Copertina
Autore Ian McEwan
Titolo Sabato
EdizioneEinaudi, Torino, 2005, Supercoralli , pag. 296, cop.ril.sov., dim. 140x222x22 mm , Isbn 978-88-06-17689-1
OriginaleSaturday [2005]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe narrativa inglese
PrimaPagina


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Pagina 7

Qualche ora prima dell'alba Henry Perowne, un neurochirurgo, si sveglia per ritrovarsi già in movimento, seduto nell'atto di scostare le coperte e quindi di alzarsi in piedi. Non sa esattamente da quanto è cosciente, né del resto la cosa risulta avere rilevanza. Non gli è mai successo nulla di simile ma non è allarmato e neppure vagamente sorpreso, perché si muove con assoluta disinvoltura, provando un piacere diffuso agli arti, e sentendosi schiena e gambe insolitamente vigorose. Eccolo in piedi, nudo accanto al letto - si corica sempre nudo - in tutta la sua statura, consapevole del placido respiro di sua moglie e dell'aria invernale della stanza sulla pelle. Anche quella è una sensazione gradevole. L'orologio sul comodino segna le tre e quaranta. Henry non ha idea di che cosa ci faccia alzato: non sente il bisogno di liberare la vescica, e neppure è turbato da un sogno o da qualche particolare del giorno precedente, o addirittura dalle condizioni in cui versa il mondo. È come se, li in piedi al buio, si fosse materializzato dal nulla, in piena forma e in completa libertà. Non si sente stanco, a dispetto dell'ora e delle fatiche degli ultimi giorni, e non è nemmeno preoccupato per un caso recente. Anzi, è sveglio, sereno e inspiegabilmente euforico. Senza averlo deciso e per nessuna ragione al mondo, si incammina verso la più vicina delle tre finestre della stanza con un passo di tale agilità e scioltezza da fargli sospettare che si tratti di un sogno o di un episodio di sonnambulismo. Se è cosí, rimarrà deluso. I sogni non gli interessano; trova piú promettente la possibilità che tutto questo sia vero. D'altronde è perfettamente lucido, ne è piú che certo, e sa bene di essersi lasciato il sonno alle spalle: riconoscere la differenza tra sonno e veglia, distinguerne i confini, sono questi i fondamenti della sanità mentale.

La camera è grande e spaziosa. Mentre l'attraversa scivolando con scioltezza pressoché comica, la prospettiva che l'esperienza possa volgere al termine per un attimo lo rattrista, ma il pensiero subito svapora. È accanto alla finestra di mezzo, e apre le alte imposte di legno pieghevoli con delicatezza, per non svegliare Rosalind. È un gesto egoista non meno che premuroso. Non ha voglia di sentirsi chiedere che cosa succede: quale risposta potrebbe darle, e perché guastare il momento nello sforzo di inventarne una? Apre la seconda imposta, ripiegandola nella sua sede, e solleva senza far rumore il vetro a ghigliottina. È parecchio piú alto di lui, ma sale facilmente, issato dall'invisibile contrappeso di piombo. La pelle di Henry rabbrividisce raggiunta da una ventata d'aria di febbraio, ma il freddo non gli procura fastidio. Dal secondo piano, si affaccia sulla notte, sulla città avvolta nella gelida luce bianca, sugli alberi scheletriti della piazza e, una decina di metri piú sotto, sull'inferriata nera a punte di freccia come una fila di lance. Ci sono un paio di gradi sotto zero e l'aria è tersa. Il chiarore del lampione non ha cancellato proprio tutte le stelle; sopra la facciata del Regency, sul lato opposto della piazza, qualche avanzo di costellazione resta appeso al cielo meridionale. Quella particolare facciata è una ricostruzione, un pastiche - l'hotel che in tempo di guerra si chiamava Fitzrovia ha subíto allora qualche incursione della Luftwaffe - e alle sue spalle si erge la torre dell'Ufficio postale, di un solenne squallore municipale di giorno, ma valoroso vestigio di tempi piú radiosi di notte, complice il parziale mascheramento dovuto alle tenebre e a un'illuminazione suggestiva.

