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| << | < | > | >> |IndiceAbbuffata 7 Sahara 39 Otto 62 ONJ.com 93 Dunford 130 Invalidità 154 Incursione 196 Nottambulismo 213 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Abbuffata"Mi sembra sempre uno spreco portare del vino costoso a una festa", disse Charles. "Cookie neanche guarderà l'etichetta. Metterà semplicemente la bottiglia insieme alle altre." "Faccio svelta svelta la pipì", disse Lynn. Charles tirò un sospiro e si appoggiò allo stipite della porta. "Hai chiuso Kitty in camera da letto?", chiese. "Sì." Lynn entrò in bagno, accese la luce e chiuse la porta a chiave. Tirò fuori dalla borsetta il portafoglio, e dal portafoglio una bustina di plastica. La aprì pizzicando i due lembi con le dita, infilò dentro la chiave, si guardò allo specchio con occhi sbarrati e narici dilatate, avvicinò la punta della chiave al naso, e sniffò. Era il secondo sniffo della serata. (Ne aveva fatto uno dopo che si era messa il rossetto e si era spruzzata la lacca sui capelli). La faccia le si rilassò di colpo e guardò allo specchio le minuscole rughe intorno alla bocca. Poi sorrise. Aveva un segreto. In ascensore, Charles borbottò qualcosa a proposito della gente che avrebbero trovato alla festa. Si lamentava sempre, prima di andare, ma poi si divertiva. Nel riflesso sfocato sulla porta d'acciaio dell'ascensore, Lynn vide la sfumatura bordeaux dei suoi capelli, volutamente in disordine. Tre anni prima, al suo quarantesimo compleanno, aveva preso la vaga decisione di non tingerseli mai più di un colore che avesse la pretesa di sembrare naturale. La porta dell'ascensore si aprì sull'ingresso gelido e Lynn avvertì dentro di sé un'ondata, non un brivido né una scarica di adrenalina, piuttosto un'ondata di benessere. Sto andando a una festa! È da ragazzini sentirsi così eccitati. Charles fece per chiamare un taxi, ma Lynn lo fermò. "Non possiamo camminare?" "Fa freddo." "È bellissimo. Camminiamo." Una spolverata di neve faceva luccicare il marciapiede. L'aria fredda sulle guance le tirava la pelle come cellophane su un piatto. Lynn guardò su verso le stelle e lo scintillio nell'aria. "Dovremmo risalire la Columbus e tagliare per la Sessantottesima", disse Charles. Quando erano a Sidney per la luna di miele, Lynn, che da giorni aspettava di vedere la Croce del Sud, aveva alzato lo sguardo mentre erano seduti sull'erba, in una calda notte di febbraio, ad assistere a un'opera lirica nel Domain, e in uno squarcio tra le nuvole aveva visto le quattro stelle luminose che puntano verso l'orizzonte australe. Il vento li accarezzava. Accanto a loro una giovane coppia si era addormentata l'uno nelle braccia dell'altra. Grossi pipistrelli pendevano come frutti scuri dagli alberi che costeggiavano il Domain. Lynn strinse Charles per il braccio quando vide la costellazione. "Guarda!", disse. E lui la zittì come avrebbe fatto con un'estranea. Era già stato nell'emisfero australe diverse altre volte. Lei non aveva viaggiato affatto da giovane, a parte due corsi di pasticceria a Parigi. Svoltarono sulla Columbus e Lynn si sentì d'un tratto comprensiva e generosa. Sentì che le si apriva il cuore e in fondo alla gola colse il sapore della sostanza chimica che la intorpidiva. Infilò il braccio sotto quello di Charles, che le rivolse un sorriso. Charles lavorava da casa come redattore. Lynn era stata per anni la pasticciera del Mariott Marquis; poi, al compiere dei quarant'anni, aveva deciso di lasciare il lavoro a tempo pieno, passare a incarichi freelance e impiegare gran parte del suo tempo per scrivere un libro su mousse e creme. I ristoranti la chiamavano per avere le sue ricette e le chiedevano di istruire i pasticcieri. E così si era trovata a lavorare con Elise. Elise era una bella donna nera di ventisette anni, alta ed elegante, con polsi così sottili che ogni volta che premeva sul matterello per stendere un velo di sfoglia Lynn immaginava potessero spezzarsi. Elise si lasciava crescere i capelli in fitti riccioli lanosi ai quali