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| << | < | > | >> |IndiceI. L'avvocata delle vertigini 11 II Ufficio del silenzio 55 III Il canto di Dio 91 |
| << | < | > | >> |Pagina 11 [ inizio libro ]| << | < | > | >> |Pagina 13Il sole di luglio allagava l'atrio. Attirato dalle grandi finestre, dardeggiava impietoso il pavimento di mattoni, i muri a calce, le pale: e ne cuoceva le croste. I santi, abbacinati, sospiravano alla Vergine, che grondava sudore sotto il pesante manto turchino, mentre sulle sue ginocchia, nudo, il Bambinello si abbronzava.«Professor Dominici! Ma che bella sorpresa! Lo sa che stavo pensando proprio a lei?». Aveva stentato a scorgerlo, dapprima, ché dalla sottile striscia d'ombra in cui stava rintanato spuntava appena il naso, solo tratto imponente della sua meschina figura. Monsignor Berlinghieri, in maniche di camicia, i capelli scompigliati da profeta irato, era, all'opposto, un pezzo d'uomo, e i suoi modi erano spicci ed esuberanti quanto incerti e circospetti erano quelli dei visitatore. | << | < | > | >> |Pagina 14Estrasse un piccolo in-quarto e lo levò al cielo, con liturgica solennità:«Legatura in pelle bazzana. Impressioni in oro sul dorso e sull'unghia, semplici e squisite. Tagli marmorizzati. Larghi margini. Esemplare freschissimo» recitò d'un fiato, quasi ne compilasse mentalmente la scheda bibliografica. Glielo porse: «Il Gallonio!» esclamò trionfante. «L'edizione del '91, nientemeno. E con tutte le quarantasei tavole del Tempesta». Dominici aprì il Trattato de gli instrumenti di martirio, e delle varie maniere di martoriare usate da Gentili contro Christiani, descritte et intagliate in rame, opera di Antonio Gallonio romano, e mentre il monsignore, a voce spiegata, cantava le lodi del libro e ne ripercorreva passo passo le peripezie editoriali, e diceva dell'autore, sacerdote della Congregazione dell'Oratorio, intimo del minimo servo del Signore Filippo Neri, e celebrava la pia Olimpia Orsini, duchessa d'Acquasparta, patrocinatrice dell'opera, e ricuciva la fitta trama di rapporti col Martyrologium Romanum, e faceva l'appello dei proseliti della Maniera che avevano coperto di tormenti a buon fresco le chiese di Santo Stefano Rotondo e dei Santi Nereo e Achilleo: Dominici, intanto, sfogliava il famoso Gallonio e assisteva con rassegnata partecipazione all'interminabile sfilata dei martiri, incisi per la contrizione dei peccatori e l'edificazione dei giusti dall'ancor più famoso Tempesta. Sospesi, stirati, torchiati, battuti, fustigati, crocifissi, grattati, scorticati, ulcerati, trapassati, mutilati, sconciati, smembrati, scannati, sventrati, scotennati, sboglientati in olle e lebeti, fritti in teglie e sartagini, abbrustiati sulla nuda brace e in gratella, schidionati e arrostiti a fuoco vivo, i santi martiri si esibivano su un palcoscenico gremito di attrezzi di scena e macchine teatrali, posando in audaci figure ginniche dinanzi a fondali architettonici prodighi di colonne, archi, scalee, templi, simulacri di dèi, edifici in rovina: emblemi, tutti, del paganesimo in agonia. Giovani, atletici, protetti appena, uomini e donne, da un leggero, svolazzante perizoma, si davano ai manigoldi con fiduciosa noncuranza, quasi con prodigalità. Anestetizzati dalla fede, gli occhi levati al cielo nella pregustazione dell'eterna beatitudine, non una smorfia di dolore ne sformava i visi placidi, ne tirava i nervi distesi, ne torceva le membra rilassate. | << | < | > | >> |Pagina 25Proprio così era fatto: come tutti coloro che nella vischiosa pasta della vita non intravedono alcun senso, Dominici un senso era risoluto a darglielo. Se il mondo era senza regole, toccava a lui scriverle. Era compito suo raddrizzare il corso sbilenco degli eventi. E di certo spettava a lui rimettere ordine nell'esistenza confusa della beata Isabetta, collegando gli effetti alle cause.Se l'avesse assistito la musa degli