|
|
| << | < | > | >> |IndiceNota introduttiva 7 Insegnare al principe di Danimarca Il giovane principe di Danimarca 13 Hic sunt leones Le presentazioni 23 Azione 32 Trespassers will be prosecuted 34 Gli esami non finiscono mai: difficile è cominciarli 44 Non stare nella pelle 53 Il libro dello scarrafone 61 Attualità della violenza 79 Inattualità dell'attualità. Una nuova materia irreale e tormentosa 97 Pensi che il tuo quartiere sia tutto il mondo 126 Il pane e le brioches Scuola e strada 143 Molteplici strati di paure 151 Cittadinanza 157 Gruppo 159 Tempo 163 Dal chiasso alla parola 165 Il pane e le brioches 175 Un ponte sull'abisso La presenza della morte 185 Relazioni sufficientemente buone 206 Fine e superamento della necessità del lavoro 212 Una nuova identità con i connotati del ghetto 225 Bilanci Ossessioni espulsive 233 La città e noi 235 I parametri del successo 243 Appendice 253 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Mimmo, a 15 anni, è sicuro che il suo dovere sarebbe di uccidere l'uomo per il quale sua madre ha abbandonato da un giorno all'altro i cinque figli. È una ferita immedicabile, che impedisce di vivere (essere o non essere), figuriamoci di andare a scuola. Il padre lo accompagnava tutti i giorni sotto la scuola, insieme alla sorella, e loro se ne andavano, lui spesso scappava dalla madre, che desidera disperatamente riavere con sé.
15 settembre 1998. Accetta di iscriversi a Chance,
partecipa alle feste dei primi due giorni. Il terzo giorno,
quando si formano i gruppi «tutoriali», dichiara che
non può stare nello stesso gruppo con la sorella (che
ha un anno meno di lui e in famiglia svolge il ruolo di
madre vicaria). Il quarto giorno porta a scuola un quaderno dove ha scritto la
storia della sua vita, spezzata in due dall'abbandono della madre.
Io sono nato il 14 maggio 1983. Quando ero piccolo era così bello perché non sapevo proprio niente. Poi mi sono fatto grande, e ho capito che l'amore di qualcuno fa veramente soffrire. A 11 anni mia madre ci lasciò tutti noi. Io sono nato, e poi mi odiano; vorrei morire ma non subire. Io ora sono geloso di una ragazza perché non la voglio perdere come ho perso mia madre. Nel 1997, quando andavo alla scuola Monti, a scuola non andavo mai perché andavo a trovare mia madre. Io sono molto arrabbiato perché io non ho la mia mamma; mia sorella è contenta che non c'è la nostra mamma. Nella stessa mattinata passa all'esterno dell'aula dove sta la sorella e mostra dalla finestra un coltello. Più tardi, nel cortile, aggredisce e picchia uno dei ragazzi che stanno nel gruppo della sorella, Nando, che i genitori immediatamente ritirano dalla scuola. La comparsa del coltello e la concomitante scomparsa di Nando fanno aleggiare la fantasia che sia stato compiuto un omicidio: immediata si instaura la contro-reazione di espulsione, o almeno di severa punizione, del colpevole (a cominciare dalla sorella che urla «chiuritelo», chiudetelo in istituto; annoto nel diario del giorno di aver pensato per un attimo «sarebbe la soluzione più semplice»).
Fortunatamente niente di tutto ciò accade. Un colloquio il mattino seguente,
il rientro in aula per aggiungere un altro capitolo alla biografia di Mimmo
sulla base di tale colloquio; una lettera alla madre di
Nando (questa la scrivono anche tutti gli altri ragazzi)
perché torni sulle sue decisioni; un colloquio col padre
di Mimmo (che aveva subito ritirato il coltello): la rottura è evitata, e dopo
una settimana Nando rientra,
festeggiato da tutti. La prima grave crisi di Chance
viene dunque elaborata e riparata con generale soddisfazione.
Ieri ho picchiato un amico, però ha voluto lui, perché fece una cosa che non doveva fare, e a me dispiace. In questa scuola non si usano la violenza e neanche le armi: questo vale per tutti gli alunni. ... mi dispiace di Fernando. Io fra 9 mesi penso che avrò rapporti con tutta la scuola. Sarò un ragazzo non felice, perché non è possibile essere felice senza la mamma, ma sereno; riesco a trattare con gli altri senza batterli e mi sono fatto tre amici sinceri. Farò l'esame per prendere la licenza media, e forse pian piano riuscirò anche ad andare d'accordo con mia sorella. Il capannone dove si svolge la tumultuosa vita di Chance dovrà accogliere Mimmo, la sua sorella minore Pina, l'intera famiglia che in qualche modo ha percepito tutta quanta di avere trovato uno spazio (compresa la madre con amante e figlioletta al seguito, le cui esibizioni, per restare nel paragone letterario, non sfigurerebbero in un dramma elisabettiano). Il capitolo che nelle scuole perbene si intitola «rapporti scuola-famiglia» culmina nella giornata in cui un maldestro intervento dei servizi sociali sottrae a Mimmo e Pina i due fratellini più piccoli trasferendoli d'autorità in un centro d'accoglienza: è il momento in cui Mimmo fugge da scuola dichiarando di voler uccidere la madre, poi torna per piangervi tutte le sue lacrime; Pina invece si assenta per parecchi giorni, e non mangia più, forse per punirsi di aver trascurato il suo ruolo di madre per essere, a Chance, una ragazza come le altre. E gli altri ragazzi e ragazze piangono e soffrono insieme a Pina e Mimmo, perché si riattivano in quella mattinata tanti vecchi traumi. Questi e altri episodi hanno fatto somigliare molte volte Chance più a un teatro che ad una scuola: sarebbe stato opportuno stabilire confini più netti? Forse: ma se non si fosse offerta la scena per il dramma della sua famiglia, Mimmo avrebbe potuto sentire la scuola come uno spazio insieme di accoglienza e di protezione? (A sua madre è stato fisicamente impedito l'ingresso a scuola, alla terza incursione). E, quindi, avrebbe accettato di svolgervi le attività «didattiche», che sono consistite prevalentemente in una continua rielaborazione della sua storia in diversi generi narrativi, e nella produzione di oggetti, dalla pagina scritta ai fiori di ceramica, concepiti ed eseguiti come