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| << | < | > | >> |Pagina 5La prima crisi depressiva di mia madre si verificò quando avevo sette anni, e io sentii che era colpa mia. Sentii che avrei dovuto prevenirla. Questo accadde circa un anno prima che mio padre ci lasciasse. Si chiamava Fred Weir. A quel tempo sapeva essere generoso, divertente, espansivo – mio fratello Walt assume lo stesso atteggiamento, a volte. Quando si avvicinava una crisi c'erano dei sintomi evidenti, almeno per me – non so per gli altri. Poi, ecco l'improvvisa perdita di controllo, la fuga precipitosa dalla stanza, la porta sbattuta in fondo al corridoio e, infine, il silenzio stupefatto. Io, però, ero in grado di evitare tutto questo. Facevo lo sciocco, o il bambino piccolo, e distraevo mio padre dall'ondata crescente di noia e frustrazione che probabilmente avvertiva, trovandosi intrappolato nella soffocante atmosfera domestica che la mamma amava creare. Più tardi, quando lei incominciò a scrivere, non creò più nessuna atmosfera: solo un vago squallore, molto alcol e tristezza. Ma mio padre se n'era già andato da un bel po'. A quel tempo vivevamo in un grande appartamento, brutto e scomodo, sull'Ottantasettesima Strada Ovest, dove oggi abita mio fratello Walter con la sua famiglia. Non ho mai messo in discussione il diritto di Walt ad averlo dopo la morte della mamma, e ho accettato il fatto che a me non abbia lasciato niente. In realtà, mi diverte che mi abbia sbattuto in faccia quest'ultimo insulto quando era già nella tomba. Era giusto che mio fratello avesse l'appartamento, date le dimensioni della sua famiglia e la circostanza che io vivevo da solo, anche se lui non aveva propriamente bisogno di quella casa. Walt è un uomo ricco – il pittore Walter Weir! Ma non provo risentimento per questo: di certo, se avessi sentito uno dei miei pazienti affermare una simile cosa, avrei subito colto la rabbia celata nelle sue parole. Con consumata abilità, allora avrei tirato fuori la verità, l'avrei portata in superficie, dove entrambi avremmo potuto affrontarla senza reticenze: Lei odiava sua madre! La odia ancora! Come ormai avrete compreso, sono uno psichiatra. Per mestiere, faccio ciò che voi fate spontaneamente per le persone che amate, il cui benessere vi è stato affidato. Per molti anni, ho avuto lo studio in Park Avenue, cosa meno grandiosa di quel che sembra. L'affitto era basso, al pari delle mie parcelle. Lavoravo perlopiù con le vittime di traumi, che fra tutte le persone mentalmente disturbate della città di New York sentono con particolare intensità di essersi meritate le loro sofferenze. Ciò le rende lente nel recupero. Ho scelto questa professione a causa di mia madre, e non sono l'unico. Sono le madri che hanno spinto la maggior parte di noi verso la psichiatria: di solito, perché le abbiamo deluse. Spesso, quando mi viene mandato un paziente, dopo i preliminari, allorché si è messo – o, più frequentemente, messa – a proprio agio, la sua prima domanda è: Da dove vuole che cominci? "Mi dica a cosa stava pensando." "A niente." "A cosa stava pensando mentre veniva all'appuntamento?" E così si parte. Io ascolto. La mia è una professione che, osservata superficialmente, potrebbe sembrare adatta alle personalità passive. Ma non abbiate troppa fretta nel concludere che non ci interessi il potere. Io resto lì seduto a riflettere, mentre voi mi raccontate i vostri pensieri, e con i miei grugniti e i miei sospiri vi guido verso quello che considero il nocciolo fondamentale del vostro problema. Non è un lavoro scientifico. No, io trovo la mia strada all'interno della vostra esperienza, con un'intuizione basata su qualche anno di pratica, di letture, di introspezione finalizzata e poco altro: insomma, c'è molto di artistico in quello che faccio. Alla fine, mia madre si riprese, ma c'è uno stretto rapporto fra depressione e rabbia e, a un certo livello, lei rimase arrabbiata. La sua collera era