Copertina
Autore Dennis McShade
Titolo La mano destra del diavolo
EdizioneVoland, Roma, 2012, Intrecci 87 , pag. 156, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1,1 cm , Isbn 978-88-6243-111.8
OriginaleA mão direita do diabo
CuratoreGuia Boni
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe gialli , noir
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Pagina 7

UNO


Dopo aver smesso di parlare al telefono con Lucky Cassino, incrociai le mani dietro la nuca e mi stiracchiai, con la luce spenta.

Bene, Maynard, arrivano i soldi e arrivano al momento giusto. Erano tre anni che lavoravo con Cassino, eseguendo gli incarichi da lui ricevuti. Avevamo cominciato col caso Schuyler che si era trasformato nel caso Palmer, due vite scambiate. Cassino aveva, a modo suo, delle qualità. Era dinamico e ambizioso, trovava sempre la maniera di cavarsi d'impaccio e compiva con scrupolo la sua azione diplomatica.

Chiusi gli occhi. Olga, da quanto tempo non ci vediamo? Sentii allo stomaco il vecchio doloretto, ma non ci diedi peso, cercando ardentemente, stupidamente, il colore degli occhi di Olga nella chiusa oscurità dei miei. Stavo quasi per alzarmi, ma non mi andava di vestirmi. Volevo restare così, sebbene un po' triste o inquieto, graffiando la solitudine, graffiandola fino a farla sanguinare.

Forza, Maynard, folle sentinella della notte. Mi voltai sul lato destro e, dopo aver cambiato posizione, il mio stomaco si sentì un po' meglio. Rimasi tranquillo per non so quanto tempo, senza riuscire a prendere sonno. Dormo pochissimo, tre o quattro ore per notte. Le notti sono sempre lunghe, interminabili, e io rimango a letto come un fiume di silenzio, ad ascoltare i marosi del mio cuore. Talvolta prendo qualche pasticca per l'insonnia, ma mi fanno male all'ulcera. Bene, Maynard, saranno le tue vecchie budella a portarti al camposanto. Te ne andrai una mattina d'autunno, come i tisici e i solitari. Johnny e Olga dietro il carro funebre, un sacco di gente farà dire una messa affinché tu rimanga sepolto a lungo. Una rapida folata di vento fece danzare la tenda della finestra che mi sbatté sul volto. Bene, Maynard, la tua forma fisica non è un granché. Devi reagire. E ti devi lavare i denti, Maynard. Devi prenderti cura di te.

Mi lavai i denti e tornai a letto. Lessi alcune pagine di Bradbury sui marziani. Mio caro Bradbury, compagno delle stelle, figlio di Dio scordato in terra, in quali tasche sfondate riesci a trovare i tuoi spiccioli di poesia? Poi presi un libro di poesie di Rilke, ma cominciai a sentire le palpebre pesanti. Non mi illusi. Per me, sentire le palpebre pesanti non implica per forza la certezza di dormire. Spesso resto con gli occhi chiusi, calmissimo, in attesa che il sonno sopraggiunga e mi colga di sorpresa. Continuai a leggere Rilke come chi legge i foglietti illustrativi dei medicinali o un giornale alla rovescia. A un certo punto sentii che il sonno stava arrivando. Eccolo, il vecchio e renitente amico, lo stronzo. Olga mi attraversò ancora il pensiero come una freccia, prima di sentirmi scivolare nelle quattro ore di oblio.

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Pagina 9

DUE


- Ci saremo tra pochi minuti - disse Cassino.

La macchina divorava chilometri in una bella mattinata di maggio. Stavamo andando da un uomo che voleva che portassimo a termine un incarico importante e cruciale, ed era disposto a pagare bene. Cassino, al volante, premeva l'acceleratore e tracciava il ritratto di T.R. Douglas, il milionario che lo aveva incaricato di chiamarmi.

- Vuole un servizio di prima classe. Un lavoro di lusso. Ha soldi a palate. Naturalmente non mi ha detto niente, ma quando gli ho assicurato che gli avrei procurato il migliore sulla piazza mi ha chiesto di portarti nella sua casa di campagna. Questo succedeva ieri. Ora ci sta aspettando e vuole che tu cominci subito. Il tizio è un eremita. Gestisce i suoi affari a distanza, non ha famiglia. È azionista di alcune fabbriche di materiale bellico e possiede delle piantagioni nel sud. È un self-made-man. Non so che storia abbia da raccontarci, ma dev'essere emozionante.