doni per le persone a lui care? Nessuno sa dire che cosa scattava in lui quando improvvisamente smetteva le sue attività «di disturbo» e si ritirava da solo con il suo quadernone; certo è che quelle pagine erano messaggi diretti ad un interlocutore. Lo spazio insieme accogliente e protettivo della scuola gli ha permesso di sperimentare che la piena delle emozioni può essere trattenuta e dominata quando le si dia una rappresentazione simbolica anziché tradurla in azioni: è troppo poco, come programma di terza media? Mimmo è rimasto sempre a Chance, totalizzando uno dei più elevati indici di frequenza. È rimasto anche dopo l'episodio più violento di tutta l'annata, che lo ha visto protagonista insieme ad un compagno. La risposta è stata un «allontanamento» di due giorni, di più non avrebbe tollerato. È interessante a questo proposito il paragone con l'andamento scolastico «normale», e cioè la diffusa pratica di sospendere questo tipo di ragazzi «con obbligo di frequenza», resa necessaria dal fatto che la sospensione è vissuta in genere dal punito come la desiderata autorizzazione a stare a casa: l'attaccamento dei ragazzi Chance alla loro scuola era dichiarato nel modo più plateale quando minacciavano, se li avessimo cacciati, di «appicciare tutto». Questa impossibilità di cacciarli, risultata evidente da subito, è stata il problema più tormentoso, che ogni giorno riproponeva in nuove forme una medesima domanda: fino a dove? Un anno dopo, è stato possibile riconoscere senza difficoltà che l'unico limite da osservare era quello della capacità del gruppo docente di reggere l'urto senza disgregarsi. | << | < | > | >> |Pagina 21Primavera 2000, Napoli. Intorno al cratere del Vesuvio l'attenzione di alcuni turisti è attratta da una ventina di ragazze e ragazzi, accompagnati da adulti.I ragazzi parlano con voce sguaiata, fanno scherzi volgari, pericolosi. Un turista si avvicina a uno degli adulti e, con atteggiamento comprensivo, gli chiede se si tratti di uno «psychiatric asylum». «No, sir» risponde flemmatico l'altro «it is an experimental school». «I see, I see».
(Riferito da Marco Rossi Doria a un seminario di formazione del Progetto
Chance)
Sei personaggi in cerca d'autore fu rappresentato per la prima volta il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma: molti spettatori contestarono la rappresentazione al grido di «Manicomio! Manicomio!». | << | < | > | >> |Pagina 2315 settembre 1998, ore 9,30. Centro Servizi Sociali di San Giovanni a Teduccio. Carla, Amalia, Rita, professoresse, e Maria, assistente sociale, incontrano Assunta, Mario, Raffaele, Rita, Pina, Anna e Cira. È il primo incontro tra allievi e insegnanti del futuro Progetto Chance, ciò che accade in quell'incontro viene annotato da Carla. Domani ne discuterà con tutti gli altri per capire come incontrare anche l'anima dei nuovi allievi. Assunta arriva insieme alla madre e alla sorella e al figlio di lei. Bisogna aspettare che si calmi il vocio di vari postulanti, nel frattempo la sorella di Assunta comincia a «sfilare la corona»: siamo otto figli, venti nipoti, io sola ne ho quattro. Devo fare anche le vaccinazioni, «verite 'cca, tengo 'o libretto». Tutto si accavalla. Nel linguaggio sociologico si chiamano "famiglie multiproblematiche". Nella pratica significa un continuo ingorgo di parole, lamenti, emozioni, urgenze, richieste, sopraffazione.
La mamma di Assunta: «Non sono problemi miei se vuole venire a scuola, solo
che a stare a casa si esaurisce ed esaurisce a 'mme». La mamma segue
attentamente le spiegazioni circa il progetto; quando sente che è
prevista una paghetta vede se può cavarci qualcosa pure lei: «Non è che mi
potete prendere per fare le pulizie?».
La madre di Mario: «È stato bocciato due volte, lo conoscono tutti, e è sempre stato cacciato, anche alle elementari, e ha cambiato scuola ogni anno. È che proprio non vuole fare niente, ora lavorava e se n'è andato dal lavoro». Rita: «Cos'è che non andava?». Mario: «O mast' se zuca o sang' r'a gent» (il padrone succhia il sangue alla gente). Mimmo (il fratellino): «Non gli piace perché siete tutte femmine, io lo so».
Madre: «Mi ha fatto prendere l'esaurimento nervoso,
è da quando abitava in un altro quartiere a causa del
terremoto che cambia sempre scuola e non gli è mai piaciuta».
'O figli 'e Capavacante si presenta accompagnato dalla mamma, da una zia e dall'assistente sociale. Assistente sociale: «Sta ripetendo da quattro anni; ora ho fatto domanda per chiuderlo al Don Bosco». Alessandro: «E io me ne fuio subbito».
Assistente sociale: «Devi per forza accettare l'occasione offerta da Chance,
perché io non ce la faccio più».
Fortuna è arrivata a Chance segnalata da un'altra ragazza, perché il suo caso non era noto ai servizi sociali. Il suo primo colloquio si è svolto a monosillabi, anzi a monovocale: «e» - che significa sì - oppure buttando il capo all'indietro e schioccando la lingua per dire: No! L'unica cosa chiara era che cercava un modo per cambiare, ma era praticamente analfabeta. Quando cominciò ad esprimersi lo fece con un sistematico turpiloquio. Il suo intercalare era «famme quattro b...» che tradotto alla lettera è un invito al sesso orale multiplo, a senso: va' al diavolo.
Aveva un suo progetto ed è stata determinata nel
realizzarlo: ha accettato di imparare di nuovo a leggere
e scrivere, poi è stata quella che ha voluto fortemente
la prima comunione, e ha preparato ottimamente le
bomboniere in ceramica, ha fatto il corso per orafo,
infine è stata la prima di circa cinquanta che lungo gli
anni sono rimaste incinte. Incinta a sedici anni: già
meno bambina di sua madre che l'aveva partorita a
tredici, e, risoluta a restare sola, ha rifiutato di dare al
figlio il nome del padre che pure voleva «assumersi le
sue responsabilità» (anni 17). Tre anni dopo, in occasione del ripristino della
sede di Chance devastata dai ladri, il suo bel bambino ha tagliato il nastro
dell'inaugurazione.
