Copertina
Autore Ian McEwan
Titolo Miele
EdizioneEinaudi, Torino, 2012, Supercoralli , pag. 358, cop.ril.sov., dim. 14x22x2,5 cm , Isbn 978-88-06-21405-0
OriginaleSweet Tooth [2012]
TraduttoreMaurizia Balmelli
LettoreMargherita Cena, 2012
Classe narrativa inglese
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Pagina 3

Capitolo primo


Mi chiamo Serena Frome (che fa rima con plume) e poco meno di quarant'anni fa mi mandarono in missione segreta per il British Security Service. Non ne sono tornata illesa. Mi scaricarono nel giro di diciotto mesi, dopo che ebbi screditato me e distrutto il mio amante, che pure non fu estraneo alla propria rovina.

Non perderò tempo sulla mia infanzia e sugli anni dell'adolescenza. Sono la figlia di un vescovo anglicano e con mia sorella siamo cresciute entro i confini della cattedrale di una graziosa cittadina dell'Inghilterra orientale. Casa mia era gradevole, ordinata, splendente, piena di libri. I miei genitori andavano abbastanza d'accordo e mi amavano, e io li ricambiavo. Tra me e mia sorella Lucy c'era un anno e mezzo di differenza e, nonostante i violenti litigi adolescenziali, non riportammo danni permanenti e nella vita adulta ci avvicinammo. Nostro padre aveva una sommessa e ragionevole fede in Dio che con le nostre vite interferiva poco ed era giusto quanto bastava a fargli scalare agevolmente la gerarchia ecclesiastica e a sistemare noi in una confortevole casa in stile Queen Anne. La casa dominava un giardino delimitato da antiche aiuole di piante perenni che erano ben conosciute, allora come oggi, a coloro che se ne intendono di piante. Assoluto equilibrio, insomma, invidiabile, per non dire idilliaco. Siamo cresciute all'interno di un giardino cintato da mura, con tutti i piaceri e le limitazioni che questo comporta.

Gli ultimi anni Sessanta alleggerirono senza sconvolgere le nostre esistenze. Al liceo della mia città non ho mai saltato un giorno di scuola se non perché malata. Verso la fine dell'adolescenza quel muro di cinta lasciò passare qualche palpeggiamento spinto, come usavano chiamarlo, gli esperimenti con il tabacco, l'alcol e un po' di hashish, i dischi di rock and roll, i colori che si facevano piú vivaci e le relazioni piú intense tutt'intorno. A diciassette anni io e le mie amiche eravamo timidamente e gioiosamente ribelli, ma facevamo i compiti, studiavamo a memoria e snocciolavamo verbi irregolari, equazioni e moventi dei personaggi letterari. Ci piaceva pensarci cattive ragazze, ma di fatto eravamo piuttosto innocue. L'eccitazione generale che c'era nell'aria del 1969 ci deliziava. Era inscindibile dalla prospettiva che sarebbe presto arrivato il momento di andarsene di casa per coltivarsi altrove. Durante i miei primi diciott'anni non mi accadde nulla di strano o di terribile, ed è il motivo per cui li salterò.

Fosse stato per me, avrei optato per una facile laurea in letteratura presso una remota università di provincia a nord o a ovest di casa. Amavo leggere romanzi. Ero veloce — potevo finirne due o tre alla settimana — e passare tre anni a fare questo mi sarebbe andato benissimo. Ma a quel tempo ero considerata una specie di scherzo di natura: una ragazza che aveva un talento per la matematica. La materia non mi interessava, né mi divertiva granché, ma mi piaceva essere in vetta, e arrivarci senza troppa fatica. Conoscevo le risposte alle domande prima ancora di sapere come ci ero arrivata. Mentre le mie amiche si affannavano a calcolare, io arrivavo alla soluzione tramite un'incerta serie di passi in parte visiva, in parte rispondente a una semplice intuizione di ciò che era corretto. Difficile spiegare come facevo a sapere quello che sapevo. Naturalmente, un esame di matematica era molto meno faticoso di uno di letteratura inglese. E all'ultimo anno di corso ero capitano della squadra di scacchi dell'istituto. Occorre un po' di immaginazione storica per capire che cosa significasse a quei tempi per una ragazza trasferirsi in una scuola vicina e spodestare qualche ragazzetto smorfioso e condiscendente. Ma per me la matematica e gli scacchi, insieme all'hockey, alle gonne a pieghe e al canto degli inni, altro non erano che sciocchezze scolastiche. Stabilii che era tempo di accantonare queste cose da bambini quando iniziai a pensare di iscrivermi all'università. Ma non avevo tenuto in conto mia madre.