- E già - risposi.

- È un uomo vecchio - continuò Cassino. - Avrà una settantina d'anni. Mi ha telefonato alcuni giorni fa e mi ha chiesto di andare da lui. Conosce relativamente bene l'ambiente. Con me ci è andato con i piedi di piombo, ma sapeva che gli potevo fornire il dito che avrebbe premuto il grilletto. Dopo cinque minuti ci eravamo intesi. Non gli ho fatto il tuo nome, Califfo. Gli ho semplicemente detto: il migliore. Un lavoro pulito, dalla A alla Z.

Mi strizzò l'occhio e sorrise. Eravamo già fuori città. Erano le undici di una mattina sempre più luminosa. Si cominciavano a scorgere ville isolate e terreni incolti, poi zone alberate che facevano ombra alla strada. Cassino girò a sinistra, infilandosi in una strada stretta, dritta e piuttosto lunga.

- Lo sentirai, Califfo. E vedrai la casa. Austera, solida, circondata da alberi rigogliosi e con una piccola piscina.

- Ha dei domestici?

- Io non ho visto nessuno. Era solo, quando sono andato. E abbiamo deciso che lo sarebbe stato anche oggi. So che non è sposato, è uno di quelli che si beve la solitudine con la cannuccia. Mi risulta pure che sia frocio, ma sono chiacchiere e poi ormai è vecchio. È molto temuto negli affari perché è un osso duro. Avrà gente di fiducia nei posti giusti, ma è un tipo discreto, chiuso nella sua torre d'avorio.

Cassino si passò la mano destra sui capelli lustri e continuò:

- È pieno di quattrini. Quando gli ho parlato del compenso, ha detto che non era un problema. Che un servizio ben fatto, un buon lavoro, non ha prezzo.

- È malato?

- Non mi è parso. Un po' curvo, ma lucido. Magari i malanni della vecchiaia, oltre alla misantropia: reumatismi o problemi cardiaci. Ma niente di evidente.

Cassino sterzò repentinamente sulla destra, infilandosi in un sentiero largo e ghiaioso. Puntò il dito davanti:

- Guarda, Califfo, laggiù in fondo.

Vidi una casa grande, squadrata, tra gli alberi. Tutta la parte alberata, di fronte al sentiero, era stata eliminata per fare spazio a un cancello. Via via che ci avvicinavamo, notavo che la casa era una solida costruzione in pietra chiara, con gradini anch'essi in pietra. Tra la scalinata e il cancello c'era una cinquantina di metri di viale, con fiori di vario genere a sinistra e la piscina a destra. Ai due lati del cancello si innalzava un muro di cinta.

Quando ci avvicinammo, il cancello si aprì come per incanto. La nostra macchina percorse il viale e Cassino parcheggiò sulla sinistra, accanto alla casa, sotto un'ampia ombra. Uscimmo e cominciammo a salire i gradini. Un uomo apparve sulla porta: T.R. Douglas in persona, supposi. Volto di pergamena incorniciato da una testa brizzolata.

Non ci aspettò. Si voltò verso l'interno e con la mano ci fece cenno di seguirlo. Il corridoio era lungo e ampio e il pavimento coperto da una moquette gialla e rossa. Al soffitto, un lampadario di cristallo. Sulla sinistra, un tavolino con alcuni libri e un orologio. Sulla destra, un attaccapanni vuoto.

T.R. Douglas aprì la porta in fondo al corridoio e ci fece entrare in un piccolo studio. Una tenda pesante, socchiusa, lasciava filtrare la luce del sole nella stanza, illuminando una ordinaria scrivania di mogano, due poltrone, una sedia con schienale e un tavolo verde con sopra una lampada. Tutto messo un po' alla rinfusa, senza particolare cura.

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Pagina 55

OTTO


Quando uscii da casa di Olga, portavo sul mio corpo un po' del suo calore. Mi sentivo quasi euforico.

La cena fu buona, mi ficcai in un cinema, vidi un vecchio film di John Ford con attori della mia infanzia e poi mi diressi al Fox Bar. Entrai, mi avvicinai al bancone e chiesi un'acqua minerale. Il barman, un tipo ancora giovane con le basette, mi guardò come se fossi una tartaruga parlante. Andò a prendere l'acqua e quando mi mise il bicchiere davanti gli chiesi:

- C'è Johnny Arteleso?

