Copertina
Autore Ian McEwan
Titolo Chesil Beach
EdizioneEinaudi, Torino, 2007, Supercoralli , pag. 144, cop.ril.sov., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-06-18870-2
OriginaleOn Chesil Beach
EdizioneRandom, London, 2007
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa inglese
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Pagina 5

Erano giovani, freschi di studi, e tutti e due ancora vergini in quella loro prima notte di nozze, nonché figli di un tempo in cui affrontare a voce problemi sessuali risultava semplicemente impossibile. Anche se facile non lo è mai. Si erano appena seduti a cena nella saletta minuscola al primo piano di una locanda in stile georgiano. Dalla stanza accanto, attraverso la porta aperta, si scorgeva un letto a baldacchino, piuttosto stretto, dalla sopraccoperta candida e tesa con una perfezione pressoché innaturale. Edward tenne per sé il fatto di non avere mai dormito in un albergo, mentre Florence, dopo tutti quei viaggi col padre da piccola, era una veterana. A livello superficiale, erano di ottimo umore. Il matrimonio, nella chiesa di St Mary a Oxford, era andato bene: una cerimonia decorosa, un rinfresco gradevole, i saluti dei compagni di scuola e del college commossi e incoraggianti. I genitori di lei non avevano assunto atteggiamenti paternalistici con quelli di lui, come si era temuto, e la madre di Edward si era comportata dignitosamente, evitando di scordare il motivo dei festeggiamenti. Gli sposi si erano allontanati a bordo di un'utilitaria di proprietà della madre di Florence e, sul fare della sera, erano arrivati nel loro albergo sulla costa del Dorset, con un clima magari non ideale per metà luglio e per la circostanza, ma assolutamente accettabile: non pioveva infatti, anche se non faceva nemmeno abbastanza caldo, secondo Florence, per cenare fuori in giardino come avevano sperato. Edward era di un altro avviso. Tuttavia, cortese fino all'eccesso, non si era nemmeno sognato di contraddirla proprio quella sera.

Perciò ora cenavano in camera davanti alla portafinestra che, dal terrazzo, affacciava su un tratto di Manica e sulla sconfinata distesa di ciottoli di Chesil Beach. Li servivano, da un carrello parcheggiato nel corridoio, due ragazzi in smoking il cui andirivieni da quella che veniva solitamente definita la suite nuziale produceva nel silenzio circostante comici scricchiolii delle assi di quercia incerate. Fiero e protettivo, il giovane sposo stava attentissimo a cogliere eventuali gesti ed espressioni dal sapore vagamente ironico. Non avrebbe tollerato il minimo sorriso beffardo. Ma i ragazzi, che venivano dal paese vicino, svolgevano il proprio lavoro a testa bassa e occhi seri, e avevano modi incerti, le mani tremanti, mentre appoggiavano i vari piatti sulla tovaglia inamidata. Nervosi, anche loro.

Non un buon momento, nella storia della cucina inglese, ma nessuno ci faceva molto caso, a parte i visitatori stranieri. Il pasto di gala iniziò, come accadeva quasi sempre al tempo, con una fetta di melone guarnita da un singolo esemplare di ciliegia candita. Fuori, nel corridoio, in vassoi d'argento intiepiditi da scaldavivande a candela, attendevano fette di un arrosto cotto da tempo adagiate in un sugo denso, verdure arcilesse e patate dal colorito bluastro. Il vino arrivava dalla Francia anche se l'etichetta, impreziosita dal volo di un'unica rondine, non specificava nessuna regione di origine in particolare. A Edward non sarebbe mai passato per la mente di ordinare un rosso.

Non vedendo l'ora che i camerieri se ne andassero, lui e Florence si volsero sulla sedia verso il panorama: un vasto tappeto d'erba e, piú in là, un groviglio di arbusti in fiore e di alberi aggrappati alla sponda scoscesa di un viottolo che declinava verso ia spiaggia. Si intravedeva l'imboccatura del sentiero da percorrere a piedi, un precipizio di gradini fangosi, un vicolo costeggiato da erba di proporzioni fiabesche: rabarbaro gigante e piante simili a cavoli i cui steli robusti alti piú di un metro e mezzo parevano flettersi sotto il peso delle grandi foglie, venate di scuro. La vegetazione del giardino cresceva in un rigoglio di qualità tropicale, effetto esaltato dalla delicata luce grigia e dal velo di foschia in arrivo dal mare, il cui moto eterno di onda e risacca produceva a livello sonoro piccoli rombi di tuono e improvvisi risucchi sui ciottoli. Dopo cena si ripromettevano di infilare un paio di scarpe adatte e di scendere a passeggiare sulla lingua di spiaggia tra il mare e la laguna, nota con l'appellativo di Fleet, e qualora ne fosse rimasto, di portarsi l'avanzo di vino da bere a collo, come escursionisti.