Mia madre era la quintessenza, o la parodia, della moglie di un parroco, poi di un vescovo: una memoria formidabile per i nomi, le facce e le lamentele dei parrocchiani, quel certo modo di veleggiare lungo le strade avvolta nel suo foulard di Hermès, le maniere gentili ma ferme con la domestica e il giardiniere. Un fascino impeccabile a ogni livello sociale, con qualsiasi autorità ecclesiastica. Abilissima a confrontarsi con le arcigne fumatrici incallite delle case popolari quando venivano al Circolo mamme e bambini giú alla cripta. Irresistibile quando leggeva il racconto della vigilia di Natale ai piccoli Barnardo riuniti ai suoi piedi nel nostro salotto. E con quale autorità naturale aveva messo a suo agio l'arcivescovo di Canterbury quando era passato per un tè e un biscotto al cioccolato dopo la benedizione dell'acquasantiera restaurata della cattedrale. Io e Lucy fummo confinate al piano di sopra per l'intera durata della visita. Tutto ciò — e qui sta il difficile — combinato con una totale devozione e subordinazione alla causa di mio padre. Lo appoggiava, lo serviva, gli appianava la strada a ogni curva. Dai calzini ben riposti e la cotta stirata e appesa nell'armadio, allo studio senza un granello di polvere, al totale silenzio della casa quando il sabato scriveva il suo sermone. Tutto quello che chiedeva in cambio — ovviamente è una mia supposizione — era che lui l'amasse, o che almeno non la lasciasse mai.

Ma quello che non avevo capito di mia madre era che, sepolto sotto le sue apparenze convenzionali, c'era il piccolo germe tenace di una femminista. Sono certa che questa parola non è mai uscita dalla sua bocca, ma non faceva differenza. La sua sicurezza mi spaventava. Diceva che in quanto donna era mio dovere andare a studiare matematica a Cambridge. In quanto donna? A quei tempi, nel nostro ambiente, nessuno parlava mai così. Nessuna donna faceva qualcosa «in quanto donna». Disse che non mi avrebbe permesso di sprecare il mio talento. Dovevo eccellere e diventare straordinaria. Avere un'adeguata carriera nelle scienze o in ingegneria o in una disciplina economica. Si concesse il luogo comune del mondo come ostrica. Nei confronti di mia sorella era ingiusto che fossi bella e intelligente quando lei non era né l'una né l'altra cosa. Se non avessi puntato alto l'ingiustizia si sarebbe acuita. La logica di tutto ciò mi sfuggiva, ma non dissi niente. Mia madre mi disse che non avrebbe mai perdonato me o se stessa se fossi andata a studiare letteratura per diventare nient'altro che una casalinga appena piú istruita di lei. Rischiavo di sprecare la mia vita. Queste furono le sue parole, che rappresentavano un'ammissione. E quella fu l'unica volta che espresse o insinuò malcontento per la propria sorte.

Poi arruolò mio padre - «il Vescovo», come io e mia sorella lo chiamavamo. Un pomeriggio tornai da scuola e mia madre mi disse che mi aspettava nello studio. Nel mio blazer verde con il suo stemma araldico e il suo motto Nisi Dominus Vanum (Senza il Signore Tutto è Vano), mi abbandonai imbronciata nella poltrona di pelle delle occasioni conviviali mentre lui presiedeva alla scrivania, scartabellando e canticchiando tra sé intanto che riordinava i pensieri. Pensai che stesse per recitarmi la parabola dei talenti, ma lui imboccò una strada inattesa e concreta. Aveva fatto qualche indagine. Cambridge era ansiosa che la si vedesse «aprire le porte all'egualitario mondo moderno». Con la tripla disgrazia che mi portavo appresso - una scuola superiore di impostazione classica, il mio sesso, una materia squisitamente maschile - ero sicura di essere ammessa. Se, tuttavia, avessi fatto domanda per iscrivermi a letteratura (mai stata mia intenzione; il Vescovo era sempre malinformato) sarebbe stata molto piú dura. Una settimana dopo mia madre aveva parlato con il preside. Gli insegnanti di certe materie, adeguatamente schierati, ricorsero a tutti gli argomenti dei miei genitori nonché ad alcuni dei loro, e naturalmente dovetti arrendermi.