Assunse subito un atteggiamento interessato. Schioccò le dita, richiamando l'attenzione di un tizio in smoking, appoggiato a una colonna in fondo al salone. Il tizio si avvicinò alla svelta e l'altro gli disse:

- È per mister Arteleso - e mi indicò col mento.

Il tipo in smoking fece quasi un inchino e mi chiese di seguirlo. Facemmo il giro del bar e aprì una porta sulla destra. Chiamò dentro:

- Ernie.

Una faina dai capelli rossi, sempre in smoking, guardò dalla mia parte:

- Eh?

- È per mister Arteleso - disse l'altro, come chi recita.

- Di qua - disse la faina, precedendomi.

Aprì un'altra porta e disse:

- Prego, entri e aspetti.

Mi chiuse la porta alle spalle e io mi sedetti in una poltrona.

Mobili distribuiti con eleganza, sobri, spazio ben sfruttato, una bella scrivania vicino alla finestra, un sano odore di disinfettante che contrastava con l'ambiente fumoso della sala.

Aspettai dieci minuti. Alla fine comparve Johnny.

- Ciao - disse. - Stanno arrivando.

- Va bene - risposi. - Hai un sacco di gente in smoking che fa la maratona.

Mi sorrise, si passò la mano sul viso e osservò:

- Sei di buon umore, Peter.

- Sì.

- Dài, calma. Vengo subito.

Uscì e aspettai altri cinque minuti. Sentii la porta aprirsi e girai la testa. Udii voci provenire da fuori e poi cominciarono a entrare: Charlie Di Luca, grasso, coi capelli radi, mani bianche e massicce, un sigaro in bocca, passo pesante; uno dei suoi scagnozzi, il vecchio e rinomato Barney, alto, macilento, sgradevole, un gorilla efficiente che aspirava ai posti di comando del Sindacato; e un tipo piccoletto, sulla cinquantina, capelli liscissimi e faccia acida, scarpe straordinariamente lucide, molto sicuro di sé, che aveva tutta l'aria di essere Eddie Piano. Dietro di loro entrò Johnny, che chiuse la porta.

- Salve, Maynard - disse Di Luca.

- Salve - risposi.

Nessun altro proferì parola. Restammo quasi un minuto intenti a una piccola rappresentazione mimica. Di Luca andò a sedersi sulla sedia dietro la scrivania. Piano si allungò languidamente in una poltrona, Johnny si sedette nell'altra, accanto a lui, e Barney rimase in piedi, a braccia conserte, con le spalle accostate alla parete.

- Maynard, questo signore è Eddie Piano - Di Luca fece un gesto con la mano che poi ampliò. - Arteleso e Barney li conosce già.

Piano aveva le mani all'altezza della bocca, gomiti poggiati sui braccioli e fece un lieve cenno col capo. Glielo restituii e guardai di nuovo Di Luca. Rimasi in attesa.

- Arteleso le ha già parlato - disse Di Luca - e spero che lei abbia capito la situazione. Abbiamo già preso le nostre decisioni. Certamente lei sarà d'accordo.

Sorrise, facendo luccicare il dente d'oro. E proseguì:

- Il caso Gold è stato un guaio per mister Piano. Non vogliamo più grane del genere. Non ci piace maltrattare la gente - gli scappò un'altra risatina quando lo disse - e lei sarà ragionevole. Come io sono stato ragionevole con lei, vero, Maynard?

- Sì - dissi. - Parli chiaro una volta per tutte, Di Luca.

- Non sia scortese, Maynard. Non la porterà da nessuna parte.

Rimasi zitto. Di Luca appoggiò i gomiti sul tavolo e disse:

- Lei lascerà la città domani sera. Le è vietato operare a New York, Frisco, Chicago, Las Vegas, Dallas, Boston, Los Angeles e New Orleans.

- E già - aggiunsi. - Le città della rete del Sindacato...

- E anche nelle città che riterremo opportuno includere nella lista - tagliò corto Di Luca. - Per il momento, vada via da New York e se la dovessimo trovare in uno di quei posti, risolveremo la faccenda una volta per tutte.

- Ascolti, Di Luca - dissi io. - Non mi piace che mi si parli così. Nessuno mi parla così da molti anni e non ci sono più abituato.