aggiungeva pagliuzze dorate. Non era certo un segreto che Lynn avesse un debole per lei, come una madre per la figlia. Persino i camerieri al piano di sopra le prendevano in giro per questo. Durante le ore trascorse insieme, Elise ripartiva piccole porzioni di cocaina che chiamava "sniffi" e che permettevano a entrambe di lavorare in scioltezza e abbuffarsi di chiacchiere al tempo stesso. "Certe volte ti immagino, a Soho o da qualche altra parte di notte, con gli uomini affascinanti con cui di sicuro uscirai, a ballare e a svignartela in bagno per fare sesso e qualche sniffo", ammise Lynn un giorno. La cocaina la rendeva sincera e imperturbabile. "Lynn", disse Elise, con un sorriso affettuoso, "è da tanto tempo che non esco con gli uomini." Era lesbica, allora. "Ma sei così bella!" esclamò Lynn. Elise rispose con una risata lunga e forte. Tra di loro scherzavano sul fatto che Lynn fosse un po' all'antica, e Lynn spesso esagerava di proposito. Questa volta, però, era stata una reazione sincera. Col tempo il ristorante decise di fare a meno dei servizi di Lynn. L'economia era entrata in una fase di stallo e poi i dolci di Elise non mostravano alcun miglioramento. Lynn non l'avrebbe ammesso con nessuno a parte se stessa, ma Elise non era granché come pasticciera. Non aveva il senso della misura e le veniva tutto troppo dolce. Alla fine sarebbe stata licenziata il che, in un certo senso, avrebbe sistemato tutto. Il posto di Elise era altrove, allo scoperto, dove l'avrebbero adorata e dove avrebbe mangiato i dolci perfetti confezionati da gente come Lynn. La busta di cocaina era un regalo d'addio da parte di Elise. Lynn non aveva mai preso droghe da sola prima di quella sera. Ora Lynn e Charles erano davanti alla porta dell'appartamento di Jack e Cookie, ad ascoltare i suoni della festa in attesa che qualcuno li facesse entrare. Spostando il peso da un piede all'altro, Charles suonò di nuovo il campanello. Lynn era contenta di avere gli occhi lucidi e le guance arrossate. Amava quell'aria di freschezza di quando si arriva dall'inverno in un luogo chiuso, simile alla consistenza perfetta di una panna cotta appena tolta dal frigo. Finalmente la porta si spalancò. Non era Jack, né Cookie, bensì uno sconosciuto che disse, "Entrate. Chissà che fine ha fatto Cookie. Vi prendo i cappotti". "Ci sono i Masterson", disse Charles a Lynn. "Andiamo a salutarli. Gli dobbiamo una cena." "Vai avanti tu", disse Lynn. "Fammi dare una sistemata." I Masterson erano gente simpatica e raffinata nel parlare, con una casa estiva a Montauk e una bambina maleducata che avevano adottato dalla Cina. (Qualche estate prima, brandendo una mazza da baseball in plastica, aveva spaventato e fatto scappare un colibrì verde smeraldo che si era soffermato a infilare il lungo becco sottile nel caprifoglio sulla veranda. Lynn avrebbe voluto strangolarla. Forse ora era migliorata). Parlare con i Masterson l'avrebbe annoiata. Rimase invece in disparte, distribuendo brevi sorrisi e saluti alla gente che conosceva. Inchiodò i piedi al pavimento e lasciò che i gesti parlassero per lei, dando l'impressione che fosse lì ad aspettare il ritorno di qualcuno. Era passato più o meno un anno dall'ultima volta in cui era stata in quell'appartamento, con le sue quattro camere da letto, le pareti color malva e le stampe costose appese qua e là. Lei e Cookie non erano più amiche intime come un tempo. Cookie aveva addobbato la festa con delle peonie: mazzi sul buffet, singoli boccioli che galleggiavano in ciotoline sopra il tavolo, e un fascio di fiori a stelo lungo distesi sulla mensola sopra il camino. Era uno spettacolo crudele, vedere quelle peonie lasciate lì a morire. Lynn andò verso la mensola, prese un fiore, e lo tenne tra le mani chiuse a coppa, lasciando penzolare lo stelo. Era grande quanto la testa di un bimbo appena nato e candido come lenzuola fresche di bucato, ma con una punta di rosa nascosta da qualche parte sotto tutti quei petali. Peonie a gennaio: dovevano essere costate una fortuna. Appena poco