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| << | < | > | >> |Pagina 5Quando tornò per la prima volta a New York, cioè vent'anni fa, mio fratello Jack era in preda a una specie di stupore, perché era morta da poco sua figlia Peg. Cosa si può dire quando muore una figlia? Aveva sedici anni, e per tutti noi - e per Jack in particolare, naturalmente - il colpo fu devastante. Quando capii la profondità del suo dolore, vale a dire quando passato il primo shock si risvegliò alla cupa serie di giorni vuoti e grigi, alla vita priva di senso, di speranze e di piaceri che lo aspettava, lo chiamai dall'altra parte di quello che sembrava un abisso e ottenni una risposta talmente flebile che poteva anche essere soltanto un'eco. Insomma, non sapevo cosa dirgli per riportarlo a contatto con la realtà della vita, e più direttamente con me, sua sorella. Non credo che si possa dire molto.Non ho mai temuto per la sua sanità mentale, però. Non ho mai avuto paura che tentasse di farsi del male: e per la semplice ragione che aveva il suo lavoro. E col primo, stanco, riluttante tentativo di rimettersi in sesto tornò nello studio, un loft che gli avevo affittato in un vecchio magazzino su Crosby Street. Ricordo di averlo osservato mentre in silenzio costruiva dei telai: la facilità con cui svolgeva questa attività consueta dava visibilmente sollievo a un'anima addolorata. Sedetti nel loft bevendo tè e tentando di fare conversazione, mentre lui annuiva e grugniva e inchiodava i telai; il giorno dopo, tagliò le tele e incominciò ad attaccarvele sopra, e io di nuovo sedetti là, parlando o tacendo, a seconda di quello che lui sembrava preferire, un corpo familiare nel solito luogo triste durante quelle lente, bruttissime giornate. Ero lì anche quando mescolò i colori in un secchio, rosso di Persia e nero, e li diluì con acquaragia fino a dargli la consistenza di una minestra: ricordo come faceva roteare i pennelli tra le dita e si passava le setole sul palmo della mano. Aveva trovato dei pennelli di seconda mano in un negozio un paio di isolati a est, a Chinatown: erano dei grossi pennelli da imbianchino ammorbiditi dal lungo uso da parte degli operai. Mentre lo guardavo, capii ciò che i lunghi anni a Port Mungo avevano fatto alle sue mani. Un tempo, le mani di Jack erano come le mie: il nostro punto di forza, pensavo sempre - sottili e lunghe, con le dita magre e affusolate, eleganti ossa bianche delicatamente assemblate per svolgere complicati movimenti con il violino, per esempio, o con la stilografica. Le mie apparivano ancora bianche come in passato; quelle di Jack, invece, si erano trasformate in entità puramente strumentali, e come tutti gli attrezzi adoperati quotidianamente mostravano le tracce dell'uso: le unghie segnate e irregolari e indurite, la pelle macchiata, il colore incrostato negli interstizi intorno alle unghie, e il dorso coperto da peli pallidi come paglia. Lui annuiva e grugniva, e io incominciai ad accorgermi che anche lo sguardo e il carattere dell'uomo risultava indurito e segnato: capii che per troppi anni aveva lavorato alla cruda luce del sole in quella squallida città. Poi un giorno, senza alcun preavviso, mi disse che non voleva più che andassi al loft. Affermò che lo soffocavo - lo soffocavo! Fui ferita da questo improvviso rifiuto, e dalla sua mancanza di gratitudine, ma non del tutto sorpresa. Era la conferma che gli anni a Port Mungo non avevano contribuito a civilizzarlo: anzi, avevo la netta impressione che avesse volutamente distrutto in sé ogni traccia del decoro sociale che aveva appreso e vissuto fin da bambino in un paese che non considerava più suo. Soltanto sei settimane più tardi, durante