Copertina
Autore Alice McDermott
Titolo Una cosa difficile come l'amore
EdizioneTerre di mezzo, Milano, 2008 , pag. 186, cop.fle., dim. 14x20,5x1,2 cm , Isbn 978-88-6189-027-5
OriginaleThat Night [1987]
TraduttoreStefania Bertola
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe narrativa statunitense
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Pagina 7

Quella sera che venne a cercarla, si fermò sul praticello davanti a casa sua, in ginocchio e con i pugni piantati nelle cosce, e gridò il suo nome con una tale passione che perfino gli amici che lo circondavano, venuti a sostenerlo, a trascinarla fuori da quella casa, ad ammazzare la famiglia di lei se necessario, lasciarono cadere giù inerti le catene. Perfino gli uomini del vicinato, in bermuda o pantaloni sportivi, t-shirt bianche e pantaloni grigi, con mazze da baseball o badili protesi innanzi come fucili, perfino loro interruppero l'affannosa corsa a proteggerla: i buoni e i cattivi, i ragazzi in giubbotto nero e i padri nei leggeri indumenti estivi, inchiodati per un unico attimo prima dell'inizio della battaglia dal suono tremendo e lancinante di quel grido di dolore.

"È una faccenda seria", ricorda di aver pensato in quel momento mio padre. "È una pazzia."

Io ricordo solo che il mio cuore di bambina di dieci anni si fermò perché era tutto troppo bello.

Lei si chiamava Sheryl, ma lui gridò: "Sherry" trascinando la parola fino a farne un lamento funebre, con voce a un tempo forte e disperata. Quel suono parlava di notti nere, era bello, ed era pericoloso.

Uno dei bambini si era già messo a piangere.

Si era in piena estate, all'inizio degli anni Sessanta. Sui tetti aguzzi e sui folti alberi di quel sobborgo residenziale il cielo era di un blu intenso e brillante. Esito a dire che l'unica stella era Venere, ma c'era. L'avevo notata già prima, quando le tre macchine che adesso erano ferme nel vialetto e sul prato davanti alla casa di Sheryl erano passate per la prima volta nel quartiere. Aggiungete pure una sottile falce di luna, se il simbolismo vi disturba: Venere c'era.

Dall'altra parte della strada un annaffiatore automatico gettava spruzzi d'acqua sottili, bianchi nel buio che avanzava. Dietro il rumore dei motori in folle delle auto si sentiva ancora il gorgoglìo collettivo dei filtri delle piscine. Avevano già trascinato fuori la madre di Sheryl. La donna stava accucciata nell'erba davanti a casa sua e continuava a ripetere: "Non c'è. Se ne è andata". L'odore dei motori era uno squarcio nell'usuale atmosfera estiva.

Lui la chiamò di nuovo, ormai piegato in due, in lacrime, credo. Poi saettò in avanti, gli stivali scivolarono sull'erba, e così per un attimo parve che non dovesse riuscire nemmeno in questo, poi riprese a correre verso la casa. La madre di Sheryl cercò di ripararsi. Uomini e ragazzi si scontrarono goffamente sul prato.

Fino a quel momento, avevo pensato che la violenza fosse sempre agile e sicura, sinuosa, addirittura elegante. Mi stupii vedendo quant'era in realtà meschina, faticosa e pesante. Vidi uno degli uomini piegarsi sotto il colpo di quella che sembrava una catena al rallentatore, e poi, con altrettanta goffaggine, sbattere la mazza da baseball di suo figlio sull'orecchio di un ragazzino. Vidi uomini e ragazzi saltarsi addosso come bambini grassi e con le gambe corte, sollevando catene che parevano ricadere pesantemente sulle loro stesse spalle, agitando mazze e zappe e rastrelli che sembravano ingombranti come alberi. Niente svelti scontri a mezz'aria di catena e badile, niente assalti viso a viso e mani alla gola, niente battute brillanti e balzi ben calibrati, niente vincitori. Solo, nell'oscurità che avanzava, un centinaio di movimenti torpidi e senza ritmo, un susseguirsi di colpi sgraziati.