più in là una donna le stava sorridendo, come se conoscesse il suo segreto. Lynn posò il fiore e si soffiò il naso. La donna si avvicinò e sollevò il dorso delle mani davanti al viso di Lynn. "È Crepuscolo al Cairo. Lo trovi da Duane Reade", disse a voce alta. "Come?" Lynn fece un passo indietro. "Oh! Oh mio Dio, non sei tu. Che idiota." "Come?", ripeté Lynn. "Scusa. La mia amica mi ha detto che c'era una persona qui alla festa a cui piaceva il mio smalto, così ho pensato che sarebbe stato divertente trovarla. Ma non sei tu." "Non importa, è solo che mi hai spaventato. Comunque mi piace davvero." La donna chinò il capo. Aveva occhi spiritati. "Va bene. Torno dov'ero." "Oh, non te ne andare", disse Lynn, che d'un tratto sentiva il bisogno di parlare. "È stato divertente, non trovi?" La donna fece una risata rauca, nervosa. Era più o meno coetanea di Lynn e aveva brutti capelli crespi e tinti. "Come conosci Cookie?", chiese Lynn. "Oh, non la conosco. Sono amica di un'amica. Che se ne è andata – non si sentiva bene, l'amica con cui sono venuta. Comunque stavo parlando con quelle persone laggiù." "Non ti preoccupare", disse Lynn. "Non voglio accusarti." "Accusarmi! Ehi-ehi-ehi!" "Ti hanno fatto vedere l'appartamento?" "Sì." Le si spalancarono gli occhi. "È enorme!" "Sì. Jack, il marito di Cookie, guadagna bene." "In una delle camere da letto ho trovato un cane. Anche lui era enorme!" "Henry? Oh mio Dio, quel cane. Dovresti vedere come trascina Cookie in giro per il quartiere. Ho deciso di non andare più a spasso con loro. Non è capace di tenerlo al guinzaglio e finisce sempre che deve urlargli per strada. È troppo imbarazzante." La risata della donna era come il cinguettio di un uccello. Nel ridere teneva la mascella semiaperta e annuiva, forse semplicemente per abitudine, ma quel gesto istigò Lynn a perseverare nella sua maliziosità. "Conosco Cookie da sempre, quindi credo di poter dire ciò che voglio", disse. "Quando vi siete conosciute?", chiese senza fiato la donna. "Siamo andate al college insieme. Eravamo due ragazze del nord in un piccolo college femminile in Virginia. Mi comandava a bacchetta, ma conosceva tutti, e mi cacciò in guai seri, di quelli giusti." "Ad esempio?" "Ad esempio organizzammo una gigantesca battaglia a colpi di cibo. Avevamo fatto girare voce che alle 18 e 40 in punto di venerdì, in mensa, ci sarebbe stata una gran rissa. Così tutti indossarono vestiti vecchi e tennero d'occhio l'orologio. Bastò che lanciassi un panino da un capo all'altro della stanza e cominciò a volare di tutto. Un casino da non credere. Tra l'altro era la serata della pasta, quindi figurati gli spaghettini scagliati contro le pareti e le camicette delle ragazze. Per un po', dopo quell'episodio, io e Cookie diventammo delle celebrità nel campus. Forse se ne parla ancora. Poi, all'ultimo anno, il gruppo teatrale mise in scena l' Otello. Il ruolo da protagonista era interpretato da una ragazzona bianca con la faccia truccata di nero. Te la immagini? Be', per qualche strano miracolo a me toccò la parte di Desdemona mentre Cookie si dovette accontentare di fare la direttrice di scena. Il che pareggiò un po' i conti. A Cookie non è ancora passata. Non va neanche agli spettacoli di Shakespeare in the Park. Nessuno odia Shakespeare." | << | < | > | >> |Pagina 93ONJ.comIl racconto che segue riguarda un mondo perduto in cui vivevo una volta e alcuni dei suoi abitanti che ho conosciuto di persona. È strano pensare a come, fino a poco tempo fa, questo mondo esistesse ancora, e con quanta fretta sia scomparso quando l'economia ha cominciato ad andare male. Era il mondo della pubblicità, della grafica e di internet all'alba del ventunesimo secolo, e ora i suoi ex abitanti sono disoccupati, o diversamente occupati, oppure appesi al filo di un lavoro che li costringe a sgobbare mentre una volta giocavano a poker on-line e facevano telefonate intercontinentali. A un numero imprecisato di essi è toccato subire l'oltraggio più grave: essere costretti a lasciare New York. E sebbene eventi