Quanti progetti, quanti vertiginosi progetti si accalcavano dinanzi a loro in quel futuro brumoso, impenetrabile e fitto come la flora estiva della costa del Dorset, e non meno incantevole. Dove e come avrebbero vissuto, quali amici avrebbero frequentato, il lavoro di lui nell'azienda del padre di lei, la carriera musicale di Florence, come gestire il denaro donatole dal padre, la certezza che non sarebbero mai stati come gli altri, perlomeno non a livello interiore. Erano ancora tempi, destinati a concludersi alla fine di quel famoso decennio, in cui essere giovani costituiva un ingombro sociale, un marchio di irrilevanza, una condizione di leggero imbarazzo per la quale il matrimonio rappresentava l'inizio di una terapia. Grossomodo estranei, eccoli là, stranamente insieme su una nuova vetta dell'esistenza, lieti al pensiero che il loro status recente promettesse di sospingerli sul radioso cammino di una interminabile giovinezza: Edward e Florence, finalmente liberi! Uno degli argomenti preferiti di conversazione tra loro era quello delle rispettive infanzie, non tanto le gioie puerili quanto la comica nebbia di equivoci dalla quale erano emersi, gli innumerevoli errori dei loro genitori e tutte le usanze all'antica di cui ora erano disposti a perdonarli.

Dalle attuali altitudini scorgevano con chiarezza, ma non sapevano spiegare all'altro, certi sentimenti contraddittori: ciascuno viveva con apprensione la prospettiva, una volta conclusa la cena, di vedere messa alla prova la propria maturità appena acquisita, quel momento in cui si sarebbero coricati sul letto a baldacchino per mostrarsi all'altro senza veli di sorta. Da piú di un anno Edward era mesmerizzato dall'idea che la sera di un certo giorno di luglio la parte piú sensibile della sua persona fisica avrebbe trovato posto, seppure per breve tempo, all'interno di una cavità naturale che era parte di quella donna graziosa, vivace e straordinariamente brillante. Come arrivarci senza attraversare l'assurdo e il senso di delusione, lo preoccupava molto. Nello specifico l'ansia, fondata su un'unica sfortunata circostanza precedente, scaturiva dal rischio di un'eccitazione smodata, e di conseguenza di quello che aveva da alcuni sentito definire come «concludere troppo in fretta». La questione lasciava di rado i suoi pensieri ma, per quanto grande fosse la paura di fallire, anche piú grande era la voglia - dell'estasi, del punto di svolta.

Le apprensioni di Florence erano piú gravi, e nel corso del viaggio da Oxford c'erano stati momenti in cui aveva pensato di fare appello a tutto il suo coraggio e parlare. Quello che l'angustiava però era inesprimibile, dato che quasi non era in grado di spiegarlo a se stessa. Se Edward infatti era semplicemente in preda alla tensione da prima notte, lei provava un autentico terrore viscerale, un disgusto impotente e inequivocabile come il mal di mare. Durante i mesi dei febbrili preparativi matrimoniali era in larga misura riuscita a ignorare quella macchia sulla superficie della sua felicità, ma ogni volta che il pensiero le andava a un abbraccio intimo - non tollerava altri modi per dirlo - le si chiudeva la bocca dello stomaco e un groppo di nausea le ostruiva la gola. Su un manuale moderno e progressista, in teoria studiato per offrire aiuto alle giovani spose, grazie allo stile spigliato tutto punti esclamativi e a una serie di illustrazioni numerate, si era imbattuta in certe frasi o vocaboli che per poco non la facevano vomitare: membrana mucosa, ad esempio, o glande, termine dallo scintillio sinistro. Altre espressioni offendevano invece la sua intelligenza, soprattutto quelle relative al verbo entrare: Poco prima che lui entri dentro di lei... oppure, Ora finalmente lui entra dentro di lei... o ancora, Per fortuna, poco dopo essere entrato... Era dunque costretta la notte a trasformarsi per Edward in una specie di cancello o di sala da pranzo in cui lui avrebbe fatto il suo ingresso? Quasi altrettanto frequente era una parola che suscitava soltanto immagini di dolore fisico, di carni straziate da una lama di coltello: penetrazione.

