Copertina
Autore Ian McEwan
Titolo Amsterdam
EdizioneEinaudi, Torino, 1998, Supercoralli , Isbn 978-88-06-14992-5
OriginaleAmsterdam
TraduttoreSusanna Basso
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe narrativa inglese
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Pagina 7 [ inizio libro ]

Due ex amanti di Molly Lane aspettavano davanti alla cappella del crematorio dando le spalle al gelo di febbraio. Si erano già detti tutto, ma vollero ricominciare da capo.

- Non ha neanche avuto il tempo di capire che cosa succedeva.

- E quando l'ha capito era troppo tardi.

- Se ne è andata cosi in fretta.

- Povera Molly.

- Mmm.

Povera Molly. Tutto era cominciato con un formicolio mentre alzava il braccio per fermare un taxi fuori del Dorchester Grill; quella sensazione non l'aveva piú abbandonata. Nel giro di qualche settimana già faticava a ricordare i nomi delle cose. Finché si trattò di parlamento, chimica o propulsore riuscí ancora a perdonarsi; molto meno, quando toccò a letto, specchio e panna. Fu dopo la temporanea scomparsa di acanto e bresaola che decise di rivolgersi a un medico, convinta che l'avrebbe rassicurata. Invece le fu consigliato di sottoporsi a un controllo e, in un certo senso, non ne usci piú. Come aveva fatto presto quella insolente di Molly a trasformarsi nella prigioniera malata di George, marito possessivo e scontroso. Molly, critico gastronomico, fine intellettuale, fotografa, la spregiudicata floricultrice, amata dal ministro degli Esteri, che alla bell'età di quarantasei anni riusciva ancora a eseguire perfettamente la ruota.

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Pagina 14

Nessun altro sentiva la sua mancanza. Si guardò intorno: molti dei convenuti avevano la sua età, quella di Molly, anno piú, anno meno. Tutta gente benestante, persone influenti che avevano fatto carriera sotto un governo detestato per quasi diciassette anni. Eccola qui la mia generazione. Che energia, che fortuna. Nutriti negli anni di assestamento post bellico a suon di latte e di zuppa passata dallo stato, poi mantenuti dalla timida, innocente prosperità dei genitori, avevano raggiunto la maggiore età con un lavoro in tasca, nuove prospettive universitarie, buoni libri in edizione economica; l'età d'oro del rock and roll, degli ideali alla portata di tutti. Quando la scala incominciò a cedere, quando lo Stato smise di fare la balia e diventò severo come un'istitutrice, loro si erano già messi al riparo, si erano irrobustiti per dedicarsi a varie imprese: orientare gusti, opinioni, fortune.

Senti una donna trillare: - Io non mi sento piú né le mani né i piedi, perciò me ne vado! - Voltandosi, vide un giovanotto che era sul punto di battergli su una spalla. Sui venticinque anni, calvo, o rasato, indossava un abito grigio, senza cappotto.

- Signor Linley. Scusi se la importuno, - disse l'uomo, ritirando la mano.

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Pagina 20

Ma c'erano anche giorni come questo, in cui Clive non aveva pensieri che per la musica e non riusciva a staccarsene. Tenendo in tasca la mano sinistra ancora intirizzita per il freddo, sedette al pianoforte e suonò il passaggio appena scritto, lento, cromatico e ritmicamente scaltro. Conteneva in effetti due segnature di tempo. Poi, senza variare la velocità della mano destra, improvvisò la frase ascendente dei violoncelli e la ripeté molte volte, variandola finché non fu soddisfatto. Si appuntò la parte nuova, che raggiungeva le note piú acute del violoncello e avrebbe dato la sensazione di una furiosa energia trattenuta. Liberarla in seguito, nella sezione finale della sinfonia, sarebbe stata una gioia.