le quali non avevo sentito nemmeno una sua parola, mi chiamò e mi propose di bere qualcosa insieme. Ci trovammo in un bar di Lafayette Street, e devo dire che rimasi sgomenta nel vederlo. In sei settimane era diventato uno spettro, senza carne sulle ossa. Dominai l'ondata di irritazione che il suo aspetto provocava in me e ricorsi al ben noto repertorio di espressioni preoccupate. Sedemmo a un tavolo appartato, in fondo al bar. Quando lui prese il suo bicchiere, gli vidi negli occhi quella che so chiamare soltanto "estinzione dello spirito", e sospettai che avesse a che fare con qualcosa che non era solo dolore. Aspettai che parlasse. Lui giocherellava con la sigaretta. C'era un tremito nelle sue dita ingiallite mentre si portava il bicchiere alle labbra. Inghiottì la vodka d'un fiato. | << | < | > | >> |Pagina 63Per quasi un anno, vissero nell'appartamento vicino al lungomare. Mio fratello disse che lavorava sodo e migliorava rapidamente. Anche Vera si dava da fare, e Jack la guardava attentamente. All'inizio, stava al cavalletto senza interruzione, a tutte le ore, per giorni e notti di fila. Dipingeva quello che vedeva per le strade dell'Avana con uno stile libero e veloce, su pezzi di tessuto di cotone che acquistavano a poco prezzo nelle fabbriche della città vecchia; usavano grossi pennelli e pigmenti di brillanti colori primari che mescolavano in barattoli e secchi. Palazzi in rovina dell'epoca coloniale bruciati dal sole, coi tetti mangiati dall'erba. Palme torreggianti con massicce automobili con le pinne che scivolavano sotto di loro. Plazas e fontane e statue e grandi boulevard, e habaneros vivacemente vestiti che si ritrovavano agli angoli delle strade a ballare e a far girare una bottiglia. Donne che gridavano sporgendosi da una finestra e tiravano su la spesa in un canestro. Poveri .cor campesinos addormentati sulle panchine. Pappagalli, crani, campi di canna da zucchero ondeggianti nella luce lunare, divinità del sole, cisterne arrugginite e cinema barocchi dove si proiettavano pellicole americane - tutto trovava spazio nelle grandi tele di Vera.Jack imparava da lei, sebbene non gli insegnasse niente e non riuscisse a spiegare quello che faceva. "È un mistero,Jack," diceva. "L'arte è un mistero, okay?" E si appoggiava un dito sul petto e l'altro sull'occhio. Questo gesto gnomico era accompagnato da un solenne silenzio, seguito da uno scoppio di risa cordiali. Se ne andarono prima della rivoluzione, perdendosi lo spettacolo di Fidel Castro che entrava in città dopo un viaggio trionfale lungo quanto l'isola, e il suo discorso di incitamento alla folla di mezzo milione di persone riunita davanti al palazzo presidenziale. Apparentemente quelle parole trasformarono i cinici in romantici e i romantici in fanatici - quasi avrei voluto esserci anch'io. Fu per questo che se ne andarono? Per il deteriorarsi della situazione politica, l'escalation di violenza, l'opposizione sempre più dura del popolo cubano alla brutale oppressione che sopportava da tanto tempo: fu per tutto ciò? No, non fu per questo. Si trattò di una cosa molto più banale. L'autentica ragione, disse Jack, era che Vera non riusciva più a sopportare Cuba. Dopo i mesi fecondi, sprofondò in un periodo di inattività, durante il quale restava distesa sul letto del suo studio tutto il giorno a fumare sigari e a guardare il soffitto. Poi incominciò a uscire. Ben presto arrivò a preferire le strade allo studio, le notti ai giorni: tutto era così tristemente prevedibile. A quel tempo, Vera e Jack erano sottoposti a un forte stress, in parte legato ai soldi, in parte all'irritabilità che derivava dalle bevute quotidiane, e in parte alla discordia che