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Le poche ragazze che conosceva - non ce n'erano tante nelle università, al tempo - arrivavano dalla periferia solo per le lezioni e se ne ripartivano nel tardo pomeriggio, con l'ordine preciso, a quanto dicevano, di farsi trovare a casa entro le sei. Senza bisogno di essere esplicite, comunicavano il chiaro intento di «preservarsi» per il futuro marito. Nessun malinteso possibile: per fare del sesso con una di loro era necessario sposarla. Un paio di amici, entrambi discreti giocatori di calcio, fecero quella scelta, si sposarono prima di finire il secondo anno di studi e sparirono dalla circolazione. Uno dei due sventurati in particolare diventò una specie di leggenda, un monito per gli altri. Aveva messo incinta un'impiegata della segreteria amministrativa dell'ateneo e, a sentire gli amici, fu «trascinato all'altare»; scomparve per un anno e infine qualcuno lo sorprese su Putney High Street mentre spingeva una carrozzina, attività ancora degradante per un uomo in quei giorni.

La Pillola era una diceria sui giornali, una promessa ridicola, l'ennesimo sproposito su quanto accadeva in America. Dai brani che ascoltava all'Hundred Club, Edward ricavava l'impressione che intorno a lui, appena fuori dal suo limitato campo visivo, giovanotti della sua età conducessero vite sessuali prorompenti e instancabili, ricche di ogni sorta di gratificazione. La musica pop era castigata, ancora pudica al riguardo, i film, un tantino piú espliciti, ma nella cerchia di Edward i maschi dovevano contentarsi di barzellette oscene, qualche goffa spacconata sessuale e farneticanti cameratismi incoraggiati da grandi bevute che riducevano ulteriormente le possibilità di incontrare una ragazza. I cambiamenti sociali non procedono mai con passo regolare. Correva voce che nel dipartimento di inglese, e piú giú verso la School of Oriental and African Studies, nonché alla London School of Economics, su Kingsway, maschi e femmine fasciati in jeans e dolcevita nere non facessero altro che sesso matto, senza bisogno di conoscere i rispettivi genitori. Si rumoreggiava addirittura di spinelli. Ogni tanto Edward si faceva una passeggiata sperimentale dalla facoltà di storia a quella di lettere, nella speranza di trovare tracce di paradisi terrestri, ma corridoi, bacheche, e perfino le studentesse gli sembravano identici.

Florence stava sul lato opposto della città, nei pressi dell'Albert Hall, in un lindo ostello femminile dove alle undici si spegnevano le luci, i visitatori maschi non erano ammessi a nessuna ora del giorno e della notte, e c'era un continuo viavai di ragazze da una camera all'altra. Lei si esercitava cinque ore al giorno e andava ai concerti con le amiche. Amava soprattutto quelli di musica da camera alla Wigmore Hall, specie i quartetti per archi, e le capitava di seguirne anche cinque alla settimana, diurni e serali. Le piaceva la solennità ombrosa del luogo, i vecchi muri scrostati del dietro le quinte, la boiserie luccicante e la moquette rosso cupo dell'atrio, la galleria dorata dell'auditorium, la celebre cupola sovrastante il palco sulla quale, le avevano detto, era raffigurato l'anelito umano verso l'astrazione magnifica della musica, con il Genio dell'Armonia rappresentato in forma di sfera di fuoco perenne. La sua reverente ammirazione andava ai signori d'altri tempi, gli ultimi vittoriani, quelli che impiegavano diversi minuti a scendere da un taxi e, aiutandosi con il bastone da passeggio, raggiungevano barcollando il loro posto a sedere, per ascoltare musica in un attonito silenzio critico, gettandosi a volte sulle ginocchia il plaid scozzese che si erano portati da casa. Quei fossili, quei piccoli crani bozzuti umilmente chini verso il palcoscenico, rappresentavano, agli occhi di Florence, saggezza critica e raffinata competenza, o suggerivano l'idea di una perizia musicale che le dita artritiche non erano piú in grado di onorare. C'era inoltre l'elementare emozione di sapere che tanti interpreti di fama mondiale avevano suonato lí e che proprio su quel palcoscenico avevano avuto inizio carriere prestigiose. Era lí che Florence aveva ascoltato la violoncellista sedicenne Jacqueline du Pré eseguire il suo primo concerto. I gusti di Florence non erano magari estrosi, intensi però sí. L'opera 18 di Beethoven la ossessionò per qualche tempo, seguita a ruota dagli ultimi grandi quartetti. Schumann, Brahms, e infine, durante l'ultimo anno di corso, i quartetti di Frank Bridge, poi Bartók e Britten. Nell'arco dei tre anni, ebbe modo di ascoltare tutti questi compositori alla Wigmore Hall.