E adesso, che tempi sono questi? Sconcertanti e terribili pensa perlopiú quando si concede una pausa dalla routine settimanale per rifletterci. Ma non gli pare cosí in questo momento. Si sporge in avanti, spostando il peso del corpo sui palmi delle mani appoggiate al davanzale, e godendosi lo scenario limpido e sgombro. La sua vista, notoriamente buona, sembra addirittura acuita. Riesce a distinguere il baluginio della mica sulle pietre del lastrico nella piazza pedonalizzata, gli escrementi di piccione che la distanza e il gelo hanno rappreso in grumi di una loro speciale bellezza, come una spolverata di neve. Gli piace la nera simmetria delle aste in ferro battuto e delle loro ombre anche piú scure, e il fitto reticolo dell'acciottolato. I traboccanti cestini dei rifiuti sanno piú di abbondanza che di degrado e le panchine vuote disposte tutto intorno al giardino sembrano in benevola attesa del traffico diurno - le allegre squadre di impiegati in pausa-pranzo, i giovani ospiti dell'ostello indiano, solenni e diligenti, gli amanti, in preda a estasi silenziose o a crisi violente, i loschi spacciatori, la vecchia signora decrepita con le sue grida folli, ossessionanti. «Via, andate via!», è capace di strillare per ore di seguito, in un rauco gracidio che la fa assomigliare a un uccello di palude o a un animale da zoo.

Lí in piedi, immune al freddo come una statua di marmo, mentre contempla Charlotte Street e lo scorcio ineguale di facciate, ponteggi e tetti scoscesi, Henry pensa alla grande città come a un successo, un'invenzione geniale, un capolavoro biologico: milioni di individui formicolanti intorno all'accumulo stratificato di secoli di progresso, come intorno a una barriera corallina; gente che dorme, che lavora, si diverte, perlopiú in pace, animata dal desiderio pressoché unanime che tutto funzioni. Quanto all'angolo specifico di casa Perowne, siamo di fronte a un autentico trionfo di proporzioni; la piazza perfetta progettata da Robert Adam che si raccoglie intorno al cerchio altrettanto perfetto del giardino: un sogno settecentesco avvolto nel caldo abbraccio della modernità, dell'illuminazione stradale dall'alto e dei cavi a fibra ottica dal basso, con fresca acqua potabile che fluisce nelle tubature e liquidi di scolo portati via nella distrazione di un istante.

Abituale osservatore dei propri stati d'animo, Henry si interroga sulla natura di questa euforia durevole e deformante. Porse a livello molecolare si e verificato un incidente chimico durante il sonno: qualcosa di simile a un vassoio di bevande rovesciato, che mette in moto recettori analoghi alla dopamina innescando un succedersi a cascata di benevoli eventi intracellulari; o forse è la prospettiva di un sabato, se non la paradossale conseguenza di una stanchezza estrema.

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Spesso la gente si trascina fino alla piazza per mettere in scena un dramma privato. La via non è adatta, ovviamente. La passione ha bisogno di spazio, della vastità raccolta di un teatro. Su scala diversa, riflette Perowne, ormai riportato dalla luce di un nuovo giorno alla sua solita preoccupazione, potrebbe essere questa l'attrattiva del deserto iracheno - un territorio piatto e presumibilmente sgombro, analogo alla cartina di uno stratega su cui un furore di proporzioni industriali sia libero di scatenarsi. Il deserto, si dice, è il sogno di ogni esperto militare. Una piazza cittadina ne è l'equivalente privato. Domenica scorsa un ragazzo è andato su e giú per un paio d'ore, strillando nel cellulare, e la sua voce si affievoliva ogni volta che si allontanava verso il lato meridionale per poi riacquistare volume al suo ritorno, nel tenebrore del pomeriggio. Il mattino successivo, mentre andava al lavoro, Perowne ha visto una donna agguantare il telefono del marito e schiantarlo sul marciapiede. In quello stesso mese c'è stato un tale in completo scuro che, inginocchiato, con l'ombrello al fianco, pareva avere infilato la testa nell'inferriata del parco. In realtà si stava tenendo alle sbarre e singhiozzava. La vecchia con la bottiglia di whisky non potrebbe mai farla franca tra grida e schiamazzi nello spazio ristretto di una via, di certo non per tre ore consecutive. L'aspetto pubblico della piazza garantisce intimità a questi drammi personali. Le coppiette vengono qui per chiacchierare o piangere sommessamente sulle panchine. Quando esce dai locali angusti di case popolari e villette a schiera, quando da traverse soffocate emerge su scorci piú generosi di cielo e di alti platani allineati sul verde, su un respiro piú ampio di spazio e natura, la gente si ricorda dei propri bisogni essenziali e di come non siano stati soddisfatti.