Cosí abbandonai la mia ambizione di studiare letteratura a Durham o a Aberystwyth, dove sono certa che sarei stata felice, per andare al Newnham College di Cambridge e scoprire, alla mia prima lezione, che si teneva alla Trinity, tutta la mia inettitudine nella matematica. Il primo trimestre mi depresse tanto che fui sul punto di mollare. Ragazzi goffi, sguarniti di qualunque fascino o altri attributi umani quali l'empatia e la grammatica generativa, i cugini svegli degli idioti che avevo sconfitto a scacchi, spiavano sghignazzanti i miei sforzi con dei concetti che loro davano per scontati. «Ah, la serena signorina Frome, - esclamava sarcastico il docente quando entravo nella sua aula ogni martedí mattina. - Serenissima dagli occhi blu! Venga a illuminarci!» Per i miei docenti e i miei colleghi era ovvio che ero destinata a fallire precisamente perché ero una bella ragazza in minigonna, con lunghi boccoli biondi fin sotto le scapole. In verità ero destinata a fallire perché ero come quasi tutto il resto dell'umanità - non una cima in matematica, non a quei livelli. Feci di tutto per passare a inglese o a francese o perfino ad antropologia, ma nessuno mi voleva. A quei tempi le regole erano rispettate scrupolosamente. Per accorciare una lunga e infelice storia, strinsi i denti e riuscii a laurearmi con il minimo dei voti.

Se ho sorvolato sulla mia infanzia e adolescenza, non potrò che tagliare sugli anni dell'università. Non ho mai fatto una gita sul barchino a pertica, con o senza grammofono a molla, mai fatto parte della Footlights - il teatro mi imbarazza -, né mi sono mai fatta arrestare durante gli scontri di Garden House. Ma persi la verginità nel corso del primo trimestre, e ripetutamente, a quanto sembra, visto che le cose si svolgevano perlopiú nel silenzio e senza garbo, ed ebbi una discreta schiera di ragazzi, sei o sette o otto in nove trimestri, a seconda di come definite la carnalità. Tra le donne di Newnham, mi feci una manciata di buone amiche. Giocavo a tennis e leggevo libri. Grazie a mia madre stavo studiando la materia sbagliata, ma non smisi di leggere. Di poesia e teatro a scuola avevo letto poco o niente, ma credo che i romanzi procurassero piú piacere a me che ai miei amici dell'università, costretti a produrre settimanalmente sudati compiti su Middlemarch o sulla Fiera della vanità. Io divoravo gli stessi libri, magari ne parlavo pure, se intorno c'era qualcuno capace di tollerare il mio vile livello di dissertazione, poi passavo ad altro. Leggere era il mio modo di non pensare alla matematica. Piú ancora (o dovrei dire meno?), era il mio modo di non pensare.

Ho detto che ero rapida. La vita oggi in quattro pomeriggi sdraiata sul letto! Potevo assimilare un blocco di testo o un intero paragrafo in una sola scorsa. Si trattava di lasciare che occhi e pensieri si ammorbidissero, come cera, perché la pagina ci rimanesse impressa. Con grande irritazione di chi mi stava intorno, voltavo pagina ogni pochi secondi con un impaziente movimento del polso. Le mie esigenze erano elementari. Non badavo granché a tematiche o felicità di stile, e saltavo le descrizioni minute di tempo atmosferico, paesaggi e interni. Volevo personaggi in cui potessi credere, e volevo provare curiosità per ciò che avrebbero vissuto. In genere prediligevo quando la gente si innamorava e disamorava, ma nemmeno disdegnavo che si cimentasse con altro. Per quanto triviale, mi piaceva che prima della fine qualcuno dicesse «Sposami». I romanzi senza personaggi femminili erano un deserto privo di vita. Per Conrad non avevo alcuna considerazione, come per gran parte dei racconti di Kipling e Hemingway. Né mi impressionava la reputazione. Leggevo qualunque cosa mi capitasse a tiro. Romanzi a sensazione, alta letteratura e tutto ciò che stava nel mezzo: a ognuno riservavo lo stesso rude trattamento.