Al secondo anno le fu offerto un impiego part-time in teatro: doveva servire il tè ai musicisti nell'ampia sala verde, stando incollata al buco della serratura per poter aprire la porta quando gli artisti lasciavano il palcoscenico. Inoltre, girava le pagine degli spartiti ai pianisti durante i brani di musica da camera, e una sera poté addirittura restare accanto a Benjamin Britten in un programma di cantate che comprendeva Haydn, Frank Bridge e lo stesso Britten. Erano presenti il ragazzino cui era affidata la partitura per voci bianche e Peter Pears, che le allungò un biglietto da dieci scellini allontanandosi con il grande compositore. Florence scopri le aule di prova vicine, sotto la sala dei pianoforti, dove pianisti leggendari del calibro di John Ogdon e Cherkassky tuonavano per mattinate intere scale e arpeggi su e giú per la tastiera, come forsennati allievi del primo anno di corso. La Wigmore Hall diventò per lei una specie di seconda casa: era gelosa di ogni suo negletto angolo polveroso, perfino dei brutti gradini di cemento che portavano ai servizi.

Uno dei suoi compiti era quello di riordinare la sala verde, e un pomeriggio, nel cestino della carta straccia, trovò alcuni appunti d'esecuzione dell'Amadeus Quartet, redatti a matita e gettati via. La grafia, serpeggiante, leggera, a stento decifrabile, riguardava il movimento di apertura del Quartetto numero 15 di Schubert. La entusiasmò riuscire alla fine a individuare l'indicazione «Attacca subito!» Florence non poté fare a meno di trastullarsi con l'idea di aver ricevuto in dono un messaggio importante, un suggerimento vitale, e due settimane piú tardi, poco dopo l'inizio dell'ultimo anno di corso, chiese a tre dei migliori studenti del conservatorio di formare con lei un quartetto d'archi.

Solo il violoncellista era un maschio, ma Charles Rodway non rivestiva alcun interesse romantico ai suoi occhi. I ragazzi del conservatorio, innamorati della musica, ferocemente ambiziosi e ignoranti su qualunque argomento esulasse dal loro strumento e il repertorio ad esso relativo, non l'attirarono mai granché. Ogni volta che una ragazza del gruppo frequentava seriamente un altro studente, spariva dallo scenario sociale, esattamente come i compagni di calcio di Edward. Pareva che la ragazza fosse entrata in convento. Poiché non sembrava possibile uscire con un ragazzo e continuare a vedere gli amici, Florence preferiva restare con il gruppo dell'ostello. Le piaceva quell'atmosfera allegra, confidenziale, gentile, i festeggiamenti copiosi per il compleanno dell'una e dell'altra, le premure a base di bevande calde, coperte e frutta se a qualcuno capitava di beccarsi un malanno. Gli anni di conservatorio furono per lei sinonimo di libertà.

Le mappe londinesi di Edward e Florence avevano poco in comune. Lei non conosceva i locali di Fitzrovia e Soho, e pur avendone da sempre l'intenzione, di fatto non entrò mai nella sala di lettura del British Museum. Lui ignorava del tutto la Wigmore Hall e le sale da tè del quartiere; non aveva mai fatto un picnic in Hyde Park né noleggiato una barca sulla Serpentina. Furono lieti di scoprire di essere stati entrambi in Trafalgar Square nel '59, insieme ad altre ventimila persone circa, tutte quante decise a fermare le bombe.

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Mentre attraversava la stanza, sempre dando le spalle a Edward, e prendeva tempo sistemando con cura le scarpe per terra accanto al guardaroba, le quattro note in questione richiamarono alla mente di Florence quell'altro aspetto del suo carattere. La Florence che dirigeva il quartetto imponendo senza batter ciglio la propria volonta non si sarebbe mai piegata docilmente ad aspettative convenzionali. Non era certo l'agnello disposto, senza un lamento, a farsi sgozzare. Né penetrare. Aveva l'obbligo di domandare a se stessa che cosa voleva esattamente dal suo matrimonio e di dirlo poi a chiare lettere a Edward, per negoziare con lui una sorta di compromesso. Era impensabile che i desideri dell'uno si realizzassero a spese dell'altro. Il punto era amarsi e mantenere la propria libertà. Ma sí, doveva parlare chiaro, come alle prove; e tanto valeva farlo subito. Aveva perfino pensato alle prime battute di un'eventuale proposta. Socchiuse le labbra e prese fiato. Ma lo scricchiolio di un'asse del pavimento la fece girare e, quando lo vide venire verso di lei, sorridente, con il bel viso un po' acceso, ecco che quell'idea liberatoria svaní, come se non fosse mai stata sua.