Ero in mezzo alla strada davanti alla casa dei vicini, raggelata, come tutti gli altri bambini sparpagliati in strada e sul marciapiede, in una specie di gioco delle belle statuine di ampio respiro. Ero sicura, come lo erano tutti gli altri, che mio padre sarebbe morto.

Alle nostre spalle, una delle madri cominciò a urlare il nome del marito, e poi le altre, toccandosi la gola o le cosce, la imitarono una a una. Le loro voci sottili erano dolenti, anche arrabbiate, come se quella goffa battaglia fosse l'ultima delusione che fossero disposte a mandar giù, o come se, mi sembra ora, echeggiassero, o addirittura riprendessero, il grido amaro del ragazzo innamorato.


Erano apparse subito dopo cena. Tre macchine, le chiamavano ancora hot rods, canne infuocate (nessuno di noi considerava la frase se non come descrittiva, senza assolutamente giudicarla oscena) erano arrivate all'angolo nord del nostro isolato, muovendosi lente e sicure. Avevo appena raggiunto i miei genitori in veranda. Vidi mia madre alzare il mento per guardare oltre la ringhiera di ferro battuto e la siepe di rododendro quando ciascuna auto si fermò, in paziente attesa della successiva, come le macchine che portano le miss in una parata bloccata dal traffico, per poi, con altrettanta lentezza e cautela, girare a destra.

Riuscimmo a vedere che erano piene di teenager; ci fu un'impressione di gomiti in pelle nera a ogni finestrino, capelli neri, occhiali da sole. Non c'erano radio accese e così l'unico suono minaccioso era quello dei motori tesi e impazienti. Come un omone che russa, pensai, o un cane che ringhia nel sonno. Non ricordo il colore o la marca di tutte le macchine. Doveva esserci una qualche Chevrolet, diciamo turchese o azzurra, poi una macchina scura, tipo una Ford verde cupo con i finestrini oscurati (e i finestrini oscurati devono essere veri perché il ragazzo di Sheryl era proprio nella seconda macchina, stretto tra due amici sul sedile posteriore, e nessuno di noi lo vide finché le macchine, dopo non so quanti lenti giri dell'isolato, all'improvviso voltarono con un rumore simile a un'esplosione e si fermarono sul vialetto e sul prato davanti alla casa di lei), la terza forse una Buick bianca con una lunga striscia arancione che terminava in un forcone o in una coda di belzebù.

Quando ricomparvero, circa dieci minuti dopo, di nuovo in fondo alla nostra strada e sempre a quella inquietante lentezza, mio padre disse: "Oh-oh".

Quando ancora una volta anche l'ultima macchina ebbe girato l'angolo, questa volta a sinistra, vidi il vicino di Sheryl, il signor Rossi, sulla porta di casa sua. Indossava una t-shirt, i pantaloni del completo e teneva in mano un giornale arrotolato. Tutte e due le sue braccia tozze erano macchiate di tatuaggi. Si voltò solo quando il quieto rombo dei motori, che restò uguale anche quando si furono allontanati dall'isolato, svanì del tutto.

Un tempo pensavo che fossero stati saggi a mantenere quell'andatura anche dopo aver lasciato la nostra strada, a percorrere lentamente una dozzina di isolati, per spargere i sospetti su e giù per il vicinato, e disperderli, ma adesso mi chiedo se non avrebbero invece evitato addirittura i sospetti passando a razzo con grande scoppiettio di motore e stridor di gomme.