storici - che non è Clio, ripeteva spesso, ma Fortuna - allora avrebbe trovato il documento mancante e svelato il segreto della beata. Così, finalmente, se ne sarebbe liberato. | << | < | > | >> |Pagina 32Di crittografia antica Dominici aveva qualche cognizione libresca, ma nessuna pratica. Però non disperava di venire a capo del manoscritto. Se già qualcuno, nel Seicento, era riuscito a decifrarlo, come faceva fede la nota a margine, la chiave non doveva essere troppo resistente.Era immaginabile, e soprattutto da sperare, che i segni corrispondessero alle lettere dell'alfabeto. La difficoltà principale era costituita dai puntini sparsi tra segno e segno: da soli, in coppia, a gruppi di tre; verticali, orizzontali, a triangolo. Ce n'era una straordinaria varietà. Se li si collegava al segno che li precedeva o a quello che li seguiva, il numero dei simboli si dilatava a dismisura. Pur ammettendo che il vecchio crittografo avesse fatto largo uso di omofoni, cioè di più segni per una stessa lettera, e di nulle, ossia di segni gratuiti e ingannevoli infilati qua e là, ad arte, per intorbidare le acque, le combinazioni, in ogni caso, erano troppe. Dominici le pensò e le provò tutte. Forse il cifrario era uno dei primi a trasposizione, ma di che tipo: a griglia, come insegnava Cardano, a inferriata o a colonna? Forse si intrecciavano un alfabeto e un sillabario. O forse, diabolicamente, si alternavano due o più cifrari. E chissà se il senso di lettura era da sinistra a destra, dall'alto in basso, da cima a fondo o viceversa. Solo alla fine gli balenò il sospetto che i puntini non significassero niente, o quasi. Quando si rese conto - e non gli ci volle molto - che in piccola parte erano segni d'interpunzione e che gli altri erano stati seminati tra i quadratini, come loglio nel grano, al solo scopo di mettere fuori strada il decrittatore, si infuriò. Non con chi gli aveva teso quella trappola puerile, ma con se stesso, il merlo che c'era cascato. Gli ingombranti puntini erano in sostanza delle nulle. Se li si trascurava, i segni si riducevano a ventuno. Poiché la grafia del tempo includeva la «x» e non distingueva la «u» dalla «v», Dominici suppose, cogliendo nel segno, che il testo fosse in volgare. | << | < | > | >> |Pagina 52Non si muoveva foglia. Non un alito di vento soffiava dal mare, che ronfava beato. Non una nuvoletta né un riccio né un baffo bianco sporcavano il cielo. Era una sera di cristallo boemo. I vecchi profeti di sciagure, sgolati e insonnoliti, erano stati riconsegnati agli scaffali, e ai martiri come ai carnefici, affratellati dal torpore, pesavano le palpebre.Intanto, nella biblioteca deserta, sul manoscritto cifrato, stretto tra un graduale e un sepoltuario, sfarinava una nebbiolina pungente di polvere, e al tarlo in missione speleologica i vapori intossicanti dell'inchiostro facevano balenare il miraggio di un ultimo, inafferrabile testo, dietro la serie infinita dei suoi travestimenti. Berlinghieri pensava a Dominici, che rifaceva, curvo, la strada di casa. Il monsignore conosceva, di questa, solo il nudo atrio e lo studio, dove, negli anni, seduto su una vecchia sedia zoppa, dissepolta ogni volta da pacchi di scartoffie e pile di libri, aveva intrecciato con l'agiografo appassionanti e interminabili conversazioni. Qui lo immaginava, assediato da ogni lato da serrate e dilaganti schiere cartacee: o forse trincerato dietro baluardi sempre più inespugnabili.
Ne sbirciava i gesti usuali - afferrare un libro
in seconda o addirittura terza fila, estrarre una scheda tra
migliaia di consorelle, pescare un appunto in un mucchio
disordinato di fogli -, gesti che egli, seppur infastidito e
quasi afflitto dal disordine che regnava sovrano, doveva
per forza ammirare per la disinvoltura e la destrezza da
prestigiatore con cui Dominici si muoveva in quel caos
primigenio.
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