Ci furono alcuni secondi di tensione. Di Luca mi puntò addosso il sigaro e disse:

- Lei sa che sono ragionevole, Maynard. Se vuole, possiamo anche spingerci oltre.

- E allora spingiamoci - dissi. - Sta cercando di mettermi paura, Di Luca? Lasci perdere.

Johnny si alzò e si intromise nella discussione:

- È un tentativo di accordo, Peter. Il Sindacato non vuole storie.

- Un momento, Arteleso - disse Eddie Piano, rivelando una voce acuta, metallica. - Lei, Maynard, mi ha messo nei pasticci a Frisco.

- Balle, Piano. Non vado a Frisco da un sacco di tempo.

- Herbie ha spifferato tutto - osservò Di Luca con voce alterata. E mi puntò nuovamente addosso il sigaro. - E finiamola con queste chiacchiere. Se lei dopodomani è ancora a New York, sarà il suo ultimo giorno di vita.

- E già - risposi. - Quanti ragazzi mi sguinzaglia dietro? Meno di mezza dozzina non saranno sufficienti.

Stavolta fu Barney a prendere la parola:

- Maynard, scommetto che farai quello che dice mister Di Luca.

- Quanto ci scommetti, Barney?

- Senti - rispose. - Potremmo essere noi a occuparci di te e venire a sapere per chi hai lavorato nel caso di Max Gold. Sputeresti tutto e resteresti in mano nostra.

Gli sorrisi:

- Sei proprio stupido, Barney. Sei sempre stato stupido.

Gonfiò il petto e stava per controbbattere, ma la mano destra di Eddie Piano, dalle vene gonfie e dalle unghie curatissime, gli tolse la parola:

- Maynard, - disse Piano, guardandomi direttamente - la questione è risolta con quanto le ha detto Charlie Di Luca. Se da domani sera in poi lei sarà sorpreso in una delle nove città menzionate, avrà rotto il patto e se ne assumerà le responsabilità.

- Non ho stretto nessun patto - corressi.

- Per noi il patto c'è, anche se non è di suo gradimento - continuò Piano, con espressione sempre più acida.

- Vale a dire che, ad esempio, non posso andare a Las Vegas a fare il turista o a infilare qualche spicciolo nelle macchinette?

- Né questo né altro - disse Piano. - La sua presenza, anche solo per visitare i musei, è una violazione del patto. E le voglio dare anche un altro consiglio: dovunque vada, faccia di tutto per starsene buono. L'agitazione finirà col ritorcersi contro di lei.

- Va bene - risposi. Feci una pausa e continuai. - Ascolti, Piano, state forzando la mano. Il fatto che sia saltato fuori un Max Gold, ucciso a Frisco, non può in alcun modo destabilizzare la struttura del Sindacato. Se è stato ammazzato, come dite voi, non vi possono incolpare perché i vostri interessi sono altri. Il Sindacato non avrebbe offerto alla polizia su un piatto d'argento un Max Gold qualunque. Non potete essere accusati di niente perché non ci sono prove contro di voi. Quindi anche dando per buona la vostra ipotesi, e cioè che sia io l'assassino di Gold, il vostro atteggiamento nei miei riguardi non è giustificato. Direi, anzi, che i motivi sono altri. Approfittate dell'occasione per tentare di liberarvi di me una volta per tutte. Su un piano morale, si tratta di coazione violenta.

Eddie Piano guardò Di Luca e, per un attimo, parvero entrambi perplessi. Il boss di New York aggrottò le sopracciglia e mi disse:

- Chiacchiere da avvocato, eh Maynard? Li sappiamo noi i problemi che ci sono a Frisco. E questa, del resto, è una lunga storia. È da un pezzo che lei ci mette nei guai con il suo modo di agire. Si comporta come se noi non esistessimo. Ebbene, Maynard, noi esistiamo.

- E abbiamo deciso che lei riconoscerà una volta per tutte questo fatto - sottolineò Piano con un sorrisino che gli animò il viso rugoso. - Abbiamo accettato che Arteleso le parlasse per primo. Ammettiamolo, le cose potrebbero essere condotte in modo da arrivare a un accordo. Guardi, Maynard, ci sono delle tensioni e noi stiamo facendo da tappo. Se avessimo deciso altrimenti, questa conversazione neanche ci sarebbe stata.

- Allora vi dovrei ringraziare - dissi.