Mimmo è approdato a Chance in maniera rocambolesca, «saltando» i colloqui
presso i servizi sociali e
per iniziativa della madre che vantava una cultura alta.
Aveva persino frequentato il liceo classico - diceva -
ma poi era incappata in relazioni difficili. Mimmo è
stato sarcastico e beffardo dal primo momento e ci ha
sempre guardati dall'alto in basso, tenendo un accurato
conteggio di tutte le nostre pretese inadempienze.
Antonio: «Io a chell'ata scola arapev'a port' e me ne ievo; ccà scasso tutt' cose e me ne vaco» (All'altra scuola aprivo la porta e me ne andavo. Qua scasso tutto e me ne vado). Per onorare questa promessa Antonio ha rinverdito le sue tradizioni incendiarie: appena possibile con il suo accendino dava fuoco ai cartelli appesi ai muri, o bruciacchiava qualcosa di legno. Ma si voltava in giro a guardare se lo vedevamo, come fanno i bambini piccoli. Altre volte si impossessava di vari oggetti e li faceva sparire.
Le stesse cose non le faceva certo con il venditore
di frutta presso il quale lavorava. Da lui teneva tutto
in bell'ordine. Anche a scuola dopo qualcuna delle sue
incursioni, rimetteva ossessivamente tutto in ordine.
Nello sport non è mai riuscito a inserirsi nei gruppi,
ma nonostante questo era il più apprezzato ed osannato
portiere di tutte le squadre. Chissà per quale segreta
via questa sua abilità era connessa alle insicurezze e
alla chiusura comunicativa. Dopo una famosa partita
al San Paolo ha persino chiesto di essere festeggiato in
occasione del suo onomastico: segno che finalmente si
sentiva accettato.
Enzo «Tenaglia» era specializzato nell'abbraccio a tenaglia di ogni essere di sesso femminile comprese le prof ed escluse solo le signore «genitori sociali», che in quanto mamme non possono essere considerate sotto l'aspetto sessuale (qualche tabù resiste ancora). Amalia, prof: «Non ti dispiace se, visto che non tieni genio di parlare, parliamo con mamma». Enzo fa segno di no, tenendo la testa affondata nel collo della tuta, fino all'altezza del naso. La madre: «A 6 anni è stato messo sotto da una macchina, si è rotto la testa, un ginocchio, è vivo per miracolo. Poi mi sono separata quando lui stava in prima media. Comunque è stato sempre 'nu scustumat'». Nicolina, assistente sociale: «Ma la zia di Milano dice che quando è da lei si comporta benissimo». Enzo estrae la testa dal collo della tuta. La madre: «La zia 'a sta a sentere, a me no. È stata essa che se lo è cresciuto e lui si è affezionato alla zia e non a mme: lo ha cresciuto lei, le è affezionato». Nicolina: «Ma voi lo accontentate troppo». La madre: «E si nun ce 'o dongh'io, chi ce 'o ddà? E nun parlammo d'o pate. Isso dice che 'o pate nun 'o rà niente. Anche vicino al figlio più piccolo, Daniele, quando quello lo chiama babbuccio mio, lui niente, non tiene sangue nelle vene, ma sul'acqua. Enzo deve odiare il padre, lui mi dà 650 mila lire del milione e 850 mila che guadagna». Amalia: «Ma si può odiare a 14 anni?». La madre: «E poi sta dalla mattina alla sera a via Taverna del Ferro, dalla nonna; da lei si trova bene, ma l'ambiente non è buono. Ha fatto tre volte la prima media, e quest'anno non ha iniziato proprio, ha chiuso il discorso. E stato bocciato anche in terza elementare». Amalia: «Facevi chiasso a scuola, in classe e nei corridoi?». Lui china la testa e sorride. Al secondo incontro sentiamo la sua voce: Enzo: «Sono ritornato perché voglio prendere la terza media per andare a Milano. Pe' sta' c'a zia mia». Amalia: «Perché non volevi più andare a scuola?».
Enzo: «So' troppo 'ruosso, agge i' a terza vota int'a
primma co'e criature» (Sono troppo grande devo andare
per la terza volta in prima con i bambini).
Salvatore-Totore «'o Coyote» ha infatti lo sguardo e la postura di quel predatore come lo si vede nei cartoni animati. È una vecchia conoscenza, dai tempi in cui, a sei anni, frequentava il semiconvitto «Opera Pia Orfanotrofio Famiglia di Maria», antica e meritoria istituzione - benché ormai superata - da cui sono passati diversi nostri ragazzi, per i quali l'istituto incassava la retta versata dai servizi sociali per sopperire a gravi deficit familiari: in questo caso un problema di alcolismo. Sua madre avvilita dalla miseria, dalle difficoltà e dai tanti figli usava come metodo educativo "o' zuoccolo": li picchiava con lo zoccolo, e, come lei diceva, vantando la propria fermezza educativa: «No accussì — e fa un gesto per significare un picchiare leggero — ce'agge fatt' ascì 'o sang', e manco niente agge ottenuto» (Gli ho fatto uscire il sangue e nemmeno così ho ottenuto niente). Totore arriva al colloquio trascinato dalla madre - sempre pronta a cogliere nuove occasioni per far mollare i figli all'assistenza sociale - e non manca di apostrofarla violentemente. In realtà però è venuto perché lo ha convinto Mimmo (il principe Amleto), compagno di sventura che lo protegge e lo aiuta. In occasione del colloquio scopriamo che Totore e genitrice hanno percorso altre tappe della carriera del «perfetto bisognoso»: ha avuto l'insegnante di sostegno per nove ore, e lavora come fioraio - un mestiere caratteristico della zona - perché la famiglia «ha bisogno». Totore quindi pretende di avere un insegnante tutto per sé e al tempo stesso non intende frequentare se non quando non ha niente di meglio da fare. In realtà è un ragazzo intelligente, conosce una quantità di specie vegetali e soprattutto fiori, anche coi nomi scientifici, esegue rapidamente e a mente i conti che convengono a lui, ha un talento artistico che esprime nella pittura, specialmente quella su vetro che ha frequentata già da piccolo. C'è solo un problema: spesso distrugge i suoi lavori e quelli degli altri.
Il suo comportamento è imprevedibile, così com'è
la sua organizzazione familiare, che dipende dal tasso
alcolico. Proprio per lui abbiamo dovuto inventare una
complicata procedura per la consegna della paghetta.