L'abito da viaggio era leggero, in cotone estivo color fiordaliso, perfettamente intonato alle scarpe e scovato solo dopo ore e ore di andirivieni tra Regent Street e Marble Arch, per fortuna non in compagnia di sua madre. Cingendo Florence in un abbraccio, Edward non intendeva baciarla, ma per prima cosa premere il proprio corpo contro il suo, e poi infilarle una mano dietro la nuca cercando la cerniera del vestito. L'altra mano, gliela teneva ben salda all'altezza delle reni, e intanto le bisbigliava qualcosa all'orecchio, ma cosí vicino e a un tale volume di voce che a Florence arrivò soltanto una zaffata rombante di aria calda e umida. Per aprire la cerniera, comunque, una mano non bastava, almeno non per i primi centimetri. Occorreva tenere dritto lo scollo dell'abito tirando giú, altrimenti la stoffa leggera si raggrinziva e rischiava di strapparsi. Florence sarebbe anche intervenuta per aiutarlo, ma aveva le braccia imprigionate, e poi non le sembrava giusto mostrargli come si faceva. Lungi da lei, soprattutto, l'intenzione di offenderlo. Con un brusco sospiro, Edward diede uno strattone piú deciso cercando di forzare la cerniera, ma ormai quella si era bloccata in un punto dal quale non si muoveva più né in avanti né indietro. Per il momento, Florence era in trappola nel suo vestito.

- Dio santo, Flo. Sta' ferma, per favore.

Lei si irrigidí ubbidiente, sconvolta dalla voce tesa di lui, della quale si ritenne automaticamente responsabile. Del resto, suo era l'abito, e sua la cerniera, no? Poteva forse servire, pensò, liberarsi, voltargli la schiena e avvicinarsi alla finestra per avere piú luce. Ma il gesto sarebbe parso poco affettuoso, e l'interruzione avrebbe confermato l'entità del problema. A casa, ricorreva all'aiuto di sua sorella che con le mani ci sapeva fare, pur essendo uno strazio al pianoforte. La madre non era fatta per le cose che richiedono pazienza. Povero Edward! Si sentiva sulle spalle il tremito dello sforzo che gli correva nei muscoli: ormai aveva impegnate entrambe le mani nel tentativo, e Florence immaginò le sue dita massicce trafficare fra le pieghe della stoffa pizzicata e il metallo testardo. Le dispiaceva per lui, ma ne aveva un po' paura. Avanzare anche un solo timido suggerimento poteva farlo infuriare di piú. Cosí restò calma in attesa, finché lui si staccò con un gemito, e fece un passo indietro.

In realtà, era mortificato. - Scusami tanto. Che disastro. Sono proprio buono a niente.

- Figurati, amore. Capita spesso anche a me.

Sedettero insieme sul letto. Edward sorrise per farle capire che non le credeva, ma che apprezzava le sue parole. Lí in camera, le finestre spalancate affacciavano sullo stesso panorama: il prato dell'albergo, il tratto di bosco e il mare. Un improvviso colpo di vento, o un moto della marea, o magari la scia di una nave di passaggio, portarono il fragore del frangersi di una serie di onde, schiaffi sonori sulla battigia. Poi, altrettanto di colpo, le onde tornarono come prima: uno sciabordio lieve che pettinava incessante la riva di ciottoli.

Florence cinse col braccio una spalla di lui.

- Vuoi sapere un segreto?

- Sí.

Gli prese con dolcezza il lobo dell'orecchio tra le dita e, avvicinandosi la testa di lui, bisbigliò: - A essere sinceri, ho un po' di paura.

La dichiarazione non era accurata a rigor di termini, ma per quanto capace di analisi profonde, Florence non avrebbe mai saputo descrivere l'assortimento delle sue sensazioni: un progressivo forte inaridimento a livello fisico, una ripugnanza generica all'idea di quello che probabilmente Edward le avrebbe chiesto di fare, e vergogna al pensiero di procurargli una delusione e di dimostrarsi un inganno. Si detestava, e mentre gli sussurrava qualcosa all'orecchio, pensò che le parole le uscivano di bocca in un sibilo sinistro, da cattivo di uno spettacolo teatrale. Meglio comunque ammettere la paura che confessare il disgusto o la vergogna. Si vedeva costretta a fare del proprio meglio per ridimensionare le aspettative di Edward.

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