Non era una città particolarmente violenta, ma ormai i residenti dovevano essere rassegnati alla presenza di teppisti, bande e hot rodders, ai ragazzi di strada, proprio come i primi abitanti delle terre di frontiera dovevano essere rassegnati a occasionali raid degli indiani, o a occasionali fuorilegge che scatenavano una sparatoria nel saloon. In quel periodo, almeno nella nostra città, era dato per scontato che i teppisti scorrazzassero con le loro macchine, spaventassero le bande di ragazzini che cercavano di entrare in pizzeria, bevessero birra. Si diceva che alcuni di loro inzuppassero i gatti randagi di benzina per poi dargli fuoco, gridassero "'Fancuuloo!" alla finestra delle vecchie signore nel cuore della notte, fumassero spinelli, e che uno avesse minacciato e sfregiato con il coltello una professoressa di geografia (me ne ricordai solo anni dopo, quando la mia università annunciò l'intenzione di tagliare il dipartimento di geografia), che un altro avesse sfondato con la macchina la vetrina della lavanderia, ma erano ancora essenzialmente innocenti. Quando esageravano bastava chiamare la polizia, che li disperdeva senza bisogno di manganelli o gas lacrimogeni.

La sera in cui lui venne a cercarla, fu l'insolita andatura, la calma, che attirò la nostra attenzione. Fu il loro ordine, il loro controllo (stavano seduti immobili nelle macchine, con lo sguardo fisso davanti a sé) che spinse mia madre a dire, quando ripassarono per la terza volta: "Ho un brutto presentimento".

Mio padre alzò lo sguardo dal giornale.

Dalla porta accanto, la signora Evers era uscita a portare l'immondizia nel bidone (più tardi il marito ne avrebbe usato il coperchio come uno scudo in battaglia) e adesso stava lì con le mani sui fianchi, a guardare le macchine che passavano, una, due, tre, fino allo stop e poi voltavano nella traversa successiva.

Si girò, vide i miei genitori e salì lentamente i gradini di casa nostra. Era un donnone lentigginoso, con un pancione diviso in due dalle cicatrici dei parti cesarei. Nel quartiere era celebre per la sua bruttezza, non tanto a causa del suo aspetto, che era effettivamente sgradevole, quanto per quello del marito. Il signor Evers era squisito, una bellezza cesellata di stampo hollywoodiano, di quelle che intimidiscono perfino una vecchia mamma, ed erano le speculazioni sui motivi che potevano aver spinto un uomo come quello a sposare una donna come questa che avevano trasformato la povera signora Evers da non bella in sinonimo di brutto.

Avevano quattro figli, uno della mia età, gli altri più piccoli, e tutti si gonfiarono in adolescenti mostruosi, e divennero poi buttafuori, giocatori di calcio di terz'ordine e anche, diceva talvolta mio fratello, perfetti fannulloni. Era stato Georgie, il maggiore, a scoppiare in quel pianto tremendo accanto a me prima che iniziasse lo scontro.

La signora Evers aveva i capelli scuri e un viso largo, butterato. Mi sembra incredibile pensare che allora aveva sì e no trent'anni.

"Cosa avranno in mente quei ragazzi?" ci chiese. Mia madre alzò le spalle. "Si limitano a passare di qua."

"Fanno un giro", disse mio padre, e il suo tono suggeriva che non era il caso di farla tanto lunga. Una volta, allo scopo di dimostrarmi che basta una sola brutta abitudine a rovinare la reputazione di una persona, mi aveva detto che gli era capitato di vedere la signora Evers ficcarsi un'unghia nel naso, esaminarla e poi mettersela in bocca. Personalmente glielo avevo già visto fare un mucchio di volte, allungata su una sdraio accanto alla loro piscina di alluminio, mentre leggeva il giornale con una mano sola, ma da quel momento il gesto assunse il significato della morale che ne aveva tratto mio padre e non potei più guardare la donna senza disapprovazione.

La signora Evers fissava la strada come se le tre macchine stessero nuovamente passando, anche se, e io ormai tendevo l'orecchio, non si sentivano da nessuna parte.

"Vanno così piano", disse.

"Forse stanno tutti imparando a guidare" suggerii.

Usai il tono "che importa?" di mio padre, sperando che lui cogliesse la nota di disprezzo.

Immagino di essere stata ignorata. La signora Evers continuava a guardare la strada.

"Spero solo", continuò, togliendosi un residuo di cibo tra i denti con un'altra unghia, "che non abbia niente a che fare con Sheryl."