rivolta perlopiù contro mio padre, naturalmente. Rammento con chiarezza il giorno in cui capii per la prima volta la dinamica di abbandono e rabbia dei miei genitori. Fred aveva portato Walt e me fuori a pranzo, una cosa che faceva piuttosto saltuariamente quando era in città e si ricordava di avere due figli che abitavano nell'Ottantasettesima Strada Ovest. Per me, quelle occasioni erano fonte di stress, a partire dalla corsa in taxi verso una steak-house dell'East Side – in realtà, tutto il tempo trascorso con mio padre era stressante. Ricordo che un'estate ci portò a fare una gita in un villaggio delle Catskills. Quell'escursione fu un autentico inferno: infinite ore seduto dietro a Walter nella nostra grossa Buick, tra montagne ininterrotte, in un'atmosfera che non era mai meno che esplosiva. Fred Weir era ancora bello, a quel tempo, con i capelli neri pettinati all'indietro dalla cima della fronte; era un individuo alto, atletico, con un sorriso affascinante. Non era un uomo di successo, ma dava l'impressione di esserlo e, quando ci portava fuori a pranzo, mi meravigliavo per il tono perentorio con cui si rivolgeva ai camerieri, uomini svelti con indumenti bianchi inamidati che non sorridevano mai e che, in quella sala tutta pannelli di legno e fumo di sigari, intimidivano profondamente l'adolescente magro e nervoso che ero allora. La mia ansia non era certo attenuata dalla presenza di coltelli da bistecca con pesanti impugnature di legno e lame seghettate, e di una sorta di carrello infernale che veniva spinto, fumante, fino al nostro tavolo da un uomo corpulento coi baffetti, il quale indicava la carne con la punta di un coltello scintillante e mi chiedeva dove volevo che la tagliasse. Quando Fred incominciava ad annoiarsi di noi e dava segno di voler domandare il conto, Walt gli chiedeva consigli su come investire, dicendo di avere da parte una somma considerevole. Mio fratello era sempre più incuriosito di me da nostro padre. Da ragazzo, era colpito da ciò che accadeva nella camera da letto dei nostri genitori, insomma. Voleva entrare e scoprire che cosa facevano. Al ritorno da queste uscite, trovavamo sempre la mamma angosciata, poiché durante la nostra assenza le era venuto in mente che Fred poteva esercitare un'influenza maggiore della sua sui figli, e così lei avrebbe perso anche noi. Ero io a doverla rassicurare sul nostro amore e sulla nostra lealtà. Per qualche tempo, allora, riversava il suo affetto su di me, finché non si distraeva e imboccava il corridoio, diretta al suo studio. Sentendo la porta che si chiudeva e il tic-tic-tic della macchina per scrivere, sapevo che non sarebbe più uscita fino all'ora giusta per un cocktail. Il rumore della macchina per scrivere mi confortava. Se scriveva, non stava piangendo: in seguito, comunque, imparò a fare entrambe le cose contemporaneamente. | << | < | > | >> |Pagina 33Suo fratello era uno dei veterani più malridotti del gruppo, anche se non glielo dissi la sera che ci conoscemmo. La mia permanenza alla Johns Hopkins era appena giunta al termine quando mi fu offerta la direzione dell'unità psichiatrica. Malgrado le condizioni squallide delle strutture e il palese scoramento dello staff, avevo immediatamente accettato il posto. Ero giovane per una responsabilità del genere, tuttavia ero ambizioso, avevo i titoli ed ero profondamente sollevato per il fatto di essere di nuovo a casa, dopo gli anni trascorsi a Baltimora.Ma New York si era deteriorata, durante la mia assenza. Rimasi inorridito per la decadenza in cui la città era sprofondata e, benché le conseguenze peggiori ricadessero sui poveri – spazzatura dappertutto, lampioni stradali rotti, cabine telefoniche distrutte, delinquenza fuori controllo, aggressività dovunque ecc. —, tutto questo era nulla in confronto a ciò che capitava ai malati di mente. Era troppo tardi per la maggior parte delle patetiche creature che si aggiravano nei presidi medici, per quegli individui