati via da soli, con l'aria perfettamente riconoscibile degli indesiderati.

Quando, dopo un giorno e mezzo, l'Amico arrivò in ritardo per accompagnarla al treno e dovettero farsi il marciapiede di corsa per prenderlo, lei lo trovò tutt'a un tratto detestabile. L'avrebbe accompagnata fino alla Centoventicinquesima Strada, dichiarò lui con improvviso coraggio, ma lei rimase arrabbiata per tutto il percorso, perché temeva che ci sarebbero stati dei guai con il controllore. Alla Centoventicinquesima lui rimase sul marciapiede a lanciarle baci e a gridarle qualcosa che non riuscì a sentire da dietro il vetro. Ebbe un gesto di disappunto, ma vedendolo retrocedere, vedendolo debole, attraente e impacciato, si portò riluttante la mano alle labbra e gli gettò un bacio in risposta. Gli altri passeggeri, si rese conto, la stavano osservando e, benché i loro sguardi fossero affettuosi e non ironici, si sentì umiliata e, in un certo senso, involgarita. Quando il treno si mosse e l'Amico cominciò a rincorrerlo lungo il marciapiede, continuando a lanciar baci e a gridare, si alzò, si allontanò bruscamente dal finestrino e si diresse al vagone ristorante. Là si sedette e ordinò un whisky and soda.

Nel vagone c'erano parecchi uomini, che alzarono gli occhi all'unisono quando la sentirono ordinare, ma lei, avendo notato che erano tutti piccoli commercianti di mezza età inevitabilmente «di casa» nel vagone ristorante come l'inserviente in giacca bianca e il Saturday Evening Post rilegato in cuoio, non prestò loro attenzione. Improvvisamente, fu sopraffatta da un senso di oppressione e di disfatta senza precedenti, tanto era privo di drammaticità e del benché minimo piacere. Nell'ultima mezz'ora aveva capito chiaramente che non avrebbe mai sposato l'Amico, e si ritrovò così a scrutare un futuro incorporeo, senza segnali a indicarle la strada. Da bambine, pensò, quasi tutte le donne pensano di non sposarsi mai. Il terrore dello zitellaggio incombe su di loro solo dall'adolescenza in poi. Anche se godono di una certa popolarità, pensano che nessun uomo realmente interessante le desidererà abbastanza da sposarle; anche se sono fidanzate, temono che qualcosa andrà male, che ci sarà qualche intoppo. Quando poi si sposano, gli sembra una specie di miracolo e, dopo un po' che sono sposate, benché a posteriori l'intero processo appaia perfettamente naturale e inevitabile, conservano un certo orgoglio inespresso per il miracolo che hanno compiuto. Alla fine, tuttavia, il terrore dello zitellaggio viene esorcizzato così bene che dimenticano persino di esserne state perseguitate, ed è in questa fase che cominciano a pensare al divorzio. «Come ho potuto dimenticarlo?», Si disse, e cominciò a chiedersi che cosa avrebbe fatto.

Avrebbe potuto prendersi un appartamentino al Village. Avrebbe conosciuto gente nuova. Avrebbe dato ricevimenti. Ma, pensò, se inviterò della gente ai cocktail, verrà sempre il momento in cui dovranno andarsene, e io rimarrò sola e dovrò fingere di avere un altro impegno per non ritrovarmi in imbarazzo. Se li inviterò a cena sarà la stessa cosa, ma almeno non dovrò fingere di avere un impegno. Darò delle cene. Poi pensò: Ci saranno dei cocktail e, se ci andrò da sola, resterò sempre un po' troppo a lungo sperando che un giovanotto oppure un gruppo di gente mi inviti a cena. E se non avrò fortuna, se nessuno mi inviterà, subirò l'ignominia di venirmene via da sola, fingendo di dover andare da qualche parte. Poi ci saranno le sere passate in casa con un buon libro, quando non ci sarà ragione di andare a letto, e forse resterò seduta in poltrona tutta la notte. E le mattine in cui non avrò motivo di alzarmi e forse starò a letto fino all'ora di cena. Ci saranno le colazioni nei caffè con altre donne non sposate; nei caffè, perché nei ristoranti buoni le donne sole attirano l'attenzione e hanno un'aria desolata. E poi, pensò, comincerò a invecchiare.