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Capitolo settimo


La mattina seguente fui invitata a presentarmi alle undici nell'ufficio di Harry Tapp. Stavo ancora aspettando una bella bacchettata per il gesto inconsulto di Shirley alla conferenza. Alle undici meno dieci andai in bagno per darmi una sistemata e mentre mi pettinavo immaginai di prendere il treno verso casa dopo essere stata licenziata, e imbastire una storia per mia madre. Chissà se il Vescovo aveva notato la mia assenza. Salii di due piani in una parte dell'edificio che non conoscevo. Era solo leggermente meno squallida: nei corridoi c'era la moquette, e le pareti verdi e crema non si scrostavano. Bussai timidamente alla porta. Uscí un uomo - all'apparenza ancora piú giovane di me - e in modo nervoso ma affabile mi chiese di aspettare. Mi indicò una delle sedie di plastica stampata arancio vivo distribuite qua e là negli uffici. Dopo un quarto d'ora ricomparve e mi tenne aperta la porta.

In un certo senso la storia iniziò qui, nel momento in cui entrai in quell'ufficio e mi spiegarono la mia missione. Tapp era seduto dietro la sua scrivania e annuiva guardandomi inespressivo. C'erano altre tre persone nella stanza, oltre al tizio che mi aveva introdotta. Uno, di gran lunga il piú anziano, capelli argentei pettinati all'indietro, era spaparanzato su una poltrona di cuoio logora; gli altri sedevano su rigide sedie da ufficio. Max era lí e contrasse le labbra in un saluto. Non fui sorpresa di vederlo, e mi limitai a sorridere. C'era una grossa cassaforte a combinazione in un angolo. L'aria era satura di fumo e umida di fiato. Erano in riunione da un bel po'. Non ci furono presentazioni.

Mi fecero accomodare su una delle sedie rigide e sedemmo a ferro di cavallo di fronte alla scrivania.

Tapp disse: - Allora, Serena. Come va l'ambientamento?

Dissi che mi pareva di essermi ambientata bene e che il lavoro mi piaceva. Ero consapevole che Max sapeva che non era cosí, ma non me ne curai. Aggiunsi: - Sono qui perché ritiene che io non abbia i numeri, signore?

Tapp disse: - Non occorrerebbe essere in cinque per comunicarle una cosa del genere.

Qua e là ci fu qualche risatina sommessa e io mi premurai di unirmi al coro. «Avere i numeri» era un'espressione che non avevo mai usato prima.

Seguí una parentesi di chiacchiere. Qualcuno si informò sulla mia sistemazione abitativa, qualcun altro sul mio pendolarismo. Ci fu una discussione sulle irregolarità della Northern Line. Si scherzò bonariamente sulla cucina della mensa. Piú andavano avanti, piú la mia ansia cresceva. L'uomo in poltrona non apriva bocca, ma mi osservava da sopra le dita unite a guglia, i pollici infilati sotto il mento. Cercavo di non guardare nella sua direzione. Guidata da Tapp, la conversazione si spostò sui fatti del giorno. Inevitabilmente, finimmo per parlare del primo ministro e dei minatori. Io dissi che i sindacati liberi erano istituzioni importanti. Ma che le loro competenze si sarebbero dovute limitare al salario e alle condizioni dei membri. Non avrebbero dovuto essere politicizzati, e non spettava a loro destituire governi eletti democraticamente. Era la risposta giusta. Fui sollecitata a parlare del recente ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune. Dissi che ero a favore, che per l'economia sarebbe stato una buona cosa, avremmo superato la nostra insularità, migliorato la nostra cucina. Non sapevo bene che cosa pensare, ma decisi che era meglio apparire sicura. Stavolta intuii che i miei interlocutori dissentivano. Arrivammo al Tunnel della Manica. C'era stato un rapporto governativo, e Heath aveva appena firmato un accordo preliminare con Pompidou. Ero assolutamente a favore: pensate un po' prendere l'espresso Londra-Parigi! Sorpresi me stessa con un moto di entusiasmo. Anche stavolta, ero sola. L'uomo in poltrona fece una smorfia e distolse lo sguardo. Immaginai che in gioventú l'avessero preparato a dare la vita per difendere il regno dalle passioni politiche dei continentali. Un tunnel era una minaccia alla sicurezza.

Proseguimmo. Mi stavano sottoponendo a un colloquio, ma non avrei saputo dire con quale fine. Mi sforzavo istintivamente di compiacerli, a maggior ragione quando sentivo di non riuscirci. Sospettavo che fosse tutta una cosa orchestrata a beneficio dell'uomo dai capelli argentei. Il quale, a parte quell'unica occhiata di disappunto, non comunicava nulla. Le sue mani erano sempre in posizione di preghiera, con le punte delle dita che gli sfioravano il naso. Non guardarlo comportava uno sforzo consapevole. Avere bisogno della sua approvazione mi irritava. Qualunque cosa avesse in mente per me, la volevo anch'io. Volevo che mi volesse. Non potevo guardarlo, ma quando i miei occhi si mossero nella stanza per incontrare quelli di un altro interlocutore lo intravidi di sfuggita, e non ne cavai nulla.