Una geniale legge proibisce di consegnare ai minori di
diciotto anni qualsivoglia cifra: deve firmare il genitore.
Avendo il fondato sospetto che quei soldi finissero
nelle tasche dell'oste, dovemmo costruire un rituale in
cui i soldi si consegnavano al genitore il quale in nostra
presenza li riconsegnava al ragazzo. Totore nei fatti si
è sempre governato da solo, spesso improvvisando
rifugi ed alcove in spazi abbandonati o sui terrazzi
dell'Opera Pia attorno alla quale girovagava dopo la
chiusura dei battenti alle 18 piuttosto che rincasare.
Delle sue abilità di scalatore nonché di una sessualità
priva di inibizioni avrebbe dato prova di sé durante
un memorabile soggiorno a Marechiaro. Eccolo ritratto
dalla giornalista Paola Tavella che ha descritto il primo
anno di Chance in un suo libro:
Totore, detto 'o Coyote perché dondola la testa su e giù e ridacchia sempre, ha levato le scarpe e saltella da una roccia all'altra. Si lascia alle spalle la spiaggetta e arriva proprio sotto a una casa da sogno. Una villa affacciata sul mare, il patio coperto da bougainville, la piscina. È circondata da una massicciata di sassi dove si apre una porticina. Totore prova a aprirla ma è chiusa a chiave. Allora scala la massicciata come un free-climber. Arriva in cima e guarda giù. Si gira verso di noi e esplode in un ululato di pura delizia. «Totore scendi immediatamente», gli grida Carla. Invece lui salta dall'altra parte, nel giardino della villa, e scompare. Dopo pochi minuti si sentono delle urla. La porticina si spalanca e compare una signora in bikini con un asciugamano sui fianchi. Gesticola e sembra fuori di sé. Appena dietro di lei un cameriere filippino con la giacca a righe manda avanti 'o Coyote. 'O Coyote se ne fotte. Ha la faccia felice. Il cameriere lo spinge fuori con un ginocchio. Non proprio un calcio, ma quasi. Carla lo sgrida pochissimo. «Avrei dovuto essere più severa, lo so - dice - ma è stato più forte di me. Quando lo ho visto saltare dentro la villa ho pensato: che se lo becchino un po' anche i signori». Totore è ancora in preda all'entusiasmo. Per festeggiare si butta in acqua vestito. Gli abbiamo suggerito di levarsi la tuta e fare il bagno in mutande, ma ha risposto che non può: la vista della signora in bikini gli ha intostato il pesce. [...] Lo trasciniamo via dalla spiaggia tutto gocciolante, risalendo una stradina di campagna. Lui chiama per nome ogni fiore e ogni pianta che vede: «Calle. Ficus. Geranio. Pina. Fiori di zucchina, di melanzana. La ginestra, il limone, il melograno, i ranuncoli». Coglie un papavero e se lo infila dietro l'orecchio. Il secondo giorno di gita, invece, va alla grande. 'O Coyote ha talmente gradito la sua breve puntata nel lusso che è malleabile come mai in tutta la sua carriera scolastica. Si impadronisce della batteria e pesta a tutto andare, lanciandosi occhiate d'intesa con Maurizio. [Maurizio Carboni, maestro di percussioni]. Lì si conferma l'assioma che Maurizio, come tutti i batteristi, adora il casino e per questo si intende a meraviglia con i ragazzi «Chance». Quando si tratta di suonare la colonna sonora del filmino girato al mare Totore accetta perfino di interrompersi se Maurizio glielo chiede, e di riprendere al segnale convenuto. Un capolavoro pedagogico. | << | < | > | >> |Pagina 65Una lingua stranieraNella mia esperienza scolastica passata mi è capitato spesso di accogliere lamenti da famiglie che, avendo cresciuto i propri figli in un ambiente connotato linguisticamente dall'uso dell'italiano, se li ritrovavano inspiegabilmente e ostinatamente dialettofoni, guarda caso proprio a partire dalla scuola media.
Interrogati, i ragazzi non hanno difficoltà a spiegare
che l'italiano è «'a lingua d'e' sciemi»: cioè degli adulti,
dei professori e dei loro lecchini. Nella preadolescenza
il dialetto diventa, insieme al fumo e al vestiario, uno
dei più potenti marcatori dell'autonomia, della differenziazione, della
solidarietà dei pari. Allo stesso modo
portare il casco è «da sciemi», e ogni altro comportamento che aderisca alle
leggi del mondo adulto. In ragazzi come i nostri il dialetto è dunque
doppiamente vincolante: è la lingua materna, delle emozioni, dell'ambiente che
si conosce e si può controllare; e contemporaneamente è il linguaggio dei pari,
che rafforza l'unità del gruppo contro la parola e l'autorità degli
insegnanti: un codice ambivalente, in cui si mescolano
dipendenza e autonomia. Districarsi in questa rete di
legami richiede attenzione e delicatezza; a poco o
niente serve, quando non è controproducente, il paternalismo populista
dell'insegnante che abbonda nell'uso del dialetto.