Non avrebbe mai fatto questo passo, rifletté con rabbia, se si fosse resa conto che stava bruciando tutti i ponti dietro di sé. Non avrebbe mai lasciato un uomo, a meno che non ne avesse un altro per rimpiazzarlo. Ma l'Amico, ora lo capiva, era soltanto una specie di miraggio che si era permessa di confondere con un'oasi. «Se l'Uomo», mormorò, «non esistesse, l'Occasione lo creerebbe». Questo era ciò che le era accaduto. Si era resa vittima di un'impostura. Ma, ragionò in un accesso di ottimismo, se questo era vero, se per bisogno di un secondo, di un nuovo marito, ne aveva creato l'immagine, poteva darsi che fosse stata spinta da forze inconsce a comportarsi con intelligenza maggiore di quanto indicassero le apparenze. Forse stava eseguendo, in una specie di trance ipnotica, un rituale il cui significato non le era ancora stato rivelato, un rituale che richiedeva, prima di tutto, che il Marito fosse eliminato dall'elenco dei personaggi. Probabilmente era stata destinata al ruolo di femme fatale, e per tale personaggio le misure di sicurezza, i provvedimenti contro la solitudine e la vecchiaia, non solo sarebbero stati prosaici, ma anche irrilevanti. Poteva sposarsi una seconda, una terza, una quarta volta, o addirittura non risposarsi mai più. In ogni caso, però, per la frugale assicurazione borghese dell'amore, con le sue rate quotidiane di pazienza, sopportazione e rassegnazione, lei ormai non aveva più i requisiti. Sarebbe stata, si disse deliziata, un brutto rischio.

Era, o presto sarebbe stata, una Giovane Divorziata, e il termine aveva ancora un certo fascino. La sua licenza di divorzio sarebbe stata un passaporto che le avrebbe conferito la cittadinanza del mondo. Provò gratitudine per l'Amico che la aveva, senza volerlo, aiutata a entrare in una nuova vita. Guardò attorno a sé gli altri passeggeri. Più tardi ci avrebbe parlato. Le avrebbero chiesto, naturalmente, dove era diretta: era quella, a regola, la mossa di apertura delle conversazioni in treno. Ma la risposta da dare era un problema delicato. Dire «Reno» direttamente sarebbe stato volgare: avrebbe avuto il sapore delle confidenze fatte troppo a buon mercato. D'altro canto, mentire, dire «San Francisco», ad esempio, sarebbe stato come ingannare se stessa, minimizzare la propria importanza, fuorviare l'interlocutore lasciandogli credere che era una comune viaggiatrice con una destinazione banale. Doveva esserci qualche via di mezzo per dare l'informazione senza aver l'aria di farlo, per alludere a una vie galante pur sollevando una barriera di impeccabile riserbo. Sarebbe probabilmente stato meglio, decise, rispondere «Ovest», in un primo tempo, con aria vaga ed esitante. Poi, quando avessero insistito, poteva arrivare fino a dire «Nevada». Ma non di più.

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5. RITRATTO DELL'INTELLETTUALE
COME UOMO DI YALE



A vederlo non lo avresti mai detto un intellettuale. Questo c'era di buono in Jim Barnett. Con le sue guance rosee e gli occhi scuri e brillanti, i capelli bruno rossastri che avevano bisogno di una spazzolata, e l'abito marrone di buon taglio che aveva bisogno di una stirata, poteva essere un tipo qualunque di giovanotto americano. Faceva pensare ai boy scout, al fuoco acceso senza fiammiferi, a Wesley Barry, al gatto scuoiato, agli sketch delle Simpatiche canaglie e a Huckleberry Finn. Se mai fosse stato al verde, avrebbe potuto fare il fotomodello e la sua faccia piacevole, vagamente tormentata, si sarebbe vista più spesso sul Saturday Evening Post che sull' Esquire. Avrebbe potuto benissimo interpretare il giovanotto che si preoccupa dell'assicurazione sulla vita, quello che si preoccupa della forfora, quello con le camicie che non gli stanno bene, quello che alza gli occhi felice dal vassoietto pieno di Crunchies dicendo: «Perbacco, amore, non sapevo che la colazione potesse avere un sapore così buono!»