Lasciò il pianoforte e si versò del caffè, che bevve nel solito angolo accanto alla finestra. Le tre e mezza, e già faceva tanto buio da dover accendere la luce. Molly ormai era cenere. Clive aveva deciso di lavorare tutta la notte per poi dormire fino all'ora di pranzo. Non c'era molto altro da fare. Si fa qualcosa, e si muore. Dopo il caffè, riattraversò la stanza e in piedi al pianoforte con il cappotto ancora addosso si chinò per suonare a due mani le note che aveva scritto alla luce esausta del pomeriggio. Quasi perfette, quasi vere. Suggerivano l'inaridito desiderio di qualcosa di irraggiungibile. Qualcuno. Era stato cosí qualche volta quando lui le telefonava per invitarla, quando era troppo inquieto per sedersi a lungo al pianoforte e troppo elettrizzato dalle idee nuove per uscire. Se era libera veniva lei a preparare il tè o qualche cocktail esotico; poi si sedeva su quella vecchia poltrona sdrucita nell'angolo. Parlavano, lei gli faceva qualche domanda e ascoltava a occhi chiusi. Aveva gusti sorprendentemente austeri per essere tanto di compagnia. Bach, Stravinskij, qualche volta, non spesso, Mozart. Ma allora non era piú una ragazza, e nemmeno la sua amante. Erano scanzonati, troppo sarcastici per poter essere appassionati, e lieti entrambi di parlare dei rispettivi affari di cuore.

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Pagina 22

A nutrire tale speranza non era solo Clive, ma anche la commissione che gli aveva affidato l'incarico, scegliendo un compositore che prevedibilmente avrebbe fantasticato su quel passaggio immaginandolo come un'antica scalinata di pietra. Persino i suoi sostenitori, per lo meno negli anni Settanta, gli conferivano l'appellativo di arciconservatore, laddove i detrattori prediligevano quello di «antiquato», tutti però erano concordi nel riconoscere a Linley, insieme a Schubert e a McCartney, la capacità di scrivere una melodia. L'opera era stata commissionata con anticipo affinché potesse «risuonare» nelle coscienze della gente; era stato suggerito a Clive di comporre un passaggio chiassoso e incalzante per ottoni che potesse diventare la sigla dei principali notiziari televisivi. Quello che la commissione, sbrigativamente definita dal mondo musicale come un'accolita di semisprovveduti, desiderava soprattutto era una sinfonia dalla quale si potesse estrapolare almeno un motivo, un inno, un'elegia per il secolo calunniato e ormai concluso, da inserire nelle celebrazioni ufficiali, una cosa analoga al «Nessun dorma» utilizzato per un torneo di calcio. Prima inserita nella sinfonia e poi lasciata libera di guadagnarsi un'esistenza indipendente nella memoria del pubblico nel corso del terzo millennio.

Per Clive Linley la questione era semplice. Si considerava un erede di Vaughan Williams, e giudicava irrilevanti termini come «conservatore», prestiti impropri mutuati dal lessico politico. Inoltre, negli anni Settanta, quando Clive aveva incominciato a farsi conoscere, la musica atonale, aleatoria e stocastica, l'elettronica e il disintegrarsi della tonalità nel suono, l'intero progetto modernista insomma, era ormai diventato una forma di ortodossia insegnata nelle università. Reazionari semmai erano i fautori di questo programma, non lui. Nel 1975 Clive aveva pubblicato un volumetto di un centinaio di pagine che, come ogni manifesto che si rispetti, conteneva un'accusa e una difesa. La «vecchia guardia» del modernismo aveva segregato la musica nelle accademie, dove essa subiva un rigoroso processo di professionalizzazione, isolamento e sterilizzazione, e dove il suo patto vitale con la gente veniva infranto con arroganza. Clive forniva anche la spassosa cronaca di un «concerto», sovvenzionato dall'amministrazione pubblica e allestito in una chiesa semivuota nel corso del quale le gambe di un pianoforte venivano ripetutamente percosse dal manico rotto di un violino per piú di un'ora. La locandina del programma spiegava, facendo riferimento all'Olocausto, per quale ragione in questa fase della Storia europea non fosse praticabile altro tipo di musica. Nelle menti piccine di questi zeloti, insisteva Clive, qualunque forma di successo, per quanto limitato, qualsiasi apprezzamento da parte del pubblico, rappresenta il marchio sicuro di un compromesso estetico e di un fallimento. Una volta completata la stesura definitiva della storia della musica occidentale del ventesimo secolo, si sarebbe constatato che la palma del trionfo spettava a jazz, blues, rock, e al perenne sviluppo della tradizione della musica popolare. Tali forme dimostravano ampiamente come melodia armonia e ritmo non siano affatto incompatibili con il rinnovamento. Nell'ambito della musica colta soltanto la prima metà del secolo avrebbe lasciato un'impronta significativa, e per di piú soltanto alcuni compositori, tra i quali Clive non includeva l'ultimo Schoenberg e « consimili ».