D'altronde non manca neppure la gioia. Perowne la vede in questo preciso momento, là in fondo, vicino all'ostello indiano, mentre va ad aprire le altre imposte e la stanza si riempie di luce. C'è autentica animazione su quel lato della piazza. Due giovani asiatici in tuta - li riconosce: lavorano all'edicola di Warren Street - scaricano il contenuto di un furgone in un carretto sul marciapiede. Hanno già ammucchiato pile di cartelloni, bandiere piegate ed espositori di distintivi e fischietti, raganelle e trombe da stadio, berretti ridicoli e maschere in gomma di uomini politici - tremuli mucchi di Bush e Blair, con le prime facce in alto di un pallore spettrale alla luce del sole e lo sguardo vacuo rivolto al cielo. Gower Street, a pochi isolati in direzione est, è uno dei punti di raccolta per la marcia e una parte della fiumana è arrivata fin qui. Una piccola folla intorno al carretto vuole comprare prima che i venditori siano pronti. È l'allegria generale a sconcertare Perowne. Ci sono intere tamiglie una in particolare i cui quattro bambini, di varia misura e relativo giubbotto rosso vivace, hanno evidentemente ricevuto istruzione di tenersi sempre per mano; e studenti, e un pullman di mature signore in giacche a vento imbottite e scarpe robuste. Forse rappresentanti del Women's Institute. Uno dei due giovani in tuta alza le mani in segno di resa scherzosa, mentre l'amico ancora in piedi sul retro del furgone procede alla prima vendita. Spaesati dal trambusto, i piccioni della piazza decollano e perlustrano e scendono in picchiata in formazione di volo. Ad aspettarli su una panchina accanto a un cestino dei rifiuti c'è un uomo tremante e arrossato dal freddo, avvolto in una coperta grigia, con in grembo un pane affettato pronto per loro. Per i figli di Perowne, dire di qualcuno che «dà da mangiare ai piccioni» coincide col definirlo un deficiente. Alle spalle della calca intorno al carretto, un gruppo di ragazzi in giubbotto di pelle e capelli a spazzola osserva con espressione indulgente. Hanno già srotolato il loro striscione che proclama con semplicità, Slogan no, Pace sí!!

La scena sa di innocenza e di britannica estrosità. Nella sua tenuta da combattimento sul campo, Perowne immagina se stesso come Saddam nell'atto di sorvegliare con soddisfazione la folla da una terrazza ministeriale di Baghdad: i generosi elettori delle democrazie occidentali non permetteranno mai ai loro governi di attaccare il paese. Ma qui si sbaglia. L'unica cosa che Perowne crede di sapere riguardo a questa guerra è che si farà. Con o senza Onu. Le truppe sono sul posto, bisognerà che combattano. Dopo aver operato di aneurisma un docente di Storia antica iracheno, aver visto le sue cicatrici in seguito alle torture subite e ascoltato i suoi racconti, le idee di Perowne su questa imminente invasione si sono fatte ambivalenti e confuse.

Miri Taleb è un uomo piú vicino ai settanta che ai sessanta, minuto, di proporzioni quasi femminili, con una risata nervosa, una specie di nitrito isterico che potrebbe avere qualcosa a che fare con il periodo trascorso in carcere. Ha conseguito il dottorato presso lo University College di Londra e parla un inglese eccellente. È specialista in civiltà sumera e per piú di vent'anni ha insegnato all'università di Baghdad e ha collaborato a svariati rilievi archeologici nella zona dell'Eufrate. Il suo arresto è avvenuto un pomeriggio d'inverno, nel '94, fuori dall'aula dove stava per recarsi a insegnare. Gli studenti lo aspettavano in classe e non hanno assistito al fatto. Tre uomini gli hanno mostrato il tesserino delle forze dell'ordine e l'hanno invitato a seguirli in auto. Qui l'hanno ammanettato, ed è stato a quel punto che è iniziata la tortura. Le manette erano cosí strette che per sedici ore, fino a quando non gliele hanno tolte, non è riuscito a pensare ad altro che al dolore fisico. Entrambe le spalle hanno subito danni permanenti. Per i successivi dieci mesi è stato trasferito da un carcere all'altro per tutto l'Iraq centrale. Non aveva idea di che cosa significassero quegli spostamenti, né modo di far sapere a sua moglie che era ancora vivo. Neppure il giorno del rilascio ha scoperto quali fossero i capi d'accusa contro di lui.