La conversazione si interruppe. Tapp indicò una scatola laccata sulla scrivania e vennero fatte passare delle sigarette. Mi aspettavo di essere mandata fuori dalla stanza come la prima volta. Ma il gentiluomo argenteo doveva aver trasmesso qualche segnale silenzioso, perché Tapp si schiarí la gola per sottolineare un nuovo inizio e disse: - Allora, Serena. Max qui ci informa che oltre alla matematica lei è piuttosto ferrata anche nella scrittura moderna... letteratura, romanzi, queste cose qui; insomma, aggiornatissima su tutto ciò che è... come si dice?

- Narrativa contemporanea, - suggerí Max.

- Esatto, straordinariamente colta e addentro all'ambiente.

Esitai, poi dissi: - Mi piace leggere nel tempo libero, signore.

- Niente «signore». Ed è anche aggiornata su tutta la roba contemporanea che pubblicano oggi.

- Leggo romanzi perlopiú in edizioni tascabili di seconda mano, un paio d'anni dopo l'uscita del volume rilegato. I rilegati non me li posso troppo permettere.

La pedanteria di questa distinzione sembrò disorientare o irritare Tapp. Si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi per diversi secondi in attesa che la confusione si dissipasse. Li aprí soltanto quando fu a metà della frase successiva. - Per cui se le dicessi Kingsley Amis o David Storey o... - lanciò un'occhiata a un foglio, - William Golding, saprebbe esattamente di cosa sto parlando.

- Sono scrittori che ho letto.

- E sa come parlarne.

- Credo di sí.

- Come li ordinerebbe?

- Ordinarli?

- Esatto, sa, dal migliore al peggiore.

- Sono scrittori molto diversi... Amis è un romanziere comico, strepitoso osservatore con uno humour vagamente spietato. Storey è un cronista della vita della classe operaia, a suo modo prodigioso e, uh, Golding è piú difficile da definire, probabilmente un genio...

- E quindi?

- Per il puro piacere della lettura metterei Amis al primo posto, seguito da Golding perché sono convinta che sia profondo, e Storey al terzo.

Tapp controllò i suoi appunti, poi alzò lo sguardo con un sorriso frizzante. - Esattamente quello che ho segnato qui.

La mia precisione sollevò un rumoroso consenso. A me non sembrava questa grande impresa. Dopotutto, c'erano soltanto sei combinazioni per organizzare quella lista.

- E di questi scrittori ne conosce qualcuno personalmente?

- No.

- Conosce qualche altro scrittore, o editore o altri che abbiano a che fare con l'attività?

- No.

- E ha mai incontrato uno scrittore? Ci si è mai trovata in una stanza?

- No, mai.

- Oppure magari gli ha scritto, cioè, in veste di fan?

- No.

- Amici di Cambridge determinati a diventare scrittori?

Riflettei attentamente. Nel corso di letteratura inglese a Newnham ce n'erano parecchi che fantasticavano in tal senso, ma per quanto ne sapevo le mie conoscenze femminili avevano ripiegato su una qualche combinazione di lavoro rispettabile, matrimonio, gravidanza, sparizioni all'estero o ritirate nei residui della controcultura avvolte in una nuvola di fumo d'hashish.

- No.

Tapp alzò uno sguardo interlocutorio. - Peter? Finalmente l'uomo in poltrona abbassò le mani e parlò. - A proposito, io sono Peter Nutting. Signorina Frome, ha mai sentito parlare di una rivista chiamata «Encounter»?