Questa, l'accusa. Quanto alla difesa, essa adottava, distorcendolo, il consumato espediente dell'Ecclesiaste: era tempo di riappropriarsi della musica, sottraendola ai suoi commissari politici, ed era tempo di riaffermare il fondamentale ruolo comunicativo di un'arte prodotta, in Europa, nell'ambito di una tradizione umanistica che da sempre riconosceva l'enigma della natura umana; era tempo di accettare il fatto che una rappresentazione pubblica costituiva una «comunione secolare», ed era tempo di riconoscere la priorità di ritmo, tonalità e melodia. Affinché ciò accadesse senza una mera ripetizione della musica del passato, occorreva formulare una definizione contemporanea di bellezza, compito a sua volta impossibile senza l'acquisizione di una «verità fondamentale». A questo punto Clive saccheggiava audacemente alcuni saggi inediti e raffinatissimi, opera di un collega di Noam Chomsky. Li aveva letti nel corso di una vacanza a casa dell'autore a Cape Cod. Come l'esclusiva capacità umana di apprendere il linguaggio, anche la nostra capacità di «leggere» ritmi, melodie e armonie gradevoli è genetica. Gli antropologi infatti hanno riscontrato la presenza di questi tre elementi in tutte le culture musicali. Il nostro orecchio per l'armonia è innato. (Inoltre, in assenza di un contesto di generale armonia, la disarmonia viene a perdere senso e interesse). Comprendere un passaggio melodico costituisce un complesso atto mentale che tuttavia persino un infante è in grado di realizzare; siamo nati all'interno di una tradizione, apparteniamo alla specie homo musicus; perciò una definizione di bellezza musicale non può non prevedere una definizione di natura umana, il che ci riporta al concetto di studi umanistici e comunicazione...

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Pagina 77

Ma Clive proseguiva perché l'incertezza e l'angoscia erano esattamente le condizioni, i malesseri, dai quali cercava sollievo; la conferma che la fatica quotidiana di stare chino per ore su un pianoforte lo aveva ridotto all'inettitudine. Voleva tornare a sentirsi forte, e vincere la paura. Non c'era nessuna minaccia là intorno, solo la sublime indifferenza degli elementi. C'erano dei pericoli naturalmente, ma solo quelli consueti e piuttosto modesti: farsi male cadendo, perdersi, un improvviso cambiamento delle condizioni atmosferiche, il sopraggiungere della notte. Il controllo su questi ipotetici imprevisti gli avrebbe restituito un senso di sicurezza. Di lí a poco le rocce avrebbero scolorito ogni significato umano; il paesaggio avrebbe recuperato la propria bellezza attirandolo a sé; l'incalcolabile età delle montagne e il complesso intrico di creature che le abitavano gli avrebbero ricordato che era parte anche lui di quel sistema, una parte insignificante, e il pensiero lo avrebbe fatto sentire libero.

Quel giorno tuttavia, il processo benefico si stava rivelando un po' piú lento del solito. Camminava da un'ora e mezza e ancora lanciava qualche occhiata ai massi che aveva di fronte nel timore di ciò che potevano nascondere, ancora scrutava con vago terrore la facciata ombrosa di roccia e d'erba in fondo alla valle, e ancora si sentiva irritato da frammenti della sua ultima conversazione con Vernon. Gli spazi aperti che avrebbero dovuto ridimensionare le sue ansie, stavano agendo anche su tutto il resto: ogni sforzo appariva insensato. In particolar modo le sinfonie: vane fanfare, pura retorica, patetici tentativi di costruire una montagna di suono. Appassionate fatiche. E per cosa? Soldi. Rispetto. Immortalità. Un modo per negare la casualità che ci domina, per tenere a bada la paura della morte. Si fermò per allacciarsi meglio gli scarponi. Poco dopo si tolse il maglione e bevve a lungo alla borraccia cercando di eliminare il sapore dell'aringa che incautamente aveva mangiato a colazione. Poi si ritrovò a sbadigliare, e a pensare con nostalgia al letto della sua piccola stanza d'albergo. Ma non poteva essere già stanco e nemmeno poteva tornare indietro, non dopo tutti gli sforzi che aveva fatto per essere lí. Giunse a un ponte sul torrente e si mise a sedere. Doveva prendere una decisione. Poteva attraversare lí e procedere in una graduale ascesa sul versante sinistro della valle; oppure rimanere su quel lato e proseguire fino al fondovalle per poi affrontare gli ultimi cento metri di dislivello lungo la salita ripida del passo. A essere sinceri non si sentiva tanto in vena di scalate, ma neppure gli piaceva l'ipotesi di cedere alla debolezza, o all'età. Alla fine, decise di non attraversare il corso d'acqua: la fatica della salita poteva aiutarlo a liberarsi di quel torpore.