nasceva dalla pigrizia di lei. | << | < | > | >> |Pagina 95Ho vividi ricordi dei giorni trascorsi a Pelican Road. Naturalmente ero molto curiosa di conoscere Peg, avendo saputo tante cose di lei dalle lettere di Jack nel corso del tempo. Quando arrivai là, era una bambina timida, di dieci anni, con gli arti lunghi e i lineamenti sottili di una vera Rathbone; aveva già un bel caratterino. La prima sera, dopo che avevo fatto un bagno ed ero andata a sedermi stancamente in una vecchia poltrona di vimini sul molo, Peg si appoggiò alla porta di casa, guardandomi, oscillando da un piede all'altro e aggrottando la fronte."Sei molto bianca," disse, alla fine. Colsi una vaghissima traccia di accento inglese, quasi totalmente sommerso nella cantilena del patois. Decise che ero innocua e si avvicinò. Con un gesto circospetto, mi toccò i capelli. "Zia Gin?" "Sì, Peg." A questo punto, la bambina aveva vinto quasi completamente la sua timidezza, e si sistemò mezzo seduta in braccio a me; prese a stuzzicarmi gli orecchini con le lunghe dita sporche. Mi preoccupai che potesse avere i pidocchi. "Vuoi uscire sull' agua?" Peg pronunciò questa frase in modo quasi incomprensibile. Jack comparve sul molo con una bottiglia di liquore nero senza etichetta. "No, bimba, zia Gin non vuole uscire sull'acqua. Anzi, io credo che neanche tu debba andare là fuori." Si volse verso di me e mi disse che recentemente la comunità aveva perso un bambino per colpa di un coccodrillo. Peg si animò a queste parole e, con le sue forti dita sporche, mi costrinse a distogliere la faccia da suo padre e mi raccontò del bambino afferrato dal "cocco proprio qui vicino". La sua faccia era a pochi centimetri dalla mia, gli occhi sgranati. "Quel bambino," mormorò, "era un ammasso di sangue." "Peg, perché non te ne vai al diavolo, adesso," disse Jack. "Sì, Jack," disse lei, con un tono stanco che doveva aver imparato dalla madre, "me ne vado al diavolo. A dopo, zia Gin." "A dopo, Peg." Poi, con un gesto calmo e con un'occhiata verso di me, prese una sigaretta dal pacchetto di suo padre, la accese, e se la lasciò pendere da un angolo della bocca, facendo uscire il fumo dal naso. Jack parve non notarla. Peg lasciò il molo camminando all'indietro, sempre con la sigaretta che le pendeva dalle labbra, guardandomi negli occhi e facendo strani gesti con le dita di entrambe le mani. Una volta entrata nell'oscurità della casa, sfrecciò via con un grido, e sentimmo i suoi piedi nudi che percorrevano le scale. "Una bambina eccezionale," dissi. "Mi preoccupa, con quella barca." Osservammo il fiume melmoso, che in alcuni punti brillava agli ultimi raggi del sole, e probabilmente nascondeva coccodrilli affamati. Mi piaceva guardare mio fratello che faceva il padre. Sembrava a suo agio, o meglio assomigliava a nostro padre: affettuoso, distratto, indifferente alle piccole cose come il fumo, ma attento nonostante quel suo modo svagato: Peg, pensai, non pareva avere bisogno di altro. Più tardi, quella stessa sera, svestendomi per andare a letto nella camera ricavata in fondo allo studio di Vera, notai improvvisamente una figura in piedi sulla soglia. Una lampada a petrolio fornisce solo una debolissima luce, e io sussultai scorgendo una sagoma immobile dove un secondo prima non c'era nessuno. Proruppi in un piccolo grido. Era lei, naturalmente. "Peg, cosa ci fai qui?" "Voglio vedere la tua pelle bianca!" Ero stupefatta. "Be', mi dispiace, cara, ma sono piuttosto pudica in questo campo." "Non posso guardarti? A Jack non dispiace." "Ho paura di no." "Okay. A dopo, zia Gin." "A dopo, Peg." | << | < | > | >> |Pagina 130Qualche mese dopo questa visita nacque Anna. Io tentai di scoprire