che per anni erano stati talmente dipendenti dalle istituzioni che ormai queste non avrebbero più potuto liberarsi di loro – in realtà, molte se ne erano liberate: di fatto, erano stati buttati fuori e vagavano per la città coperti di stracci, parlando da soli e vivendo nella sporcizia, i veri dannati della terra. Alla fine del mio primo giorno di lavoro, sedetti esausto nello studio e mi chiesi se valesse la pena continuare. Ma ero giovane, e rifiutai di lasciarmi scoraggiare. Avrei cambiato le cose. Con l'appoggio del mio capo, un uomo di nome Sam Pike, progettai di trasformare l'unità in un modello di quel trattamento progressista delle malattie mentali di cui mi avevano parlato alla Johns Hopkins. Immagino di non essere stato diverso dalle decine di migliaia di giovani americani di allora, disgustati non solo dall'establishment politico, ma anche da tutte le istituzioni sociali, non ultima la psichiatria ortodossa, e convinti che senza un cambiamento radicale la nostra società era condannata. Alla base di questo "movimento", se possiamo chiamarlo così, c'era una forte opposizione alla guerra. Per questa ragione, ero deciso a fare tutto ciò che potevo per gli uomini che tornavano dal Sud-est asiatico con gravi danni psicologici – quello che, un tempo, si chiamava "stress da combattimento" e, prima ancora, "shock da bombardamento". Non dimenticherò mai la saletta affollata e piena di fumo dove ci riunivamo, nel seminterrato dell'ospedale: il locale in cui incontrai Agnes. Rammento una dozzina abbondante di veterani, seduti più o meno in circolo. Li vedo sorridere come per una foto di gruppo – uomini emotivamente distrutti, che tuttavia mostravano ancora un'aria di sfida nelle loro magliette e blue-jeans, sotto i loro cappellini da baseball, attraverso i loro tatuaggi, ragazzi perlopiù ventenni che avevano visto quello che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a vedere, e portavano il dolore stampato sul volto come un'impronta indelebile. Sembravano più vecchi della loro età, sedevano chini in avanti, coi gomiti sulle ginocchia, o con le gambe distese, un braccio sullo schienale della sedia, gli occhi rivolti al soffitto e – sempre – una sigaretta accesa fra le dita. Trasalivano facilmente e cercavano rifugio nelle droghe e nell'alcol; in seguito, i loro sintomi sarebbero stati definiti "stress post-traumatico": un'espressione che allora non esisteva. Avevano visto morire i compagni e volevano sapere perché non era toccato a loro. Si ritenevano contaminati. Molti si sentivano già morti. | << | < | > | >> |PaginaParlai con Danny al termine dell'incontro. Era tardi e pensai che avesse voglia di bere qualcosa. Una delle regole del suo codice stabiliva che non si andava mai a un incontro se non si era sobri. Sapevo quanto gli costava e, benché non ne parlassimo mai, immaginavo che si mantenesse lucido per una forma di rispetto nei confronti degli altri. Voleva essere un buon testimone, e questo non passava inosservato. Probabilmente Danny beveva più dei compagni – anch'essi forti bevitori – ma, al giovedì, si tratteneva fino al termine dell'incontro. Non tutti gli altri erano altrettanto responsabili. Gli chiesi se potevamo parlare a quattr'occhi."Certo," rispose. "Andiamo da Smithy's." Era un bar. Io avevo in mente un'altra cosa. "Che ne dici di una tazza di caffè, invece?" "Ho bisogno di un drink, Charlie." Alzò le sopracciglia e si toccò il labbro superiore con la lingua. Aveva gli occhi spenti – un'indifferenza artica, ecco cosa vedevo in lui, a volte. Aveva bisogno di un drink. Accettai, pensando di non aver scelta. Smithy's era il posto in cui Agnes e io eravamo andati la prima sera che lei era venuta all'ospedale. Era un locale nel vecchio stile di New York: pannelli di legno scuro, rigati e scheggiati, parquet sul pavimento, barista annoiato, pochi vecchi e qualche ragazzo dai capelli lunghi a un tavolo accanto al juke-box. Foto incorniciate di vecchi pugili alle