Colsi uno sguardo di mia madre: una ruga fra gli occhi, la bocca ridotta alle dimensioni di un trattino. La vidi dibattersi per un attimo tra il desiderio di proteggermi da quelli che considerava particolari sordidi e il desiderio di spettegolare.

"Lui lo sa che se ne è andata?" sussurrò, e il sussurro, immagino, fosse una specie di compromesso. "Vero?"

La signora Evers scosse la testa, ma disse: "Non so. Hanno dovuto farsi cambiare numero. Telefonava sempre".

Mia madre si mise una mano sul cuore e guardò la casa di Sheryl, dall'altro lato della strada, tre case più in là. Era più o meno come le altre, mattoni e legno, non aveva una veranda come la nostra, solo quattro gradini e, sotto la finestra centrale, una strana siepe, secca qua e là e da potare. In quel periodo, tutti i vicini stavano dipingendo i mattoni di casa loro di bianco o di rosso o, con un effetto tipo spigato, un po' bianchi e un po' rossi, ma la casa di Sheryl aveva ancora dei banali mattoni color mattone, che in confronto agli altri sembravano un po' polverosi, e io lo consideravo un segno esteriore dell'unica particolarità di quella famiglia: il padre di Sheryl era morto la scorsa primavera; lei, sua madre e sua nonna vivevano sole, come dicevano tutti, intendendo dire che in casa non c'era un uomo.

Quella sera la porta di casa era aperta dietro la zanzariera di alluminio, come d'altronde tutte le altre porte della nostra strada in quella, in qualsiasi, calda serata estiva.

Riuscivamo a intravedere i gradini bianchi della scala interna. C'era una ventola, una macchia nella finestra centrale al primo piano.

Mia madre si mise una mano sul cuore e guardò la casa, e io guardai con lei. Non avrebbe potuto avere un'aria più abbandonata, più bisognosa di protezione.

"Sono sicura che gliel'hanno detto, che se ne è andata", disse.

"Lo spero proprio", fece la signora Evers, succhiandosi i denti. "È uno che va in cerca di guai." Lo disse annuendo con enfasi, perché Sheryl era davvero "nei guai" e sicuramente li aveva trovati con lui.

Mia madre scosse la testa. "Nessuna di quelle macchine è la sua."

La signora Evers aveva quasi raggiunto la porta di casa sua quando udimmo nuovamente il debole suono gutturale dei motori che si avvicinavano. Ormai anche nelle altre case si scostavano le tende. Il signor Carpenter, il nostro vicino dall'altra parte, si bloccò mentre sistemava lo spruzzatore sul prato. Sua moglie apparve alla finestra.

Notai che questa volta, quando la prima macchina si fermò all'angolo, la seconda si fermò subito oltre la casa di Sheryl, e la terza proprio di fronte. Nessuno dei ragazzi in macchina si girò a guardare la casa, quella o altre, eppure era facile immaginare che nonostante l'apparente regolarità della loro andatura era proprio attorno alla casa di Sheryl che gironzolavano.

Quando furono passati, mia madre lo fece notare. Mio padre, che questa volta aveva osservato tutto il percorso delle auto nella nostra strada, dimenticando per una volta il suo giornale, disse: "Allora potrebbero benissimo essere interessati a casa nostra. Si sono fermati anche qui davanti".

Vidi che i vicini degli Evers, una giovane coppia senza figli - portavano quello che le altre donne del quartiere definivano "l'improbabile cognome di Sunshine" (terminando sempre l'accusa con un enfatico "Ebrei", come se questo spiegasse il cognome e lo rendesse al tempo stesso ancora più improbabile) - erano usciti nel vialetto e che il signor Meyer, che abitava di fronte, era già in veranda.

Guardai ancora la casa di Sheryl. Si vedeva solo la ventola roteante, le ombre pallide dietro la zanzariera.