se la gravidanza di Vera avesse avuto qualche effetto su Peg, magari contribuendo ad alimentare la sua rabbia verso il mondo, e verso suo padre in particolare, ma Jack non mi rivelò mai niente: non gli piaceva parlare del periodo tra la nascita di Anna e la morte di Peg. Spesso ho pensato che doveva essere disperatamente triste per il fatto di aver perso la figlia prima di riuscire a superare il difficile periodo della sua crescita, che in qualche modo doveva sentirsi tremendamente responsabile della sua morte, come se la rabbia che nutriva verso di lei in quel periodo avesse davvero provocato la disgrazia che l'aveva colpita.Nel corso degli anni, mi preoccupai sovente per questo, ma per molto tempo sembrò che i fatti avvenuti fra le mangrovie dovessero restare inconoscibili, almeno per me - un mistero, anche se odio questa parola. Non esistono misteri: solo persone che nascondono le cose, solo segreti. E sicuramente le circostanze della morte di Peg erano un segreto - il segreto di Jack e forse di Vera -, e tali sarebbero rimaste finché uno di loro non avesse deciso di divulgarle. Alla fine, Jack me le raccontò ma, per parecchi anni, nei nostri momenti di maggiore intimità - di solito la sera tardi, mentre bevevamo -, potevamo parlare di tutto, tranne che di questo. Accennava alla sua stupidità, al suo fallimento nel prevenire la morte della figlia, ma in un modo che invariabilmente mi spingeva a dirgli di non accusare se stesso: non l'avrebbe lasciato succedere, se solo avesse potuto impedirlo. Tuttavia non parlò mai dei dettagli della faccenda. Pensavo sempre: cos'ha da nascondere? Per natura, non era un uomo da tenere per sé i propri pensieri, per quanto complicati o assurdi o vergognosi fossero: sicuramente non con me, che lo conoscevo assai meglio di chiunque altro. Ero ferita dalla sua reticenza? Suppongo di sì, e anche preoccupata, nella misura in cui non mi piaceva l'idea che quell'atteggiamento covasse in lui: in questo, sono abbastanza freudiana da credere che la mente debba scaricare i materiali tossici per non restarne infettata. Ritenevo che il silenzio di Jack a proposito della morte di Peg indicasse qualche cattiveria o, piuttosto, qualche senso di colpa, tuttavia non sapevo se appartenesse a lui o ad altri. C'erano stati degli indizi, ma forse questo è un termine troppo forte per le strane mezze frasi borbottate - come sempre la sera tardi, mentre bevevamo - quando i discorsi volgevano in quella direzione. Erano borbottii subito interrotti, labbra sigillate, testa scossa; la disinibizione provocata dal copioso alcol risultava insufficiente di fronte ai potenti meccanismi della repressione che operavano nel suo intimo.
Una sera, ricordo, sedemmo fino a tardi nella grande sala da basso. Era il
periodo in cui Jack stava ancora in Crosby Street, ed eravamo usciti a cena e
tornati nell'Undicesima per un ultimo bicchiere. A un certo punto, i discorsi
finirono su Port Mungo. Quando una conversazione incominciava a languire, Jack
cercava di cambiare rotta e di concentrare la sua attenzione altrove:
abbandonava la posizione a gambe distese su una sedia o un divano e si chinava
in avanti coi gomiti sulle ginocchia, la schiena curva e il mento su una mano,
mentre teneva l'altra in aria con un dito alzato, oppure tamburellava con le
dita sulla tavola. Stava eseguendo questo rituale quando dissi che, in città, il
problema principale per gli artisti era la luce. Fu allora che, tutt'a un
tratto, vide qualcosa, si rizzò e parlò come se non rispondesse a quello che
avevo detto, ma a una serie di associazioni che le mie parole avevano scatenato
nella sua mente.
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