Nella vita reale, i suoi interessi erano di tipo diverso. L'anno in cui uscì da Yale (dove avrebbe potuto entrare nella confraternita Skull and Bones, ma non aveva voluto) gli stavano a cuore Foster e Ford, la Bonus March e il caso degli Scottsboro Boys. Aveva anche appena trangugiato una buona dose di Das Kapital e andava in giro a dire alla gente che effetto gli aveva fatto. Attaccava bottone con un compagno di classe dopo qualche set di tennis, giù, al vecchio Armory nella Quattordicesima Strada. «Sai, Al», soleva dire torcendo la testa in su e di lato, nel caratteristico gesto dell'uomo americano che sta considerando seriamente un problema (il vecchio lupo di mare o il brizzolato contadino yankee che scruta il cielo alla ricerca di indicazioni meteorologiche): «Sai, Al, non l'ho mai pensata così all'università, ma i comunisti un po' di ragione ce l'hanno. I loro metodi qui sono un po' melodrammatici, è vero, ma alle loro analisi sul capitalismo non si scappa. Secondo me il sistema è finito, e tocca a noi essere pronti per la cosa nuova, quando verrà». E Al, o chiunque altro fosse, rimaneva dubbioso, ma colpito. Poteva persino darsi che andasse a casa con una copia del Manifesto del partito comunista in tasca; in quel periodo il piccolo classico socialista godeva un po' della popolarità del Reader's Digest: riassumeva tutta la faccenda in poche parole, permetteva a un individuo come Al di sapere di preciso contro che cosa si batteva. Più tardi, la sera stessa, capitava che Al dicesse alla moglie che forse sarebbe stata una buona idea (non era d'accordo?) fare una scorta di merce non deteriorabile – in caso... mah, in caso scoppiasse l'inflazione o la rivoluzione o qualcosa del genere. Sua moglie lo interpretava in termini di scatolame e il giorno dopo, dal droghiere, faceva una grossa ordinazione di fagioli Heinz, di zuppa di pomodori Campbell, o di pollo con le verdure di altra marca. Questo era il fenomeno noto come propagazione delle idee.

Quasi nello stesso tono (quello di un uomo che in una pubblicità presenta a un altro una nuova benzina super), Jim cominciò a riversare le proprie convinzioni in articoli e recensioni su riviste di sinistra. Il capitalismo stava andando a gambe all'aria e dovevano saperlo tutti. Non avrebbe mai potuto scrivere: «Il capitalismo è condannato all'estinzione», così come non avrebbe potuto parlare di «masse oppresse». A Yale si riteneva che la pomposità nel parlare fosse altrettanto barbara che l'eccentricità nel vestire o il tipo sbagliato di serietà nello studio; e se Jim aveva commesso un'imperdonabile violazione delle buone maniere interessandosi al marxismo, usare un vocabolario grezzo e un po' violento era come chiedere scusa per questo, porgere un'offerta di riconciliazione agli dei del decoro, che dovevano apparirgli in veste di giocatori di football. Di certo il suo vocabolario era in parte responsabile dell'entusiasmo che la sua opera suscitava. Le idee che esponeva, abbastanza familiari quando erano rivestite della loro usuale fraseologia, emergevano nei suoi scritti in uno stato di nudità che le faceva sembrare eccitanti e quasi nuove, proprio come una donna che si conosce da anni riserva sempre qualche sorpresa senza i vestiti addosso. E alla fine non tanto contavano le idee quanto il fatto che era Jim Barnett a sostenerle.

Era questo il punto che nessuno, compreso lo stesso Jim, riusciva mai a capire a fondo. Ogni tanto qualcuno era abbastanza franco da chiedergli come era successo, e lui si metteva a ridere e diceva che era stato un caso: all'università aveva avuto un compagno di stanza che si occupava di letteratura, e una volta cominciato a leggere una cosa aveva tirato l'altra. Ma gli uomini modesti, come i millantatori, non vengono mai creduti, anche quando dicono la verità; e nel 1932 tutti quelli di sinistra erano convinti che questo «caso» fosse in realtà un miracolo, un segno, del cielo o della storia, che l'età dell'oro era alle porte. La maggioranza era arrivata al socialismo attraverso qualche costrizione fin troppo umana: erano disoccupati o sessualmente insoddisfatti, stranieri o strambi in uno dei cento amari, irrimediabili modi. Sembravano i dodici apostoli originali del Nuovo Testamento; non c'era un merito reale nella loro adesione, e neanche alcuna speranza. Jim invece era come il centurione romano o come san Paolo; arrivava al socialismo liberamente, dal centro felice delle cose, per mezzo di un puro atto di percezione che poteva solo essere stato prodotto dalla grazia; e la sua conversione poteva essere interpretata come un preludio alla conversione del mondo.