Perowne ha ascoltato il professore nel suo studio e in seguito ha chiacchierato con lui in reparto, dopo l'intervento: per fortuna un successo completo. Per essere prossimo ai settant'anni, Taleb ha un aspetto notevole: pelle liscia come quella di un ragazzino, ciglia lunghissime, e baffi neri molto curati, certamente tinti. In Iraq non svolgeva alcuna attività politica, neppure a livello di interesse personale, e aveva rifiutato di iscriversi al Partito Ba'ath. Può essere stata quella la causa dei suoi problemi. Come pure il fatto che un cugino della moglie, morto da tempo, fosse stato membro del Partito comunista, oppure che un altro cugino avesse ricevuto dall'Iran la lettera di un amico esiliato a causa delle sue presunte origini iraniane; o ancora, che il marito di una nipote si fosse rifiutato di rientrare dal Canada dove aveva ottenuto un incarico come insegnante. Altra possibile ragione era che il professore aveva compiuto alcuni viaggi in Turchia in veste di consulente per certi scavi archeologici. L'arresto non aveva sorpreso molto né lui né la moglie. Entrambi, come tutti, conoscevano qualcuno che era stato fermato, trattenuto per qualche tempo, magari torturato, e alla fine rilasciato. Le persone ricomparivano all'improvviso sul posto di lavoro, senza una parola sulle loro esperienze, e nessuno osava fare domande - c'erano troppi informatori in giro, e una curiosità eccessiva poteva farti finire in galera. Alcuni tornavano in bare sigillate, ed era rigorosamente vietato aprirle. Era consueto sentire di amici e conoscenti in giro per ospedali, stazioni di polizia e uffici del governo nella speranza di avere notizie dei loro congiunti.

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Per quanto ne sa Perowne, Jay è l'unico medico americano ad avere accettato un enorme taglio su stipendio e privilegi annessi per lavorare in Inghilterra. Dice che si è innamorato del sistema sanitario. Si era innamorato anche di un'inglese, ci ha fatto insieme tre figli, ha divorziato, ha sposato una secinda bellezza locale simile alla prima ma con dodici anni in meno dalla quale ha avuto altri due figli - ancora molto piccoli - ed è in attesa del terzo. Ma il suo rispetto per la medicina socialmente impegnata e il suo amore per i bambini non fanno di lui un sostenitore della causa della pace. La guerra annunciata, secondo Perowne, di solito non divide la gente in modo prevedibile; il pacchetto di idee di cui si è a conoscenza non costituisce una guida affidabile. A parere di Jay, la questione è amara: il futuro grado di apertura delle società aperte dipenderà da come sapranno gestire la nuova situazione mondiale. Jay è un uomo dalle serene certezze, insofferente ai discorsi su rapporti diplomatici, armi di distruzione di massa, squadre di ispettori, prove di collegamenti con Al-Qaeda e cosí via. Quello iracheno è uno stato marcio, un alleato naturale del terrorismo, destinato a causare danni prima o poi; tanto vale occuparsene ora che l'esercito americano si sente baldanzoso dopo l'Afghanistan. E insiste che quando dice «occuparsene» intende liberarlo e democratizzarlo. Gli Stati Uniti hanno il dovere di riparare la precedente condotta politica disastrosa, agli iracheni almeno questo è dovuto. Ogni volta che parla con Jay, Henry si ritrova a propendere per il partito dei contrari alla guerra.