- Quasi, Maynard, quasi - osservò Di Luca tra un tiro e l'altro. - Non si faccia il sangue cattivo, Maynard. Almeno Arteleso si è dato da fare perché il Sindacato la risparmiasse.

Johnny sorrise a Di Luca:

- Coesistenza pacifica, capo.

- La coesistenza pacifica dovrebbe interessare più a lui che a me - continuò Di Luca, puntandomi un'altra volta il sigaro addosso. - Maynard, questa è la sua ultima opportunità per vivere con noi in coesistenza pacifica, come dice Arteleso. Non sembra apprezzare il nostro gesto, e questo non va bene, Maynard.

Barney si intromise di nuovo nella conversazione, dicendo, mentre si guardava la punta delle scarpe:

- La lingua che lui capisce è un'altra, capo.

- Dica al suo tirapiedi che mi vada a prendere un bicchiere d'acqua, Di Luca. Non sto parlando con lui e il ragazzo è stupido.

Barney ebbe un sorriso al vetriolo a queste parole e tuttavia non distolse gli occhi dalla punta delle scarpe. Piano si passò le dita sulle labbra e osservò:

- Bene, ci siamo detti quello che avevamo da dirci, Maynard. Se vuole essere ragionevole, dipende da lei.

Mi alzai, li guardai tutti uno per uno, lentamente, e dissi:

- Se non avete altro da aggiungere, me ne vado. Nessuno mi accompagna alla porta? Tu, Barney, non sei buono neanche a questo?

- Fammi un favore, Maynard - disse lui, sempre con le braccia conserte. - Fatti vedere in una delle città. Fatti vedere.

- E perché? Mica ci sarai anche tu? - chiesi.

- Maynard, - disse Di Luca, alzandosi anche lui e agitando il suo corpo grasso - la conversazione è finita. Abbiamo parlato fin troppo. Addio.

Mi diede le spalle e Johnny mi fece segno con la testa perché uscissi. Aprii la porta, fui accompagnato dalla faina fino all'altra porta, poi apparve il tipo in smoking, passammo dal bar, mi lasciò solo davanti all'uscita e mi fece bene respirare l'aria fresca quando mi incamminai sul marciapiede. Mi guardai due volte alle spalle, ma nessuno mi seguiva. Bene, Maynard, stanno buttando benzina sul fuoco. Fremono per sapere quello che farai. Chiaro, è più facile e meno rumoroso mandarti in pensione invece di piantarti due pallottole in corpo. Coesistenza pacifica, sì. Johnny, vecchio mio, ora sì che hai le mani legate.

Attraversai la strada, pensai di prendere un taxi, ma continuai a parlare tra me e me, approfittando della gradevole temperatura serale. Non sai neanche quello che farai, Maynard. Non sai nulla di Collins, né di Filippo. Devi andartene da New York o se rimani qui confondere le acque. Hai un caso a metà, senza futuro in vista, assassini del Sindacato alle calcagna. Ed è poco ma sicuro che se ti acchiappano in un qualsiasi punto della rete, sparano per uccidere. La sete di Barney, per esempio, non è di acqua.

Camminai a lungo fino a che mi ritrovai nel posto giusto: davanti alla porta di casa mia. Avevo un sacco di cose da fare, ma decisi di rimandare tutto al giorno dopo - il giorno dell'esilio di San Maynard.

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DIECI


Parcheggiai l'auto sul retro del palazzo, a una certa distanza, e rimasi in attesa per un quarto d'ora. Scesi dalla macchina quando fui sicuro che nessuno sorvegliava la casa. Ora dovevo scoprire se c'era qualcuno dentro.

Con le scarpe di gomma mi sentivo un gatto. Con il silenziatore sull'arma, un uomo. Feci il giro del palazzo, sempre accostato alle pareti e acquattato. Quando arrivai vicino alla finestra del bagno, feci un salto e mi appesi al davanzale. Misi la mano destra sul vetro, esercitai una leggera pressione all'altezza della maniglia e sentii lo scatto della chiusura aprirsi. Con un balzo entrai in bagno. Aprii la porta, attraversai il corridoio senza fare il minimo rumore e mi diressi verso il quadro elettrico, collocato sul lato sinistro dell'ingresso. Staccai la corrente. Mi sentii un po' il ladro Raffles in casa mia, ma non avevo né il tempo né lo stato d'animo per compiacermi dell'idea.