Il sole era ormai dietro le case di fronte, ma non era ancora abbastanza basso da suggerire il buio. Dato che, macchine a parte, era una sera come tutte le altre, i bambini cominciavano a uscire di casa. Ricordo che i gemelli Meyer giocavano a palla nel loro prato. Billy Rossi attraversò l'erba tra i vialetti d'accesso ed entrò in casa Carpenter dalla porta laterale. Jake, il bimbetto ritardato che stava in fondo all'isolato, risalì il nostro vialetto in bicicletta e poi, come ogni sera, chiese aiuto finché mio padre non andò a girargli la bici. Da ogni parte prese ad alzarsi il suono delle falciatrici come un ritmico stridio di locuste.

Non ricordo di aver udito discussioni quella sera, nessuno di quei batti e ribatti riecheggianti tra marito e moglie, tra genitori e figli, che ci inducevano a girarci verso una certa casa come se fosse una radio, e ad ascoltare con il naso all'insù, quasi che i litigi fossero un profumo nell'aria. E per quel che ricordo nessuno dei vicini uscì con l'aria lavata ed eccitata e, specialmente le mogli, tirata a lucido, per festeggiare il loro anniversario o partecipare a una veglia. (Non posso giurare che queste fossero le più comuni occasioni sociali del quartiere. Mi baso esclusivamente sui commenti di mia madre. Quando vedeva le mogli emergere in abito azzurro argento o con un top di lustrini, mia madre diceva: "Dev'essere il loro anniversario". Se invece uscivano in una sera feriale con addosso i vestiti della domenica, mia madre diceva: "Andranno a una veglia".) Macchine a parte, una sera qualsiasi. I miei genitori, come al solito, all'erta dietro i cespugli di rododendro. È già stato detto molto, troppo, a proposito della noia nei sobborghi residenziali, specialmente all'inizio degli anni Sessanta, e immagino che quelle prevedibili serate estive fossero anche noiose. Immagino che la noia abbia avuto a che fare con il violento e melodrammatico accorrere di tutti gli uomini in aiuto della madre di Sheryl. Ma io le ricordo come serate interessantissime, piene di movimento: la strada era un palcoscenico circondato da porte, la commedia era un susseguirsi di arrivi e partenze, battaglie fuori campo, adorabili bambini, soliloqui inaspettati declamati proprio accanto alla tua poltrona dalla signora Evers o dalla signora Rossi o da chiunque altro arrivava nella nostra veranda. Lo dico spinta dalla nostalgia, dal più futile e più deludente di tutti i desideri: tornare bambina, ma in quei sobborghi non esisteva noia, non nelle serate estive, o almeno non fino a quella. Perché dopo quella volta, dopo le macchine e l'improvviso carosello sul prato di Sheryl, i ragazzi con le catene e lo scontro e il suono raggelante di quel grido d'amore, dopo di questo, le scenette quotidiane non ci soddisfecero più, non c'era litigio smorzato, pranzo fuori per l'anniversario, dolce bimbetto ritardato, che potesse più farci credere di vivere una vita vibrante, di saperne qualcosa dell'amore.


Venere, come ho detto, brillava già.

La quinta o la sesta volta che passarono davanti a casa nostra, mia madre disse: "Forse dovrei chiamare la polizia".

"Per dirgli cosa?" chiese mio padre.

Lei ci pensò su un attimo. "Che continuano a gironzolare qua attorno."

"Non c'è niente di male", rispose lui.

Mia madre mi guardò. Sapevo che non aveva voglia di telefonare. Altrimenti, si sarebbe limitata a rientrare e a farlo.

"Probabilmente l'ha già chiamata qualcuno", aggiunse mio padre.

Ormai aspettavamo e basta, aspettavamo che le macchine tornassero, che quello che doveva succedere succedesse. Il signor Rossi era ricomparso sulla porta di casa, senza camicia e con il giornale aperto in mano. Alle sue spalle c'era la luce azzurra del televisore.

Vedemmo Elaine Sayles avvicinarsi alla cassetta postale nella strada di fronte (mia madre giurò che aveva solo fatto finta di buttarci qualcosa dentro) e poi fermarsi a parlare con il signor Carpenter, che era seduto sui gradini di casa con una birra. Li vedemmo ispezionare la strada con lo sguardo mentre parlavano. La signora Sayles era una graziosa biondina, l'unica donna del quartiere che mettesse il costumino da tennis per andare al supermarket, anzi, l'unica che mettesse il costumino da tennis. Si diceva che venisse da una famiglia con i soldi, anche se il marito indossava abiti da lavoro e usciva con il cesto della colazione. Mentre io ero all'università, lei lasciò lui e i loro tre figli per andare ad Harvard, ma quella sera era ancora una sciocchina con il gonnellino bianco, civetta, ficcanaso, capacissima di far finta di imbucare.