Quel gesto rivelò un naso rostrato. La voce era da tenore leggero, in certo qual modo sorprendente. Mi pareva di aver sentito di un giornale di annunci per cuori solitari nudisti che si chiamava cosí, ma non ne ero sicura. Prima che avessi il tempo di parlare prosegui: - Se non l'ha mai sentito non importa. È un mensile, roba intellettuale, politica, letteratura, argomenti di cultura generale. Abbastanza buono, molto apprezzato, almeno un tempo, con uno spettro di opinioni piuttosto ampio. Diciamo dal centro-sinistra al centro-destra, con una prevalenza del secondo. Ma questo è il punto. A differenza di molti periodici intellettuali, «Encounter» nei confronti del comunismo, specie di quello sovietico, ha avuto un approccio scettico, quando non apertamente ostile. Si è fatto paladino di cause impopolari: libertà di parola, democrazia e via dicendo. E in realtà continua a esserlo. Sulla politica estera americana tende a glissare. Non le dice niente? No? Cinque o sei anni fa, su una sconosciuta rivista americana e poi sul «New York Times», mi pare, venne fuori che «Encounter» era stata finanziata dalla Cia. La notizia fece scalpore, ci furono grande agitazione e grandi strepiti, parecchi scrittori si diedero alla fuga per motivi di coscienza. Il nome Melvin Lasky non le ricorda nulla? Non mi stupisce. La Cia ha continuato a rafforzare la propria idea di cultura fin dalla fine degli anni Quaranta. Di norma, ha lavorato in via indiretta attraverso vari enti. L'idea era quella di distogliere dalla prospettiva marxista gli intellettuali europei di sinistra e rendere intellettualmente accettabile il sostegno al Mondo Libero. I nostri amici hanno rovesciato fiumi di quattrini su diversi fronti. Mai sentito parlare del Congresso per la libertà culturale? Non importa.

Questo, comunque, è lo stile americano, e in pratica, dalla vicenda «Encounter», è una partita persa. Quando da qualche mega-istituzione spunta un signor X che offre una cifra a sei zeri, tutti scappano via strillando. Detto ciò, parliamo di una guerra culturale, non solo di una questione politica e militare, e lo sforzo vale la pena. I sovietici lo sanno bene e investono in programmi di scambio, visite, conferenze, balletto del Bol'šoj. E questo oltre al denaro che destinano al fondo sciopero del Sindacato nazionale dei minatori passando per...

- Peter, - brontolò Tapp. - Non torniamo a rivangare questa storia.

- Va bene. Ti ringrazio. Ora che le acque si stanno calmando, abbiamo deciso di andare avanti col nostro programma. Budget modesto, niente festival internazionali, niente voli in business, niente orchestre in tour su venti furgoni, niente bagordi. Non possiamo permettercelo e neanche lo vogliamo. Quel che abbiamo in mente è mirato, a lungo termine ed economico. Ed è il motivo per cui l'abbiamo convocata. Qualche domanda, fin qui?

- No.

- Forse saprà dell'Information Research Department su al ministero degli Esteri.

Non sapevo, ma annuii.

- Per cui saprà che queste cose hanno una lunga storia. L'Ird ha lavorato con noi e con l'MI6 per anni, coltivando scrittori, giornali, editori. Sul suo letto di morte George Orwell diede all'Ird una lista di trentotto compagni di viaggio comunisti. E 1'Ird agevolò la traduzione della Fattoria degli animali in diciotto lingue e fece un ottimo lavoro per 1984. Infilando negli anni una serie di incredibili imprese editoriali. Mai sentito parlare di Background Books? Era un gruppo dell'Ird, finanziato con il Secret Vote. Roba sopraffina. Bertrand Russell, Guy Wint, Vic Feather. Ma al giorno d'oggi...

Sospirò e si guardò intorno. Avvertii uno sconforto condiviso.

- L'Ird si è perso. Troppe idee stupide, troppa vicinanza con la Sei... in realtà, il capo è uno dei loro. Si figuri che Carlton House Terrace è piena di belle e zelanti ragazze come lei, e quando qualcuno della Sei viene in visita, c'è sempre qualche poveraccio che deve precedere l'ospite correndo per gli uffici e urlando: «Tutte faccia al muro!» Si rende conto? E vuole che le ragazze non sbircino tra le dita?

Si guardò attorno fiducioso. Ci fu qualche risatina di cortesia.

- Per cui vogliamo iniziare daccapo. La nostra idea è quella di concentrarci su giovani scrittori che facciano al caso nostro, perlopiú accademici e giornalisti, gente a inizio carriera, bisognosa di supporto finanziario. Verosimilmente avranno un libro da scrivere e necessiteranno di un periodo di congedo da un lavoro impegnativo. E pensavamo che nell'elenco potesse essere interessante avere un romanziere...

Harry Tapp intervenne, insolitamente eccitato. - Che la renda un po' meno pesante, un po' piú, come dire, appena piú frivola. Spumeggiante. Qualcuno che possa interessare i giornali.