E, come tutti i miracoli, questo qui in particolare servì a ravvivare la fede degli sbandati, dei lavoratori stanchi, dei mondani. Gli sciocchi che erano andati un po' a sinistra e poi avevano cominciato a chiedersi se, dopotutto, non avevano commesso un errore, dovevano solo guardare Jim Barnett per sentirsi rassicurati. Nessuno poteva fare obiezioni al socialismo se voleva mettere al potere uomini di Yale onesti, antidogmatici – alcuni dei quali provenienti dalla Sheffield School, per curare il lato tecnico. D'altra parte, uomini seri di mezza età che da anni propagandavano il marxismo con piccole riviste che erano sempre in debito con la tipografia e non uscivano mai in tempo, se parlavano con Jim si sentivano rincuorati, persino ispirati. Se un ragazzo simpatico e normale come lui poteva aderire al movimento, senz'altro le vecchie idee avevano finalmente fallito. Quando il capitalismo, dal punto di vista intellettuale, non riusciva più a nutrire i suoi figli prediletti, la fine non poteva che essere molto, molto vicina.

Essendo semplicemente se stesso, Jim Barnett rese felice, e quasi romantica, una gran quantità di gente di sinistra. Era una mascotte, un portafortuna; e c'era forse un po' di superstizione nel fatto che gli si chiedeva molto poco: non bisogna chiedere troppo a un talismano, altrimenti perde le sue facoltà, e a caval donato è meglio non guardare in bocca. In ogni caso, a differenza della maggior parte dei convertiti di quel periodo, da lui non ci si aspettava che seguisse le direttive del partito, neanche con un ampio margine di autonomia. Sin dai primi passi in politica, Jim rimase un indipendente, ora affiancandosi ai comunisti, ora ai lovestoniani, ora ai trotskisti, ora al gruppo di progressisti borghesi che aveva conosciuto all'università e che stavano cercando di costituire un Partito Laburista dei Contadini per loro conto. In chiunque altro, tale comportamento sarebbe risultato politicamente sospetto: l'uomo sarebbe stato bollato come arrivista, da un lato, o come dilettante dall'altro; invece nessuna di queste accuse venne mai fatta a Jim. La sua eterodossia era considerata da tutte le fazioni con indulgenza paterna. «Lasciate che il ragazzo faccia di testa sua», era l'opinione generale. «Non gli farà male correre un po' la cavallina».

Quanto a lui, Jim, si faceva un punto d'onore di non essere mai completamente d'accordo con niente e nessuno. Non aveva mai completamente digerito il marxismo, diceva con tono leggermente borioso, come se avesse eseguito un bel numero di acrobazia. Era vero; non digeriva mai completamente nessuna dottrina. Come uno schizzinoso a tavola, si inorgogliva del fatto che lasciava sempre qualcosa nel piatto. C'era qualcosa di tipicamente americano e puritano in questa sua temperanza; in altri paesi si insegna ai bambini che è cattiva educazione non finire tutto quello che si ha davanti. Ma a Yale era stata coltivata una certa prodigalità intellettuale negli studenti; era cattivo gusto ammirare qualcosa con troppo entusiasmo. Pensavano «cattivo gusto», ma intendevano «pericoloso», perché la prodigalità non era altro che un prodotto finale dell'ascetismo: non dovevi cedere ai tuoi appetiti, fisici o spirituali che fossero; se lo facevi, Dio sa dove questo ti avrebbe condotto: al paganesimo, alla religione cattolica romana, all'idolatria o in mezzo a una strada. Come tutti i bravi giovani di Yale, Jim temeva i sistemi come il suo bisnonno aveva temuto il diavolo, i saloon e il papa.

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