più mesti e recenti rendano questa eventualità sempre più remota, tutti aspettano una ripresa e un ritorno ai bei tempi andati, quando si lavorava poco e si guadagnava molto. Almeno per me è così. Ma torniamo alla nostra storia: era un lunedì mattina, e una giovane grafica di nome Olive si trascinava lungo il corridoio illuminato da luci al neon, mormorando saluti ai suoi colleghi. A un certo punto si fermò. Seduto nel cubicolo fuori dal suo ufficio – il suo cubicolo, dove lavoravano i suoi freelance – c'era un bell'uomo, più o meno della sua età, tra i venticinque e i trent'anni, che ruotava sulla sedia girevole come un ragazzino annoiato. Olive si era dimenticata di aver fissato per quel giorno un incontro con un nuovo freelance, un Web designer. Ora, la maggior parte dei freelance, il primo giorno di lavoro, o arrivavano nervosi, lisciandosi il classico completo blu scuro da colloquio oppure, più spesso, si presentavano disinvolti in maglietta e pantaloni militari stracciati, addirittura in pantaloncini se era estate, dimostrando così di essere freschi di college o appena arrivati da San Francisco. Ma non lui. Indossava una camicia aderente di cotone leggero a righine arancio-marrone, jeans costosi e scarpe nere eleganti. I capelli neri erano imbrillantinati e pettinati all'indietro a scoprire la fronte squadrata, in stile anni Trenta – un taglio fuori moda che gli donava incredibilmente. Olive raddrizzò la schiena (lui non l'aveva ancora vista) e scivolò nel cubicolo tendendo la mano. "Io sono Olive. Lavoreremo insieme." "Craig", disse lui. La sua mano era grande e calda. "Belli, i tuoi occhiali." "Grazie", disse Olive, spingendoseli sul naso. "Ehm, metto giù le mie cose e iniziamo subito." Entrò nell'ufficio buio e appese il cappotto. Appena la porta si chiuse con un cigolio, Mary, copywriter nonché compagna di ufficio di Olive, disse con la sua voce acuta e di gola, "È carino il tuo freelance". Mary stava battendo al computer così velocemente che si trattava di sicuro di una e-mail personale. Quando doveva scrivere un testo pubblicitario batteva a un ritmo sofferto, pretendeva il silenzio assoluto e si interrompeva di frequente per fare yoga in un angolo. "È gay", sussurrò Olive. "Mi ha appena fatto i complimenti per gli occhiali." "Oh, maledizione", cantilenò Mary, come se parlasse a un gattino. La fitta di delusione che Olive aveva provato si era già trasformata in sollievo. Innanzitutto lavorare con lui sarebbe stato più facile. Inoltre, Olive nutriva un interesse particolare nei confronti dei gay. Questo è un angolo un po' ingarbugliato del suo carattere. Permettetemi di fare chiarezza, usando un po' di immaginazione ed elementi che ho raccolto nei discorsi della stessa Olive: Allora, due giorni prima Olive aveva compilato un breve elenco di decisioni, o propositi, per la propria vita. Era un tranquillo sabato pomeriggio, e lei era seduta al tavolo della cucina a guardare uno stormo di piccioni, corpuscoli neri che eseguivano una bella e assurda coreografia fatta di cerchi e cadute in picchiata, espandendosi e contraendosi come un'unica forma di vita, prima a fuoco e poi fuori fuoco, sullo sfondo del lucente scampolo di cielo racchiuso tra un condominio di molti piani e una chiesa episcopale. Più in là, oltre un corridoio di opache costruzioni in muratura, si intravedevano le guglie del Queensboro Bridge. Ecco le decisioni che Olive scrisse, forse sul retro di una busta: Uscire di meno con KJ & F Uscire di più al di sotto della Quattordicesima Disegnare Dire ciò che voglio
Fare amicizia con un gay