pareti. Ci sedemmo a un'estremità del bancone, su un paio di sgabelli. C'era fumo e faceva caldo. Un ventilatore da soffitto girava svogliatamente sopra di noi. Danny ordinò un bourbon con una caraffa d'acqua; io, una birra. Ricordo le parole della canzone del juke-box: I skip a light fandango, doing cartwheels across the floor. Cioè, qualcosa del genere. She said there was no reason, but the truth was plain to see. Mi è impossibile sentirle senza pensare a quella sera. "Allora, cosa c'è?" "È questo il problema," dissi. In quei giorni, una parola che mi era capitato di udire riferita a me stesso era onesto. Non mi piacciono le sue implicazioni — privo di humour, prepotente, insistente, noioso. Ma forse Danny non mi considerava così. Sedevo tenendo le mani appoggiate sul banco. Con la fronte aggrottata e un'espressione onesta, gli chiesi: "Cosa ti è successo dopo che il tuo amico è stato ammazzato?" Ingollò il bourbon e spinse il bicchierino sul banco. Senza proferire parola, il barista lo riempì di nuovo e prese la cifra dovuta dal mucchietto di dollari che avevo posato lì accanto. Danny parlò tranquillamente, senza guardarmi. "Non è successo a me. Io l'ho fatto succedere a loro." "Vuoi dirmi che cos'hai fatto?" "È meglio se non lo sai." "Niente affatto." Ricordo che, quando pronunciai queste parole, lui mi guardò fisso. Adesso i suoi occhi non erano spenti: al contrario, sembrava che bruciassero la mia anima immatura e inconsapevole. Tutt'a un tratto ebbi paura. Mi muovevo su un terreno sconosciuto. Ma, nello stesso tempo, ero deciso a fare quello che stavo facendo. Mi dissi che era un'ottima cosa che avessi paura. Era il mio mestiere, e finalmente stavo affrontando davvero un'area morbosa, il male che affliggeva la mente di quell'uomo. Non aveva importanza che fossimo in uno squallido bar, anziché nella saletta tranquilla e formale del seminterrato da cui eravamo appena usciti. Danny si girò dall'altra parte e, nello specchio dietro le bottiglie, i suoi occhi tremarono fissando il riflesso dei miei per un secondo o due. In quel momento sorse in lui – o così immaginai – il desiderio di liberarsi del suo veleno. "Non dovevamo andare là, Charlie." "Continua." Fissò il bancone, scuotendo la testa. Intendeva il Sud-est asiatico o il posto in cui era morto il suo compagno? "Qualcuno ci ha fregati. Non dovevamo andare là." Poi alzò la testa e tornò a guardarmi: pronunciò le parole adagio, oscillando leggermente sullo sgabello, come se stesse intonando un mantra, quasi in trance. Batteva le dita sul bancone, a ritmo con le parole. "Non... dovevamo... andare... là... cazzo! Non dovevamo andare là, amico." C'era una furia strana e rabbiosa in Danny, mentre faceva questa affermazione, con i pugni stretti e gli occhi bassi. Tutto era estremamente recente, come se fosse accaduto il giorno prima. Adesso scuoteva la testa. Restammo in silenzio per alcuni minuti. "Dopodiché, per me è stato tutto un inferno. Non mi importava più di niente. Sapevo solo che più ne ammazzavo, meglio era." "Uccidere ti faceva sentire bene." "Meno male. Ogni volta era più facile. E c'era dell'altro." Continuava a bere bourbon, e mi dava l'impressione di un rubinetto aperto, con un flusso intermittente, ma inarrestabile. Parlava rapidamente, ma con una voce così bassa che era difficile capire cio che diceva. Il volume del juke-box era alto, il che non aiutava, e i ragazzi coi capelli lunghi facevano sempre più chiasso. Danny non mi guardava: borbottava rivolto al bancone, continuando a spostare il suo bicchiere, mentre io mi premuravo di aggiungere dollari al mucchietto disordinato che avevamo davanti. "Quattro mesi, Charlie, finché non mi hanno spedito via. Ero un animale. Volevo solo uccidere. E me la prendevo coi cadaveri, se riuscivo a raggiungerli. Chi si comporta così non è un animale, è peggio. Gli animali non uccidono per piacere."
"Uccidono per mangiare."
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