L'arte della conversazione Il preadolescente diffida dell'insegnante non perché parla italiano, ma in prima istanza perché parla, e in genere parla troppo, mentre lui è intasato da emozioni e conflitti che si esprimono col silenzio, con il corpo, con il gesto, con l'urlo. La parola dell'insegnante, invece di aiutarlo a mettere ordine in quel caos dandogli pian piano una forma, troppo spesso vi sovrappone semplicemente una gabbia di regole, oppure parla d'altro. L'insegnamento linguistico è prima di tutto dialogo, e nel dialogo viene prima di tutto l'ascolto: sennò è vero quello che dicono i ragazzi, che usiamo le parole per avere sempre ragione noi. Solo se impara ad ascoltare l'insegnante può avere la pretesa di essere ascoltato. C'è nelle scuole una linea didattica che ha ad una estremità la situazione tipica da liceo classico (che io chiamo l'obitorio della scuola italiana): un insegnante che parla per cinque ore, una classe in silenzio. Quando mia figlia se ne lamenta e io le chiedo «tu che fai?» lei risponde «ma io non ascolto». All'estremità opposta c'è la situazione Chance, nella quale siccome si fa sul serio da entrambe le parti, cioè non è permesso quel «facciamo finta che» su cui si basa tanta parte delle attività scolastiche, gli alunni esercitano la loro didattica su di noi con spietata sincerità: «nun parlate», «stateve zitta», per non citare le varianti napoletane. E l'insegnante deve imparare la dura arte del dialogo vero. Una pratica assai importante è la conversazione collettiva organizzata nell'assemblea settimanale. Anche questa non è un dato ma una conquista. Essendo un luogo della parola, anche l'assemblea suscita rifiuti, diffidenza, ostilità. Il primo anno di Chance una buona parte dei ragazzi non ci misero mai piede, limitandosi ad azioni di disturbo. Ci sono poi quelli che partecipano stando appoggiati allo stipite della porta, quelli che ascoltano da fuori, quelli che si sdraiano sui tavoli: è il linguaggio dei corpi, che bisogna decifrare con pazienza prima di poterlo modificare. In genere occorre un po' di tempo prima di sentire quel «ià, dicite», che apre la strada alla parola. Ma la diffidenza è tale che c'è sempre qualcuno che non riesce ad ascoltare. Comunque, anche l'assemblea deve durare poco, occorre imparare a dire le cose essenziali nel più breve tempo possibile. La cosa decisiva per legittimare l'assemblea come spazio della parola condivisa è la disponibilità degli insegnanti ad ammettere pubblicamente i propri errori. La verifica, il premio, arriva come sempre inaspettato, per via indiretta. Ad esempio quando, avendo saltato un'assemblea per scarsità di alunni, si sente gridare improvvisamente: «né, ma l'assemblea n'a facimmo 'cchiù?». Uno spazio della parola è diventato un bisogno. | << | < | > | >> |Pagina 76Il testo letterario rimane il principale deposito di significati, purché non venga ucciso dalle pratiche didattiche. L'incontro con il libro è un evento personale, intimo, di cui l'insegnante deve farsi mediatore. Basta una pagina, ma la lettura deve essere ad alta voce, ed espressiva, e chi legge deve trasmettere un evidente piacere. Per migliaia di anni la narrazione è stata orale e collettiva, la lettura muta di un testo scritto è recente, ed è una pratica individuale.Non so se nella sua potente metafora Kafka avesse incluso le emozioni di un adolescente che si sente orribile e schifato da tutti; certo è che questo significato veniva aggiunto e attivato nel momento in cui il mio povero alunno proiettava se stesso nel protagonista del racconto. Non so se Gianni sia poi diventato un lettore, ma l'incontro con quel libro resta un'esperienza della sua vita.
Uno dei compiti più importanti di noi insegnanti è
di offrirci come mediatori di questi incontri.
In conclusione, la didattica che le ragazze e i ragazzi Chance hanno esercitato su di noi con azione pertinace, spesso virulenta ma efficacissima, è consistita nel costringerci ad applicare alcuni principi semplici e vecchi come il mondo. Il primo è quello che abbiamo concordato di chiamare «l'assioma della significanza»: insegnare significa dare significato alla parola (e a tutte le attività che se ne servono). Se il significato, per essere tale, non può essere imposto ma deve essere condiviso da insegnante e alunno, ne deriva il corollario della reciprocità, nella relazione personale come nella didattica: che significa accogliere i silenzi, i veti, ma anche gli indizi, i suggerimenti, gli orientamenti da parte degli alunni, pena la perdita, appunto, della significanza. E quanto ha da imparare un insegnante da questo gioco di restituzione reciproca di significati! La conquista della parola è un percorso da fare insieme, un'esperienza di passaggio attraverso i diversi ambiti di significanza, partendo dalla sfera dell'identità personale, del corpo, delle emozioni e avventurandosi gradualmente nella sfera più grande, quella del mondo esterno, alla cui significanza dovrebbero concorrere tutte le discipline. Un'esperienza che può spaventare, se non ci si sente accompagnati. Il percorso verso il mondo esterno è quello che apre più vasti spazi al pensiero: la difficoltà è quando la conquista della parola è ancora troppo precaria, e la strada ancora troppo ostruita dalle emozioni; ciò che i nostri ragazzi esprimono con l'efficace metafora «m'abbruciano 'e cervella»; e che a volte si presenta invece come una sorta di blocco ghiacciato. A volte è l'attività artistica che riesce a sciogliere quel ghiaccio e ad aprire un varco alla parola e al pensiero; né bisogna vergognarsi di ricorrere ad attività (come tagliare, incollare, colorare) apparentemente primitive e infantili ma preziose perché possono attutire quelle fiamme e predisporre il cervello all'esercizio delle sue funzioni superiori (a differenza di uno strumento come la playstation, che viene usata come un ossessivo anestetico). Se la scuola avesse una considerazione antropologica più attenta a quelli che sono stati (e in parte, nonostante tutto, continuano ad essere) i modi e i ritmi dell'evoluzione delle facoltà comunicative nella specie umana, sarebbe un bel guadagno per tutti, non solo per i ragazzi Chance. | << | < | > | >> |Pagina 157Cittadinanza: torniamo quindi alle strade, al battere con i propri piedi altre strade. All'inizio lo abbiamo fatto d'istinto, poi con sempre maggiore consapevolezza, finché la didattica itinerante è diventata materia curricolare trasversale, sotto il titolo «percorso di cittadinanza». Nel corso sperimentale integrato di cui ho avuto la responsabilità pedagogica negli ultimi tre anni abbiamo spiegato ai genitori e ai ragazzi, sia all'atto della firma del patto formativo a inizio anno, sia in tutte le numerose occasioni di incontro, che tre sono le gambe sulle quali il percorso cammina: costruzione