Se ci fosse stato qualcuno, si sarebbe trovato nella mia stanza o in soggiorno. Optai per il soggiorno perché aveva le finestre ampie e permetteva di controllare la strada a chi mi stesse eventualmente aspettando. Non aver sentito rumori o passi non bastava a far svanire le mie preoccupazioni. Se c'era l'ordine di liquidarmi, avrebbero cercato di portare a termine l'incarico con la massima efficienza possibile.

Spinsi piano la porta del soggiorno, mi sfilai la scarpa dal piede destro e la lanciai contro una poltrona. Sentii immediatamente un trepestio, poi il corpo di qualcuno passò nel mio campo visivo per accendere l'interruttore. Fece clic ma il buio persistette. Puntai l'arma e sparai, il corpo cadde, a cinque metri da me.

Rimasi immobile per alcuni minuti. A un certo punto decisi di varcare la porta perché non scorgevo ombre o movimenti anomali da dove mi trovavo. Superai la soglia nel momento esatto in cui sentii un fischio: una pallottola mi passò accanto e si andò a conficcare nella parete del corridoio. Mi tolsi l'altra scarpa e la lanciai in aria, dentro la sala. Da dietro una poltrona apparve una testa, che scomparve immediatamente. Andai lungo il corridoio verso la porta in fondo e la spinsi, cercando di richiamare l'attenzione del mio visitatore. Tornai verso la prima porta, guardai e vidi una sagoma muoversi, quasi interamente protetta dal sofà. Aveva la testa a portata del mio proiettile, ma il colpo si perse nel divano, a pochi centimetri dal suo volto. Anche il silenziatore del mio ospite si fece subito sentire, ma il colpo gli uscì un po' a caso. Capii che cominciava a sentirsi disorientato. Lo avevo incastrato dietro il sofà ma sarebbe stato difficile stanarlo da lì. Allora, sempre senza fare il minimo rumore, aprii la porta d'ingresso e poi la richiusi, questa volta sbattendola con forza. Ma non uscii. Andai di nuovo in fondo al corridoio, con l'intenzione di adoperare la seconda porta. E quasi rimasi sorpreso. Il tizio stava uscendo e non urtammo l'uno contro l'altro solo perché, avendolo visto per primo, gli avevo messo una pallottola in corpo. Lui lanciò un grido soffocato e sparò, ma in aria. Lo finii con un secondo colpo.

Rimasi lì un altro po', sulla soglia della porta del soggiorno, attento a qualsiasi rumore, ma quasi certo che il lavoro fosse finito. Salii nella mia stanza, come misura precauzionale, ma mi resi conto che le mie impressioni erano esatte. Tornai in soggiorno, corsi verso le tende della finestra, riattaccai la corrente, indossai le scarpe e vidi che il primo uomo che avevo ucciso non lo conoscevo. L'altro lo riconobbi subito, anche a distanza. Mio vecchio e stupido Barney, doveva succedere prima o poi. Era proprio morto, con due pallottole in petto e la faccia più sgradevole che mai.

Perquisii i due cadaveri e su quello di Barney trovai una cosa curiosa: un bloc-notes con vari nomi, indirizzi e numeri di telefono. C'era il numero privato di Di Luca, quello di Johnny, di vari bar e dancing e altri privi di indicazione. Ma quello che colpì maggiormente la mia attenzione fu l'ultimo: il numero di telefono di una certa miss Field, a Frisco.

Uscii di casa, andai a riprendere la macchina e la sistemai accanto alla porta sul retro. Era l'ora ideale per fare contrabbando di cadaveri. Ripulii il sangue dal tappeto, avvolsi le mie due vittime in alcune coperte e le caricai in auto. Recuperai il necessario, passaporto compreso, e guidai fino in periferia. Arrivato in un luogo calmo e isolato, con un dirupo sulla sinistra, tirai fuori i cadaveri e li feci rotolare giù. Misi di nuovo le coperte in macchina e un quarto d'ora più tardi mi fermai in un quartiere povero. Le appallottolai e le buttai in un secchio dell'immondizia.

Erano le tre e mezzo e mi sentivo stanco. Lasciai la macchina davanti alla casa di Olga e camminai per una decina di minuti fino a trovare un taxi.

- Aeroporto - dissi all'autista.

Di primo mattino ero già in volo per Frisco. Con un piano definito nei minimi dettagli.

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