Strauss è un uomo massiccio di struttura solida e forte, fisicamente espansivo, energico, diretto nei modi, fin troppo per certi suoi colleghi inglesi. È completamente calvo dall'età di trent'anni. Fa esercizio fisico per almeno un'ora al giorno e, a vederlo, sembra un lottatore. Quando in sala anestesia si dà da fare intorno ai pazienti, preparandoli all'oblio, questi si sentono rassicurati dai muscoli scolpiti dei suoi avambracci, dalla massa compatta di collo e spalle, e dal modo in cui si rivolge loro: pratico, gioviale, senza arrendevolezza. Il degente apprensivo è pronto a credere che questo americano tarchiato darebbe la vita pur di risparmiargli un dolore.

Sono sei anni che lavorano insieme. A giudizio di Henry, Jay è la chiave del successo del suo team. Quando le cose vanno storte, Strauss diventa calmo. Se, per esempio, Perowne è costretto a recidere un'arteria di grande calibro per ripararla, Jay gli dà conto dei tempi con voce pacata, e conclude mormorando magari: «Hai un minuto, capo, poi è fatta». Nelle rare occasioni in cui la situazione si mette davvero male, quando non c'è via di ritorno, Strauss va a cercarlo fuori dopo l'intervento, in un angolo tranquillo del corridoio, gli mette le mani sulle spalle, le stringe forte e gli dice: «OK, Henry. Parliamone subito. Prima che tu cominci a metterti in croce». Non è cosí che un anestesista, seppure consulente, in genere si rivolge a un chirurgo. Di conseguenza, Strauss si è fatto una schiera di nemici superiore alla media. In piú di una commissione sanitaria, Perowne ha protetto la poderosa schiena dell'amico da una serie di pugnalate di colleghi. Di quando in quando si ritrova a dare a Jay consigli del genere: «Non mi importa come la pensi. Sii gentile con quello. Ricordati dei fondi per l'anno prossimo».

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Era una donna che aveva dedicato la vita alla casa, ai riti quotidiani di lustrare, spolverare, pulire e riordinare che un tempo erano ordinaria amministrazione, e oggi sono appannaggio di pazienti affetti da disturbi ossessivo-compulsivi. Ogni giorno, mentre Henry era a scuola, lei procedeva alle pulizie di pasqua. Traeva le piú intense soddisfazioni da un piatto di arrosto ben dorato, dallo splendore dei suoi tre tavolini a incastro, da una pila liscia e compatta di lenzuola a righe stirate alla perfezione, da una dispensa stipata di provviste; o dall'ennesimo golfino fatto ai ferri per l'ultimo bebè del piú lontano parente. Erano puliti i rovesci, i sotto, i dentro, gli angoli invisibili di ogni cosa. Forno e griglie venivano lustrati dopo ogni utilizzo. L'ordine e la pulizia costituivano l'espressione esteriore di un implicito ideale d'amore. Henry non faceva in tempo a posare il libro che stava leggendo, che quello già tornava a posto nello scaffale dell'ingresso. Il giornale del mattino poteva finire in pattumiera entro l'ora di pranzo. I vuoti del latte messi fuori della porta erano splendenti come i coltelli da tavola. Ogni singolo pezzo aveva il proprio gancio, la mensola, il cassetto, compresi i suoi vari grembiuli, e i guanti gialli di gomma fermati con una molletta da bucato e appesi accanto al contaminuti a forma d'uovo per calcolare la cottura delle uova.

È sicuramente a causa sua che Henry si sente a proprio agio in sala operatoria. Chissà quanto le sarebbero piaciuti il pavimento nero tirato a cera, gli strumenti chirurgici in acciaio sistemati in file parallele su un vassoio sterile, e la sala lavaggio con la solennità dei suoi rituali; come avrebbe apprezzato l'estrema precisione del dettaglio, le cuffie immacolate, le unghie corte. Avrebbe dovuto portarla con sé quando era ancora lucida. Non ci ha pensato in tempo. Non gli era mai passato per la mente che il suo lavoro, i quindici anni di pratica ospedaliera, avessero un'affinità con le occupazioni di sua madre.