Alcune note a piè di pagina: K, J e F stavano per Kelly, Jill e France, tre amiche che Olive si era fatta nel corso di vari lavori precedenti. Gente del mondo della pubblicità, una categoria la cui popolazione aumentava in modo inversamente proporzionale a quella degli amici di scuola e degli amici personali. "Uscire di più al di sotto della Quattordicesima" significava continuare ad avere una vita sociale attiva, ma stando alla larga da quei bar delle East Twenties e del centro che frequentava con Kelly, Jill e France e dove gli uomini erano ricchi, ubriachi e scemi. Era troppo facile. Erano uomini di cui, se li avesse visti per strada o in tv, avrebbe detto "Non li bacerei mai", ma che finiva per baciare lo stesso. Ragazzi scemi che sfoderavano solo qualche trucco – ad esempio un costoso taglio di capelli – per fregarla. Al di sotto della Quattordicesima c'erano le bettole dell'East Village che conosceva dai tempi della scuola d'arte, così come pure i bar esclusivi che erano spuntati da allora. Forse era quella la sua nicchia. O forse avrebbe dovuto fare in modo che lo diventasse. Perché le East Twenties erano la versione più giovane dell'Upper East Side, e l'Upper East Side la versione più ricca dei suoi genitori. Il suo proposito successivo, quello di disegnare, consisteva nel tirare fuori da sotto il lavandino la scatola dei colori (cosa che fece più tardi quel pomeriggio), svitare il tappo incrostato dell'inchiostro di china e disegnare a casaccio su carta qualche linea veloce con un pennello e inchiostro diluito. In passato aveva fatto quel genere di disegni ogni giorno e aveva tappezzato le sue pareti di strani simboli senza senso. Ora erano quasi completamente spoglie. L'appartamento era bellissimo. Dopotutto era una grafica. Ma vediamo il proposito successivo, nel caso possa sembrare che Olive volesse semplicemente riconquistare la sua identità di studentessa d'arte: "Dire ciò che voglio". Se davvero il suo scopo fosse stato quello di tornare indietro nel tempo, allora si sarebbe imposta di dire di meno, non di più. Un tempo la nostra Olive – e i suoi nuovi amici dell'ambiente pubblicitario ne rimarrebbero di certo sorpresi – era una persona tranquilla. Dentro di sé piangeva, rideva, cantava, si struggeva per certe persone, faceva i capricci, mentre fuori se ne stava seduta buona buona, non a rimuginare, ma a trasmettere qualcosa di profondo, innocuo, forse pudico, ma comunque silenzioso. A ogni modo questo era ciò che lei immaginava di comunicare agli altri studenti d'arte, alla gente in metropolitana, alle ragazze alla lezione di aerobica, ma in realtà è difficile dire cosa abbiano pensato di lei quegli abitanti del passato, visto che le persone silenziose suscitano meno interesse di quanto immaginino, tranne forse in quelli silenziosi come loro. Nel corso degli anni si era aperta, un po' anche perché aveva capito che il mondo e i suoi abitanti erano meno spaventosi e complicati di quanto credesse. Era questo che i cinque anni in pubblicità le avevano insegnato. E dunque no: perché per Olive, "dire ciò che voglio" significava andare ben oltre lo starsene buoni e tranquilli. Non voleva recuperare qualcosa che aveva perso dentro di sé, bensì reinventarsi – anche se in minima parte. Reinventarsi in modo da essere felice (perché non lo era), pur rimanendo del tutto riconoscibile.
Ma veniamo all'ultimo proposito, quello di fare amicizia con
un gay – cosa vorrà mai dire? Di sicuro Olive avrà avuto un
amico al liceo, un ragazzo paffuto e sensibile che i compagni più
atletici chiamavano "mammola" e "finocchio", con cui andava a
lezione di teatro e si rotolava sul letto a ridere – non ricorda per
cosa – fino quasi a farsela addosso. Qualcuno che le confidava il
dolore del senso di colpa e della solitudine e al quale lei confidava le
interminabili ferite che subiva per mano dei suoi genitori,
degli insegnanti e di amici meno sensibili – ferite che lei richiudeva e mandava
giù, credendo in qualche modo che le sue molteplici sofferenze si sarebbero un
giorno trastormate in vendetta,
almeno verso i suoi genitori. Un amico che la supplicava di non
mandare più giù quelle ferite, se non voleva avvelenarsi l'anima.
Un gay che ora viveva sulla West Coast, a cui lei voleva ancora
tanto bene, e a cui scriveva spesso delle e-mail, ma la cui distanza fisica era
tale da rendere impossibile un'amicizia importante.
Di sicuro era lui che Olive si riproponeva di rimpiazzare.
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