Nutting continuò. - Siccome le piace questo genere di cose, abbiamo pensato che magari le andrebbe di essere coinvolta. A noi non interessa il declino dell'Occidente, e non siamo neanche malati di progresso o di chissà quale altro ridicolo pessimismo. Capisce cosa voglio dire?

Annuii. Credevo di sí.

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Il racconto era stato pubblicato sulla «Kenyon Review» nell'inverno del 1970 e nella cartellina c'era l'intero numero, con lo scontrino di una libreria specializzata di Longacre, a Covent Garden, che sporgeva dalle pagine. Parlava di un professore universitario di storia sociale medievale rispondente al formidabile nome di Edmund Alfredus che intorno ai quarantacinque anni diventa deputato laburista in una circoscrizione difficile dell'East London, dov'è stato consigliere per una dozzina d'anni. Collocato all'estrema sinistra del suo partito, è un discreto agitatore, dandy intellettuale, adultero seriale e brillante oratore con buoni contatti con certi potenti membri del sindacato degli autisti della metropolitana. Si dà il caso che abbia un gemello identico, Giles, piú mite figura, parroco anglicano con una vita confortevole nel rurale West Sussex, a breve distanza in bicicletta da Petworth House, dove un tempo dipingeva Turner. La sua piccola, canuta comunità di fedeli si riunisce in una chiesa prenormanna i cui muri irregolari imbiancati a calce recavano palinsesti di affreschi sassoni raffiguranti un Cristo dolente ricoperto da un movimento di angeli ascendenti, la cui ingombrante grazia e semplicità suggerivano a Giles misteri inaccessibili all'era dell'industria e della scienza.

Sono inaccessibili anche a Edmund, un ateo severo che in cuor suo disprezza la comoda vita e l'improbabile fede di Giles. Per parte sua, il parroco è imbarazzato dal fatto che Edmund non si sia emancipato dalle proprie adolescenziali convinzioni bolsceviche. Ma i due fratelli sono affiatati e in genere riescono a evitare diverbi religiosi o politici. La madre, stroncata da un tumore al seno, li ha lasciati all'età di otto anni e un padre affettivamente distante li ha spediti in collegio dove, bisognosi di conforto, si sono aggrappati l'uno all'altro, legandosi per la vita.

Si sono entrambi sposati prima dei trent'anni e hanno avuto figli. Ma un anno dopo l'elezione di Edmund alla Camera dei comuni, e in seguito all'ennesima scappatella, Molly, sua moglie, perde la pazienza e lo butta fuori di casa. In cerca di un riparo dalla tempesta del fallimento domestico, del divorzio e dell'interesse nascente della stampa, Edmund prende la via del Sussex per un ponte in canonica, e qui è dove inizia la storia vera e propria. Il fratello Giles è angustiato. Quella domenica, nella sua chiesa, dovrà tenere il sermone in presenza del vescovo di Ch*** noto per la sua spinosa intolleranza. (Ruolo in cui mi venne spontaneo proiettare mio padre). Sua Grazia si dispiacerà di apprendere che il parroco, di cui intende esaminare la prestazione, si è beccato una brutta influenza complicata da una laringite.

All'arrivo di Edmund, la moglie del parroco, sua cognata, lo spedisce immediatamente nella vecchia stanza dei bambini all'ultimo piano, dove Giles è stato messo in quarantena. Perfino superati i quarant'anni e nonostante tutte le loro differenze, i gemelli Alfredus condividono il gusto per le birichinate. Con Giles che suda e gracchia per farsi sentire, conferiscono per mezz'ora e raggiungono il verdetto. Per Edmund sarà un'efficace distrazione dai problemi casalinghi trascorrere tutto il giorno seguente, sabato, a imparare la liturgia e la sequenza del rito e a pensare al proprio sermone. Il tema, annunciato al vescovo in anticipo, è tratto dai Corinzi 13, i famosi versi nella traduzione di Re Giacomo in cui si afferma che tra fede, speranza e carità, «la carità è la piú grande di tutte». Giles ha insistito perché, in linea con la dottrina moderna, Edmund sostituisca «amore» a «carità». Fin qui, nessun disaccordo. Come medievalista, Edmund conosce la Bibbia, e ne ammira la Versione autorizzata. E sí, gli sta benissimo di parlare d'amore. La domenica mattina si infila la cotta del fratello e, dopo essersi pettinato in modo da ricalcare la precisa scriminatura da una parte di Giles, scivola fuori di casa e si avvia per il cimitero alla volta della chiesa.