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Pagina 83

Camminava da un quarto d'ora e stava adesso affrontando un pendio che finiva con un grande masso roccioso dalla cima inclinata coperta di chiazze di licheni, quando finalmente accadde, proprio come aveva sperato: si stava godendo la solitudine e il benessere fisico; aveva la testa serenamente altrove, quando udí la musica che stava cercando, o per lo meno ne udí lo spunto iniziale.

Arrivò come un dono; un grande uccello grigio spiccò il volo emettendo un acuto grido di allarme per segnalare la sua presenza. Mentre guadagnava altezza e sorvolava la valle in ampi cerchi, diede in un richiamo articolato su tre note nelle quali Clive riconobbe l'inverso di una frase melodica già scritta per l'ottavino. Che eleganza, che semplicità. Rovesciando la sequenza, prendeva forma l'immediata ipotesi di una melodia di pacata bellezza che Clive riusciva quasi a sentire. Non del tutto, però. Gli venne in mente l'immagine di una curva rampa di scale in lenta discesa dalla botola di una soffitta, o dal portellone di un piccolo aereo. Ogni nota si dispiegava per suggerire la successiva. Clive la sentiva, credeva di averla afferrata, e non c'era già piú. Rimaneva il bagliore invitante che segue una visione, e la malinconia effimera di un breve canto. Quella sinestesia era un tormento. Le note si presentavano in assoluta interdipendenza, come minuscoli cardini dai quali la melodia si snodava in un arco perfetto. Riusci quasi a sentirla di nuovo nell'attimo in cui raggiungeva la lastra di pietra in cima al roccione, e si fermò per prendere dalla tasca taccuino e matita. Il canto non era soltanto triste. Conteneva anche una sorta di gioia, una soluzione di improbabile felicità. Del coraggio.

Stava incominciando ad appuntare i frammenti di quanto aveva udito, nella speranza di riuscire a recuperare anche il resto con la volontà, quando si rese conto di un altro suono inatteso, non piú il richiamo di un uccello, questa volta, ma il mormorio di una voce. Era cosi concentrato che quasi si impose di resistere alla tentazione di sollevare lo sguardo, ma non poté farne a meno. Lanciando un'occhiata al di là della lastra rocciosa che sporgeva su un precipizio di una decina di metri, si ritrovò a contemplare un minuscolo lago, poco piú grande di una grossa pozza. In piedi sull'erba che lo costeggiava c'era l'escursionista che aveva visto passare quasi di corsa, la donna vestita di azzurro. Le stava di fronte un uomo, di certo non attrezzato per una marcia in montagna, che le si rivolgeva in una sorta di ronzio monotono.

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Pagina 170 [ fine libro ]

George raggiunse casa Halliday e si fermò sui gradini. Conosceva Mandy da anni. Gran donna. Ai suoi tempi, una scatenata. Forse non era prematuro provare a invitarla a cena fuori.

Ma sí, una cerimonia commemorativa. Meglio St Martin di St James, anche se ultimamente era quella la sede piú richiesta dagli ingenui lettori di libri da lui stesso pubblicati. Allora, St Martin, e un solo discorso di commemorazione, il suo. Niente ex amanti a scambiarsi sguardi d'intesa. Sorrise e, mentre allungava la mano sul campanello, già pregustava il piacere sottile di stendere un bell'elenco degli invitati.

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