Questa volta, quando le macchine passarono, il ragazzo sul sedile anteriore della prima si girò verso di noi con un ghigno da sergente Bilko. Aveva gli occhiali da sole, forse di quelli a specchio. Non so se avesse una controparte dall'altro lato della macchina, ma quando anche l'ultima delle tre fu passata, la signora Sayles stava già correndo verso casa. Il signor Carpenter, ancora seduto sui gradini, aveva messo su uno sguardo cattivo.

"Probabilmente chiamerà la polizia" disse mia madre, un tocco di irritazione nella voce.

Ma le macchine ripassarono: calcolammo che avessero solo fatto il giro dell'isolato; e ancora, questa volta dovevano essere arrivate fino al viale; e poi ancora: due isolati, o magari fino alla scuola elementare e ritorno. Aspettavamo.

Adesso la notte cominciava a mostrarsi, lungo le siepi e nel cuore folto degli alberi. Mentre aspettavamo che tornassero, e l'intervallo diveniva sempre più lungo, fino a diventare il più lungo, vedemmo il signor Rossi rientrare e dirigersi in soggiorno. Vedemmo il signor Carpenter accartocciare la lattina della birra, alzarsi e, mentre portava la lattina nel bidone dell'immondizia, guardare la strada un'ultima volta. Rientrò anche lui, e la signora Styles accese la luce e tirò le tende. Cominciammo a vedere le prime lucciole. In fondo all'isolato, i Sunshine (che erano appassionati di sport, pensavamo noi, perché non avevano figli) provavano qualche colpo di golf con una mazza immaginaria, lui alle spalle della moglie, lei con le braccia dentro a quelle del marito, le guance unite. I gemelli Meyer si misero a lanciarsi la palla in modo vendicativo, mirando alle reciproche cosce. Passarono un paio di macchine. Si accesero i lampioni. I miei genitori presero a parlare di tutt'altro.

Immagino che tutti pensassimo che i ragazzi avessero rinunciato a quel giochetto; che con il sopraggiungere dell'oscurità si fossero spostati sulla statale o sul più vasto e meno popolato territorio del campo giochi o del parcheggio davanti al bowling; che si fossero stufati di darci noia, di spaventarci, di ridere di noi, e fossero finalmente passati al vero divertimento, ad avventure che noi non potevamo condividere nemmeno come spettatori.

Nessuno dei ragazzi su quelle macchine aveva più di diciannove o vent'anni eppure era ovvio che, forse per puro istinto, sapevano condurre un corteggiamento. Quando alla fine li sentimmo di nuovo, quel brontolio imbrigliato dei motori che procedevano lenti e senza marmitta, ci limitammo a sospirare, senza osare un sorriso. Girammo la schiena, gettando indietro la testa come ragazze offese, vagabondi snobbati. Il signor Rossi non lasciò il televisore; le tende della signora Styles non si mossero.

Procedevano nel solito ordine: quella blu seguita da quella verde, e poi quella bianca con la striscia rosso diavolo o era uno svolazzo nero a forma di serpente.

La prima era proprio davanti a casa di Sheryl quando i motori diedero l'impressione di scoppiare e le macchine, come se la strada stessa avesse fatto un balzo e le avesse lanciate in aria, salirono sul marciapiede, una sul prato di Sheryl, una in perpendicolare, e la terza a uno strano angolo storto del vialetto.

Mia madre mi afferrò un braccio, mi tirò quasi, come se volesse farmi correre, anche se eravamo ancora sedute tutte e due. Mio padre era saltato su, a braccia levate, una caricatura del duro. Gli altri uomini erano già usciti di casa.