La notizia della visita del vescovo aveva gonfiato la comunità dei fedeli fino a sfiorare le quaranta persone. Preghiere e inni si succedono nell'ordine consueto. Tutto procede senza intoppi. Un anziano canonico, lo sguardo piegato in basso dall'osteoporosi, assiste efficiente alla funzione senza accorgersi che Giles è Edmund. A tempo debito, Edmund sale sul pulpito di pietra scolpita. Perfino gli assidui e attempati fedeli nei banchi si rendono conto che il loro parroco dalla voce suadente appare particolarmente sicuro di sé, per non dire baldanzoso, senz'altro impaziente di fare buona impressione all'ospite illustre. Edmund inizia riprendendo dalla prima lettura dei passi scelti dai Corinzi, scandendo i versi con attoriale magniloquenza che, potrebbero pensare alcuni — se mai sono stati a teatro (aggiunge Haley a mo' di a parte) —, si avvicina a una parodia di Olivier. Le sue parole risuonano nella chiesa semivuota, mentre spingendo la lingua fra i denti Edmund assapora il piacere dei suoni impostati. L'amore è paziente, è benevolo; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non addebita il male; non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità...

Quindi comincia un'appassionata disquisizione sull'amore, indotta in parte dalla vergogna per i recenti tradimenti e il dolore per la moglie e i due figli che ha lasciato, in parte dall'intenso ricordo di tutte le belle donne che ha conosciuto, nonché dal puro piacere della rappresentazione che prova ogni buon oratore. L'acustica generosa e la posizione elevata del pulpito contribuiscono a ispirargli fresche formulazioni di retorica prodigalità. Sfoderando quella stessa abilità al dibattito che aveva aiutato a far scendere in sciopero gli autisti della metropolitana per tre interi giorni in altrettante settimane, illustra la tesi secondo cui l'amore cosí come lo conosciamo e celebriamo oggigiorno sarebbe un'invenzione cristiana. Nel rigore da Età del ferro dell'Antico Testamento l'etica era impietosa, e i valori piú cari a un Dio geloso e crudele erano la vendetta, la dominazione, l'asservimento, il genocidio e lo stupro. E qui, alcuni hanno visto il vescovo deglutire pesantemente.

Su un simile sfondo, prosegue Edmund, si vede bene con quale radicalismo la nuova religione abbia posto l'amore al centro. Caso insolito nella storia dell'umanità, è stato proposto un principio di organizzazione sociale assai diverso. Di fatto, è l'insediamento di una nuova civiltà. Per quanto fragili potranno rivelarsi questi ideali, la nuova direzione è tracciata. L'idea di Gesú è irresistibile e irreversibile. Anche i non credenti sono costretti a conviverci. Poiché l'amore non esiste da solo, né potrebbe, ma divampa come una cometa, portando con sé altri luminosi beni: il perdono, la gentilezza, la tolleranza, l'equità, la socievolezza e l'amicizia, tutti connessi all'amore che sta al centro del messaggio di Cristo.

È fuori luogo, in una chiesa anglicana del West Sussex, applaudire un sermone. Eppure quando Edmund conclude, dopo aver citato a memoria versi di Shakespeare, Herrick, Christina Rossetti, Wilfred Owen e Auden, tra i banchi l'impulso all'ovazione è palpabile. Il parroco, in un sonoro tono calante che nella navata infonde un senso di malinconia e saggezza, già guida i fedeli alla preghiera. Raddrizzandosi, il vescovo, purpureo per lo sforzo di essersi chinato in avanti, sorride radioso e gli altri, i colonnelli a riposo e allevatori di cavalli e l'ex capitano della squadra di polo e tutte le loro mogli, fanno lo stesso, e di nuovo sorridono varcando il portico, dove uno dopo l'altro stringono la mano a Edmund. Il vescovo a dire il vero gliela scuote energicamente, ossequioso, poi, per fortuna, si dispiace di avere un altro appuntamento e di non potersi trattenere per il caffè. Il canonico si allontana strascicando i piedi senza una parola, e in breve tutti si avviano verso i rispettivi pranzi domenicali, mentre Edmund, con la leggerezza del trionfo nel passo, saltella letteralmente per il cimitero, diretto in canonica dove racconterà ogni cosa al fratello.

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