di competenze di cittadinanza, di competenza professionale, di competenze cognitive. In questo ordine, perché le prime sono condizione e motore delle altre; la loro acquisizione avviene non sui libri ma tramite esperienze ed incontri, itineranti e stanziali. Sarebbe lungo l'elenco degli effetti benefici di questa didattica extra moenia, dalle uscite settimanali agli stage fuori Napoli; immaginiamo soltanto quanto può essere importante, per un ragazzo che si porta dentro dalla nascita il marchio di svalutazione del nome di un quartiere o addirittura della sua famiglia, essere conosciuto e giudicato - per la prima volta in vita sua - semplicemente per la persona che sa essere e per quello che sa fare. Dentro le mura, il fulcro del percorso di cittadinanza è il circle time settimanale, anch'esso inserito nell'orario curricolare, luogo di costruzione del gruppo, di elaborazione dei conflitti, di gestione dei problemi. Lo spiega così un ragazzo: «Il Circle Time è un momento della nostra classe dove vengono esposti tutti i problemi che ci sono tra noi e con i professori e poi è anche un momento dove veniamo messi tutti alla pari e nessuno è più importante di un altro, e poi ci mettiamo tutti in cerchio per non far sentire nessuno inferiore a un altro. Io al mio primo Circle Time mi sono trovato bene perché è stata la prima volta dove ho messo davanti i miei problemi con la scuola e nessuno ha detto "no, è così e basta". In uno di questi CT si decideva se era opportuno o no portarmi a Reggio Emilia a fare lo stage; quando si decise che io era meglio che restassi a casa io mi sentii fuori dal gruppo, ma poi capii che nessuno mi voleva fuori, e che non ero pronto per quell'esperienza, perché poi se ne è parlato in un altro di questi CT e mi hanno fatto capire che non ero pronto e mi fece molto bene quell'esperienza del CT». È superfluo osservare che questa modalità di affrontare i problemi è antitetica a quella vigente nell'ambiente di vita dei ragazzi. E si può intuire perché il CT sia diventato per loro l'appuntamento settimanale più desiderato. | << | < | > | >> |Pagina 163L'ultima parola-chiave è sempre la stessa, perché è la variabile fondamentale: tempo. Il tempo della scuola è predeterminato, l'unica flessibilità consentita è la ripetizione degli stessi anni scolastici, uno, due, tre volte: uno sperpero insensato. Tutt'altra prospettiva si apre se la domanda è: quanto tempo occorre perché un ragazzo riacquisti il desiderio e la capacità di apprendere? Perché riesca a vincere le paure più paralizzanti? Perché raggiunga le competenze minime di cittadinanza? Perché ritenga realizzabili per sé copioni di vita diversi da quelli del suo contesto sociale? Perché possa fare a meno dell'accompagnamento di un adulto rassicurante? A domande come queste la risposta non può essere data a priori, in primo luogo perché è diversa per ogni ragazzo; poi perché mette in gioco un processo educativo che va ben oltre l'ambito scolastico, assumendo una dimensione antropologica. Nell'esperienza fin qui fatta le risposte, sempre parziali, sono derivate da un faticoso processo sperimentale il cui prezzo, in termini psicologici, è un continuo ondeggiare tra illusione e delusione. Può capitare che al termine di un percorso di tre anni qualche ragazzo, sulla base della consolidata fiducia negli adulti educatori, delle sicurezze acquisite nei percorsi di cittadinanza, dell'autostima derivante dalla capacità di produrre in laboratorio manufatti decorosi riesca finalmente a fronteggiare senza essere travolto dalla vergogna la consapevolezza di non saper leggere, o scrivere, o maneggiare i concetti astratti, e smetta di sfuggire formulando, implicitamente o esplicitamente, una domanda di istruzione: così che, giusto allo scadere del tempo, si potrebbe aprire una nuova strada. | << | < | > | >> |Pagina 171Convinzioni generali sulle quali mi sono basata per promuovere la letturaUna signora entra in un centro sociosanitario di periferia. Cerca il consultorio, trova un cartello che espone ordinatamente e in bella calligrafia giorni e ore per le diverse prestazioni fornite. La signora sosta parecchi minuti davanti al cartello, poi gira lo sguardo nella implorante ricerca di un essere umano; si aggrappa al primo che trova: «Scusate, c'è il ginecologo?». Segue una breve conversazione, nella quale viene ripetutamente invitata a fidarsi di ciò che sta scritto su quel cartello (la signora non è analfabeta). Alla fine la signora se ne va; dalla sua andatura titubante si evince solo che si sta chiedendo: «Ma che cosa ci sarà scritto su quel maledetto cartello?». Questa scena si ripete decine di volte al giorno. È uguale per gli utenti di sesso maschile di tutti gli altri servizi del Centro. Non è gente che non si fida dei cartelli scritti: non ha fiducia nella propria capacità di interpretarli. 1. Il principio di significatività implica una scelta dei testi fatta a priori dall'insegnante, che ha come riferimento la sfera generale dei problemi di bambini/ragazzi in fase di crescita (problemi di evoluzione personale, ma anche le questioni morali che gli adolescenti si pongono, per esempio giustizia e perdono ecc.), e le realtà particolari delle ragazze e ragazzi che si hanno di fronte. Le prime reazioni dei ragazzi in genere offrono subito una verifica della significatività, indicano se e come si deve rettificare il tiro. 2. Il testo che maggiormente offre strade ai processi di identificazione ed elaborazione è quello narrativo; più è metaforico, meglio è: protegge l'adolescente dai rischi di un'intrusione che lo spaventa, e gli dà maggiore libertà di scelta su ciò che può prendere o rifiutare. Il messaggio implicito dovrebbe essere positivo, ma non banale. Mi sono trovata bene con fiabe, aneddoti, storie di animali o di personaggi di altre epoche o ambienti, mentre il realismo contemporaneo di certi raccontini confezionati per ragazzi è quasi sempre insulso. La grande letteratura è sempre la cosa migliore. Un tipo di testo che facilita molto la lettura è quello teatrale (o parti dialogate di testi narrativi), perché il piacere, la curiosità, o la paura di impersonare, identificarsi, esibirsi, ecc., e la naturale teatralità dei ragazzi e della loro cultura materna è tanto forte che spinge quasi tutti ad affrontare la difficoltà tecnica. In questo campo è importante introdurre il registro comico, molto efficace per sua natura.
3. La lettura deve essere fatta ad alta voce, sicura
ed espressiva, quindi dell'insegnante (una lettura
stentata provoca reazioni ostili e irritate perché ostacola i processi emotivi
messi in moto dal testo). Però
il testo per essere digerito e metabolizzato dal ragazzo
deve anche passare per la bocca; quindi implica la
lettura a voce alta da parte di ciascun membro del
gruppo. Come fare?