Nemmeno a lei è capitato di pensarlo. Al tempo Henry non se ne rendeva conto, ma è cresciuto nella convinzione che la sua fosse un'intelligenza limitata. Tendeva a considerarla priva di curiosità. Ma non era vero. Sua madre amava un bel colloquio cuore a cuore con le vicine di casa. Al bambino Henry di otto anni piaceva infilarsi dietro un mobile sul pavimento e origliare. Malattie e operazioni erano argomenti di rilievo, specie se associate al parto. Fu allora che gli capitò di sentire per la prima volta le espressioni «sotto i ferri» e «in mano ai medici». «A quanto dice il dottore» era un ritornello dominante. Può darsi che nella scelta del mestiere di Henry abbiano avuto un ruolo queste conversazioni ascoltate di nascosto. C'erano poi le immancabili storie di adulteri, o di presunte infedeltà, e di figli ingrati, dei controsensi dei vecchi, e di quello che il parente di qualcuno aveva lasciato scritto nel testamento, e di come quella brava ragazza non riuscisse a rimediare un marito decente. Era essenziale separare i buoni dai cattivi, ma non sempre risultava cosí facile distinguerli. La malattia si abbatteva indifferentemente sugli uni e sugli altri. Anni dopo, quando Henry compí i propri sforzi di allievo diligente sui romanzi ottocenteschi studiati da Daisy al primo anno di università, vi riconobbe tutti i temi di sua madre. Non c'era nulla di meschino nei suoi interessi. Erano identici a quelli di Jane Austen e George Eliot. Lilian Perowne non era né stupida né superficiale, la sua non era un'esistenza misera, e lui, giovane com'era, non aveva alcun diritto di trattarla con sufficienza. Ma ormai è troppo tardi per le scuse. A differenza di quanto succede nei romanzi di Daisy, nella vita vera le rese dei conti sono di rado cosí precise: e gli equivoci spesso restano irrisolti. Senza neanche conservare chissà quale urgenza. Ma semplicemente dissolvendosi. La gente si confonde, ricordando, oppure muore, oppure muoiono i problemi lasciando il posto ad altri, nuovi.

Senza contare che Lily aveva un'altra vita di cui nessuno avrebbe potuto sospettare allora, né lontanamente adesso. Era una nuotatrice. La mattina di domenica tre settembre 1939, mentre da Downing Street Chamberlain annunciava alla radio che il paese era entrato in guerra contro la Germania, la quattordicenne Lily si trovava alla piscina comunale vicina a Wembley, per la sua prima lezione con un'atleta internazionale di sessant'anni che aveva gareggiato per la Gran Bretagna alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912: i primi campionati di nuoto femminile in assoluto. La sportiva aveva notato Lily in piscina e si era offerta di darle lezioni gratuitamente, allenandola nel crawl, specialità assai poco femminea. Lily partecipò a qualche competizione locale verso la fine degli anni Quaranta. Nel 1954 gareggiò per il Middlesex nei campionati regionali. Si piazzò seconda, e la sua piccola medaglia d'argento, appesa a un trofeo a forma di scudo in legno di quercia, rimase per tutta l'infanzia di Henry sulla mensola del camino. Adesso è su un ripiano in camera sua, in clinica. Piú in là, o piú in alto di quell'argento, Lily non andò mai, ma nuotò benissimo per tutta la vita, veloce quanto basta per sollevare davanti a sé un'onda frontale alta e sinuosa.