Le portiere delle macchine si aprirono e i ragazzi scivolarono fuori. Sembravano curiosamente noncuranti; qualcuno si stirò addirittura, come se si fossero semplicemente fermati a far benzina durante un lungo viaggio. Naturalmente Rick era con loro, percorse senza fretta il prato e salì i tre gradini. Bussò, non in modo violento, un picchiettio educato sulla zanzariera, mentre gli amici restavano sparpagliati attorno alle macchine, guardandosi attorno come se avessero intenzione di fermarsi per un po'.

Fu la loro calma e la sua, la sua specialmente, lì fermo davanti alla porta, in attesa di risposta, con le spalle dritte e le dita infilate nel taschino posteriore, a trarci in inganno. L'avevamo visto fermo lì centinaia di volte; avevamo visto Sheryl arrivare ad aprire, avevamo visto la madre di Sheryl accoglierlo, innumerevoli sabati sera, e farlo entrare, e anche chi sapeva che Sheryl era partita, perfino quelli che sapevano perché, devono aver preso in considerazione l'ipotesi che si trattasse di un qualche rozzo e spettacolare rito di corteggiamento di un teppistello e che interferire, chiamare la polizia, correre in aiuto alla madre, sarebbe stata una sciocchezza, un gesto tremendamente infantile o tremendamente antiquato. A parte il rumore dei motori in folle, l'odore di gas di scappamento, la striscia di prato rovinata, sembrava tutto abbastanza innocuo. Non so quando ci saremmo accorti delle catene.

Rick bussò ancora e poi portò le mani ai lati del viso per guardare dentro. Mi parve di intravedere appena la nonna di Sheryl sulle scale. E poi la madre comparve dietro la zanzariera di alluminio.

Ci fu uno scambio di parole. I ragazzi sparsi sul prato, i vicini immediati devono aver udito il nome di Sheryl. Improvvisamente Rick alzò lo sguardo alla casa; per la prima volta i suoi gesti parvero bruschi, nervosi. Disse qualcos'altro attraverso la zanzariera e poi la afferrò rapidamente e la aprì. Parlò ancora, come se la porta aperta potesse rafforzare le sue parole. Lo vedemmo sporgersi in avanti, il piede sulla soglia. Alzò la voce, ma le parole non si capivano. Poi, in un unico agile movimento, trascinò fuori la madre di Sheryl. La teneva per un braccio. Ricordo che lei indossava bermuda verdi e pantofoline celesti. Lui la spinse giù per le scale. Lei cadde a braccia protese, e i rami secchi della siepe le fregarono i fianchi e le gambe. Non so se gridò, ma quasi nell'istante in cui cadde, la porta di casa si chiuse, la vera porta questa volta, non la zanzariera, e Rick cominciò a urlare.

Adesso gli uomini del vicinato correvano verso i loro garage, chiamandosi l'un l'altro con quelli che ricordo solo come suoni, suoni pieni di dai e dia. "Dai" immagino che dicessero "Andiamo." Mio padre rispose a tono, abbaiando poche sillabe dalla veranda e poi partì di corsa. Mia madre, che mi serrava ancora il braccio con forza disperata, disse: "Vai a chiamare la polizia".

Rick aveva preso a calci la porta e poi era sceso, urlando il nome di Sheryl. Si spostò sul prato, guardando le finestre delle camere da letto, l'unica ventola roteante. La madre gridava: "Non c'è" e lui la guardò, fece per prenderla a calci, e poi, roteando su se stesso, chiamò ancora. Adesso saltava, quasi ritmicamente. Indietreggiò sul prato, guardando in su e invocandola. Si sentiva la corsa degli uomini in strada. Si sentivano i ragazzi che raccattavano le catene.

Rick si chinò come se stesse per cadere, fece una breve danza e poi si piantò i pugni nelle cosce. Il suo grido si levò sopra i motori in folle, i passi, il ronzio dei filtri e delle ventole, i rumori aspri che si scambiavano gli uomini in corsa. Per quell'unico secondo prima che la battaglia iniziasse, si udì solo quel grido.

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