Una pratica che si è rivelata utile: 4. Presento un testo breve, che possa essere trascritto al computer su una sola pagina, a corpo grande (non meno di 14). Se ne trovano begli esempi nei Quattro libri di lettura di Tolstoj. Già il titolo deve essere accattivante, e possibilmente la prima frase significativa. 5. L'insegnante legge per primo, molto lentamente. Poi invita a leggere chi se la sente, ma prima propone che ognuno segni a matita sul proprio foglio, mentre l'insegnante fa una seconda lettura, ancora più lenta, tutti i punti nei quali la voce cade e si ferma, individuando così i gruppi di senso. Se i ragazzi accettano, vuol dire che il testo ha funzionato, e la seconda lettura è accolta con piacere. La serie di sbarrette che spezzettano il testo come binari rassicuranti e l'esempio dei compagni più coraggiosi in genere invogliano a tentare anche i più sfiduciati; se il testo è risultato molto significativo sentirlo sei, sette volte di seguito non stanca. A questo punto lascio al testo il tempo necessario per fare il suo lavoro. 6. La lezione successiva chiedo se qualcuno si sente di raccontarlo con parole sue: è una verifica non solo di abilità cognitive, ma del modo in cui i significati profondi hanno agito sul ragazzo, rivelato da sottolineature e rimozioni, vuoti di memoria o interpretazioni personali. Inizio una discussione, evitando griglie e grigliate che uccidono il testo e procedendo per domande personali e vive, in una elaborazione collettiva, o individuale per chi ancora non ce la fa. Alla fine, qualcuno chiede sempre di scrivere il racconto, magari con il suo commento personale. Per gli altri, e solo alla fine, propongo una griglia di domande, non preconfezionata, ma preparata anche in base all'andamento della discussione, alle reazioni emotive, alle difficoltà individuali emerse nel corso del lavoro. | << | < | > | >> |Pagina 175Lettera al mensile «Una città» Cari «concittadini», avete pubblicato sul vostro giornale anche troppe cose relative all'attività dei Maestri di Strada napoletani. Vorrei ugualmente aggiungerne un'altra, collaterale ma significativa perché evoca — si parva licet — problemi più vasti. Si tratta di un fenomeno curioso, che si presenta ricorrentemente nei personaggi istituzionali (politici e scolastici) che stanno attorno al Progetto Chance, negli osservatori esterni, ma a volte anche all'interno. È una critica, a vari gradi di astiosità e invidiosità, al fatto che i nostri ragazzi vengano «viziati» e «coccolati». Come simbolo di questo vizio sono per lo più citate le brioches, che diamo ai ragazzi a colazione e in altri momenti della giornata. Sembra che, come al tempo di Maria Antonietta, chi non ha pane non debba avere brioches. Chance non è l'unico progetto che si occupa di ragazzi svantaggiati, ma sicuramente attua un tipo particolare di relazione umana, che viene percepito anche dagli osservatori meno attenti. [...] Sei anni fa ci siamo messi nell'impresa banale di far prendere la licenza media a dei ragazzi per i quali una cosa che nelle scuole italiane non si nega pressoché a nessuno era una meta irraggiungibile: nessuno di noi immaginava che ne sarebbe uscito un incontro antropologico tanto ricco che il principale problema è diventato la difficoltà a mettervi un termine, da entrambe le parti. A quali condizioni? Mettere al bando i cortocircuiti della retorica democratica; riconoscere il pezzetto di Bush che cova in ciascuno di noi; prendere atto delle differenze, senza giudizio né pregiudizio; prendere atto delle affinità sostanziali, che affondano nel comune substrato corporeo ed emotivo: è questa la cosa più difficile, che parecchi rifiutano per autodifesa (non è comodo riconoscere una parte di sé nell'urlo di paura o di rabbia di un ragazzo di strada), ma è la via maestra di una vera doppia riparazione. E poi accettare che i tempi di questa riparazione sono lunghi e lenti e privi di esiti garantiti. Incommensurabili, in questo come in ogni altro campo, alla velocità delle distruzioni. Sono tutte cose che attirano sospetto e antipatia. L'accusa sulle coccole e le brioches fa il paio con quell'altra di aver creato un ghetto differenziale: da cui si evince che il plumbeo egualitarismo ha anch'esso alle sue radici un inconfessato desiderio di rimuovere il problema, e, più sotto ancora, i portatori stessi del problema nella loro invincibile diversità; che l'egualitarismo offre a tale desiderio la via d'uscita più igienica, seppellendo i diversi nelle istituzioni preposte all'eguaglianza. Cosicché se non ce la fanno si può dire con serena coscienza che la colpa è tutta loro. Il razzismo elimina i diversi, l'egualitarismo la diversità; noi rivendichiamo la diversità e i diversi, e le coccole e le brioches. Il pane è il nutrimento essenziale per la sopravvivenza fisica, le brioches sono il nutrimento spirituale per una vita umana. | << | < | > | >> |Pagina 246Camminare, parlareIl camminare è il risultato più importante, un parametro del successo per il nostro lavoro a Chance. Questa affermazione forse apparirà un po' bislacca a chi non ha presente l'antropologia dei miei vicini di casa, i sottoproletari napoletani. Intanto bisogna premettere che i suddetti sottoproletari napoletani, come del resto quelli di tutto il mondo, hanno oggi nei loro comportamenti una doppia determinazione: quella indigena e quella globale. Sui motivi globali per cui i ragazzi odierni hanno necessità di andare a motore anziché a piedi, e in genere non amano camminare, non mi soffermo - ma sarebbe molto utile farlo - sta di fatto che i motivi globali si sommano a quelli indigeni, aggravandoli: per cui, ad esempio, mentre un ragazzo di famiglia operaia o piccolo borghese, se non ha il motorino, si rassegna ad andare alla scuola superiore a piedi o coi mezzi pubblici, l'«indigeno» preferisce non andarci, se non si può accompagnare a qualche amico. Perché ha paura, per numerosi motivi. In epoca di motorizzazione forzata e aerei supersonici, misurare il terreno con i propri piedi continua ad essere la principale forma di presa di potere sullo spazio da parte dell'animale umano. Lo spazio misurato dalla famiglia abitante i ghetti napoletani (in particolare dalle sue componenti femminili) è in genere il quadrilatero casa-servizi sociali-ASL-carcere. Fuori da questo ci sono pochissimi luoghi da pensare come raggiungibili (questa volta con mezzi meccanici): quasi solo quelli di Padre Pio e Santa Rita. Le dimensioni di questi spazi si sono via via ristrette nel tempo: tutti conoscono le fotografie degli scugnizzi, appese dietro i tram, che andavano a fare i bagni a Mergellina: oggi questa padronanza dello spazio cittadino appartiene solo ai ragazzi del centro storico; per gli altri la mobilità è limitata dalle barriere della suddivisione militare del territorio, sorvegliata da occhi che tutto vedono. Questa situazione ha sviluppato negli abitanti raffinate capacità di avvistamento e decodificazione di segnali (rumori diversi di motori, modalità di abbigliamento, posture, ecc.) utili alla sopravvivenza in zone di guerra, a discapito però dei comportamenti esplorativi, curiosi, così utili invece alla crescita dei cuccioli e alla presa di possesso del mondo. Questa impostazione difensiva finisce per far percepire come pericoloso tutto ciò che non è decodificabile immediatamente all'interno di questo sistema, e induce ad adottare in risposta comportamenti aggressivi. La forte spinta emulativa degli adolescenti (unita alla paura) li spinge poi, quando escono dal ghetto, a farlo solo in banda motorizzata, in genere per scontrarsi con i ragazzi del ghetto a fianco. L'avere individuato il peso di queste barriere sulle possibilità di apprendimento dei ragazzi ci ha spinti ad una «didattica itinerante» progressiva, fuori rione, fuori quartiere, fuori città, fuori regione, fuori nazione, al termine della quale i ragazzi hanno constatato da soli di «aver imparato a camminare». Da qui la domanda (retorica?): posso chiedere al capo dell'istituzione scolastica di mettere il camminare tra i principali obiettivi raggiunti? Cammina? Parla? Si chiede ai genitori di un bambino di pochi mesi. La scimmia scesa dagli alberi ha padroneggiato il mondo camminando su due piedi e inventando il linguaggio, le due cose sono molto strettamente connesse, e noi lo abbiamo sperimentato in tutti questi anni. Si pensa la scuola come il «dentro» e la strada come il «fuori», i ragazzi che sfuggono alla scuola sono definiti dispersi (Dizionario etimologico, disperdere: «allontanare da una sede fissa, mandando in luoghi diversi»): questo fa pensare alla scuola e alla strada come due spazi da associare alla coppia di opposti chiuso/aperto. Luogo protetto, contenitore di attività strutturate la prima; spazio indefinito per libere e rischiose esperienze la seconda. Se però dentro la scuola si accolgono veramente i ragazzi, e se quando a scuola non vengono si va nel loro «fuori» a prenderli per mano (e così si innesca un percorso di vera conoscenza) allora si scoprono molte cose, e si può arrivare ad un rovesciamento della prospettiva: il territorio, la strada, appaiono come uno spazio claustrofobico, palcoscenico di copioni di vita rigidamente predisposti, e la scuola può diventare il luogo del cammino, di una strada da percorrere insieme, anche per incontrare tanti altri «fuori» diversi dal proprio. Da tutto ciò è nata la pedagogia itinerante, con un movimento pendolare dentro-fuori, nella quale la funzione rassicurante e protettiva è svolta principalmente dalle persone adulte, docenti ed educatori, in quanto depositari della fiducia e quindi accompagnatori autorizzati dei ragazzi lungo strade diverse da quelle della propria nicchia antropologica. Questa esperienza ci ha fatto via via scoprire ambiguità e complessità in quel binomio sicurezza-paura che tanto ossessivamente oggi rimbomba nelle nostre orecchie di cittadini. Il «dentro» antropologico dei nostri ragazzi è impregnato di paura: per la deprivazione di esperienze primarie positive; per la tonalità quasi sempre violenta della vita familiare (carcerazioni, droga, alcolismo, patologie mentali, abusi sessuali, ecc.); per lo stato di guerra latente o dichiarata imposto al territorio dal dominio totalitario dei sistemi criminali. Contemporaneamente, è anche fonte di sicurezza: perché è comunque il proprio spazio («Tutti noi ci teniamo stretti al posto a cui sentiamo di appartenere con certezza tenace e a volte anche cieca», Margaret Rustin): perché la famiglia, comunque essa sia, è la fonte primaria della sicurezza, e non può essere tradita; perché il linguaggio parlato dalle persone e dalle cose è il proprio linguaggio (non è stata considerata a sufficienza l'importanza che ha il linguaggio nel costruire il consenso impaurito della popolazione al potere criminale). Il linguaggio è la prima fonte della paura quando i ragazzi affrontano il «fuori», compresa la scuola: non solo perché la lingua della cittadinanza italiana è per loro una precaria, semi-estranea seconda lingua; ma perché cambia l'intero sistema dei segni, e le proprie capacità di decodificazione sono disattivate. Dentro la nicchia la conoscenza è basata sulla ripetizione dei copioni e sulla loro prevedibilità, comprese le sparatorie e le uccisioni, quasi sempre previste e pronosticate dalla narrazione collettiva. Fuori la conoscenza è esplorazione e scoperta dell'ignoto, che per tutti è fonte di paura: ma mentre nei percorsi conoscitivi normali la paura si accoppia al piacere, e porta lontano, nei nostri ragazzi diventa panico, e blocca il cammino.
In questo «fuori», quello della scuola e della polis, la
sicurezza è rappresentata da un gruppo di adulti educanti
che organizzano la scuola come spazio rassicurante, e
che accompagnano i ragazzi negli altri «fuori». Una
parte importante di questo cammino di conoscenza è
rappresentata dall'insegnare ai ragazzi a camminare a
piedi, che è la vera presa di possesso del mondo ignoto,
insieme al linguaggio. La protesi meccanica del motorino
copre con la sua potenza una tale fragilità che non è in
grado di violare nemmeno i confini dei quartieri, se
non in forma di banda organizzata per aggredire il quartiere vicino. Ho fatto
l'esperienza di un percorso formativo di tre anni con lo stesso gruppo di
ragazzi, che si è concluso con un viaggio-stage in Spagna. Nel bilancio
di questa esperienza fatto nel circle time alla fine del
percorso, per dare parola al sentimento di una autonomia
raggiunta un ragazzo disse «camminavamo, sudavamo,
e non mangiavamo»: camminare da soli (senza la prossimità fisica dei tutor) in
una grande città straniera; sudare, cioè accettare come proprio, senza
«scuorno», un corpo naturale al posto di quello standard, deterso,
profumato e rivestito secondo il dettato sociale; non
mangiare, cioè poter rinunciare a quel rifornimento
emotivo spesso coatto che ha accompagnato e sostenuto
tutto il percorso (a Chance diamo da mangiare ai ragazzi).
Tre azioni concrete, ma anche tre metafore della sicurezza conquistata.
|