Henry imparò da lei, naturalmente, ma il suo ricordo piú caro legato al nuoto e a sua madre risale a quando aveva dieci anni, a un'uscita scolastica fatta un mattino alla piscina comunale. Lui e i suoi amici si erano già cambiati, erano passati alle docce e al lavaggio dei piedi, e dovevano aspettare a bordo vasca che finisse l'ora degli adulti. Due insegnanti si affannavano a chiedere il silenzio, cercando di contenere l'eccitazione dei bambini. Ben presto rimase in acqua soltanto una figura con una cuffia ornata di petali di gomma bianca che Henry avrebbe dovuto riconoscere da un pezzo. La classe intera ne stava ammirando la velocità di avanzamento lungo la corsia, la scia che si lasciava dietro, appena sotto i fianchi, e il modo in cui voltava la testa a respirare senza spezzare la linea nell'acqua. Quando Henry si rese conto che era lei si convinse di averlo saputo sin dal principio. Ad aumentare il suo tripudio, non dovette neppure rivendicarla a sé ad alta voce. Qualcuno infatti esclamò: «Quella è Mrs Perowne!» La osservarono in silenzio raggiungere il fondo della corsia giusto sotto i loro piedi ed eseguire una fulminea capriola sott'acqua che al tempo rappresentava un'assoluta novità. Altro che casalinga armata di straccio per la polvere. Henry l'aveva vista nuotare tante volte, ma questa era un'altra cosa; gli amici erano tutti testimoni delle sue qualità sovrannaturali, di cui anche lui partecipava. Di sicuro lei lo sapeva, e nell'ultima metà vasca tributò a lui solo uno sfoggio diabolico di velocità. Batteva a schiuma l'acqua con i piedi, le bianche braccia snelle si alzavano e fendevano la superficie, l'onda frontale aumentava, la scia posteriore si faceva piú notevole. Il corpo scivolava fluttuando intorno alla serpentina della propria onda. Per starle dietro si sarebbe dovuto correre lungo la piscina. Si fermò all'estremità opposta della vasca, mise giú i piedi, piazzò le mani sul bordo e si issò agilmente fuori dall'acqua. Doveva avere una quarantina d'anni al tempo. Rimase lí seduta, i piedi ancora immersi, si levò la cuffia, piegando di lato la testa, e rivolse loro un sorriso titubante. Una delle maestre incoraggiò l'applauso solenne dei bambini. Sebbene fosse già il 1966 - i ragazzi si facevano crescere i capelli lunghi sulle orecchie e le ragazze venivano a scuola in jeans - dominava ancora un certo contegno anni Cinquanta. Henry applaudí con gli altri, ma quando gli amici gli si fecero intorno, era talmente soffocato dall'orgoglio, talmente esaltato, da non riuscire a rispondere alle loro domande, e da entrare con sollievo in acqua, per poter nascondere le sue emozioni.

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Daisy lo sta supplicando. Ha la testa piena di questa roba almeno quanto lui. Il discorso che fa è una sintesi di tutto quello che ha sentito nel parco, di quello che entrambi hanno sentito e letto già centinaia di volte, le previsioni nefaste che si trasformano in dati di fatto semplicemente attraverso la ripetizione, l'incanto allettante del pessimismo. Gli tocca ascoltare per l'ennesima volta del mezzo milione di morti iracheni a seguito di carestie e bombardamenti, dei tre milioni di profughi, della débacle dell'Onu, del collasso dell'ordine mondiale qualora l'America agisse da sola, di una Baghdad completamente distrutta e occupata strada dopo strada dalla Guardia repubblicana, di turchi che invadono da nord, iraniani da est, israeliani che attaccano da ovest, dell'intera regione in fiamme con Saddam che, messo alle corde, ricorre all'impiego di armi chimiche e biologiche - sempre ammesso che ce le abbia, visto che nessuno l'ha mai dimostrato in modo sicuro, né sono mai stati provati i presunti legami del regime con Al-Qaeda - senza contare che, una volta compiuta l'invasione, gli americani se ne infischieranno della democrazia, non spenderanno un centesimo in Iraq, si prenderanno il petrolio e costruiranno le loro basi militari governando il paese come una colonia.

Mentre lei parla, Henry la osserva con affetto e con un certo stupore. Eccoli pronti per una delle loro solite scenate, e cosí presto. In genere Daisy non parla di politica: non rientra nei suoi argomenti preferiti. Che sia questa la fonte di tanto inquieto entusiasmo? Il rossore le sale dal collo e ogni nuova ragione fornita per non andare alla guerra accumula veemenza dalla precedente e la innalza verso un'apoteosi. Gli esiti infausti dei quali è convinta la stanno rendendo euforica; a ogni fendente fa secco un mostro diverso. Quando ha finito, gli assesta una spinta affettuosa sul braccio, come volesse scuoterlo. Poi finge un'espressione afflitta. Vuole a tutti i costi che Henry prenda coscienza della verità.

Consapevole di assumere una posizione e preparandosi quindi a combattere, lui dice: - Ma tutte queste sono illazioni sul futuro. Per quale motivo non dovrei dubitarne? E provare invece a immaginare una guerra breve, il pericolo di disgregazione dell'Onu scongiurato, nessuna carestia, niente profughi né invasioni da stati vicini, nessuna Baghdad rasa al suolo e un numero di vittime inferiore a quelle che Saddam provoca in media nell'arco di un anno tra la sua gente? E se gli americani provassero a mettere in piedi una democrazia, investissero qualche miliardo di dollari e poi togliessero il disturbo perché il presidente vuole farsi rieleggere l'anno prossimo? Immagino che saresti contraria lo stesso e non mi hai ancora spiegato perché.

Daisy si ritrae e lo scruta con preoccupata sorpresa. - Papà, non sarai favorevole alla guerra, spero.

Henry si stringe nelle spalle. - Nessuna persona sensata è favorevole alla guerra. Però da qui a cinque anni potremmo anche non rimpiangere di averla fatta. Vorrei vedere la fine di Saddam. Hai ragione, potrebbe essere un disastro. Ma potrebbe anche essere la fine di un disastro e l'inizio di qualcosa di migliore. Tutto dipende dagli esiti e nessuno può prevedere quali saranno. Ecco perché non riesco a pensare di scendere in piazza.

Lo stupore di Daisy si è trasformato in disprezzo. Henry alza la bottiglia e le offre un'aggiunta di vino, ma Daisy scuote la testa, posa il bicchiere e si allontana ancora di piú. Non ha intenzione di bere insieme al nemico.

- Tu detesti Saddam, ma Saddam è una creatura degli americani. L'hanno sostenuto, l'hanno armato.

- Sí, certo, come i francesi, i russi, e gli inglesi. Un grosso sbaglio. Gli iracheni sono stati traditi, specie nel '91, quando li si incoraggiò a sollevarsi contro i ba'athisti che poi li hanno fatti fuori. Questa potrebbe essere un'occasione per riparare.

- Allora sei favorevole alla guerra.

- Te l'ho già detto, non voglio nessuna guerra. Ma questa potrebbe essere il male minore. Lo sapremo tra cinque anni.

- Tipico.

Henry sorride, a disagio. - Di che?

- Di te.

Questo non è esattamente l'incontro che aveva immaginato e, come capita qualche volta, la discussione fra loro sta sconfinando nel personale. Lui non c'è piú abituato, ha perso lo smalto. Sente una morsa poco sopra l'altezza del cuore. O sarà il livido sullo sterno? E già al secondo bicchiere abbondante di champagne, mentre lei ha appena assaggiato il primo. La voglia di ballare le è passata del tutto. Si appoggia risoluta allo stipite della porta, le braccia conserte, la piccola faccia da elfo tesa di rabbia. Adesso reagisce alla sua alzata di sopracciglia.

- Tu stai dicendo, procediamo con la guerra e tra cinque anni si vedrà: se funziona, sarò favorevole, se non funziona, non mi sentirò responsabile. Sei una persona istruita, vivi in quella che ci piace definire una democrazia solida, e il nostro governo ci sta portando alla guerra. Se la ritieni una buona idea, benissimo, dillo, sostieni la tua tesi, ma non puoi puntare sul rosso e sul nero contemporaneamente. Vuoi mandare le truppe o no? Perché è adesso che sta succedendo. Quanto alle previsioni per il futuro, accompagnano spesso le scelte etiche. Si chiama vagliare le conseguenze. Personalmente, sono contraria a questa guerra perché credo che ne verranno cose terribili. Tu a quanto pare pensi il contrario, ma non sei disposto a sostenere le tue convinzioni.

Henry riflette e dice: - È vero. Credo onestamente che mi potrei sbagliare.

Questa ammissione e i suoi modi accomodanti la fanno infuriare ancora di piú. - E allora perché rischiare? Che fine ha fatto il principio di prudenza che sbandieri sempre? Se pensi di spedire centinaia di migliaia di soldati in Medio Oriente, ti conviene sapere che cosa stai facendo. Ma questi strozzini idioti e prepotenti della Casa Bianca non lo sanno invece, non hanno idea di dove ci stanno trascinando, e io non posso credere che tu stia dalla loro parte.

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