Copertina
Autore Miguel Mellino
CoautoreEdward Said
Titolo Post-orientalismo
SottotitoloSaid e gli studi postcoloniali
EdizioneMeltemi, Roma, 2009, Universale 54 , pag. 300, cop.fle., dim. 12,2x19x2,5 cm , Isbn 978-88-8353-652-6
CuratoreMiguel Mellino
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe scienze sociali , storia culturale , critica letteraria
PrimaPagina


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Indice


  7 Introduzione
    Riflessioni sul "voyage in" di Said:
    Orientalismo trent'anni dopo
    Miguel Mellino


    Parte prima
    Orientalismo: considerazioni ulteriori

 59 Teoria in viaggio
    Edward Said

 90 Altre considerazioni sull'orientalismo
    Edward Said

113 Teoria in viaggio: una rilettura
    Edward Said


    Parte seconda
    Orientalismo: limiti e prospettive

139 La sfida di Orientalismo
    Lata Mani, Ruth Frankenberg

166 Scrivere storie post-orientaliste del terzo mondo:
    alcuni spunti dalla storiografia indiana
    Gyan Prakash

206 Orientalismo e dopo: ambivalenza e matrice
    metropolitana nell'opera di Edward Said
    Aijaz Ahmad


288 Bibliografia


 

 

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Introduzione

Riflessioni sul "voyage in" di Said: Orientalismo trent'anni dopo

Miguel Mellino


(...) l'Oriente è assai meno un luogo che un topos. Edward Said , Orientalismo


Di qui va compreso cos'è la descrizione: essa si esaurisce nel rendere la qualità propria mortale dell'oggetto, fingendo (illusione per inversione) di credergli, di volerlo vivo: "fare vivo" vuole dire "vedere morto". L'aggettivo è lo strumento di questa illusione: qualunque cosa dica, per la sua sola qualità descrittiva, l'aggettivo è funebre. Roland Barthes , Barthes


Un sapere selettivo

È difficile cominciare a scrivere su Orientalismo senza ricorrere a una frase fatta, senza lasciarsi espropriare da qualche espressione di comodo. Come è noto, si tratta di uno dei testi più dibattuti negli ultimi trent'anni, anche se, va detto, al di fuori del mondo accademico e politico anglosassone il suo fascino è stato sicuramente minore e il suo impatto assai meno travolgente. Comunque sia, proprio a causa del suo grande seguito e della sua estrema popolarità a certe latitudini, Orientalismo rappresenta ormai una sorta di "testo collettivo che eccede di gran lunga il suo autore" (Said 1978, p. 328), così come l'orientalismo stesso è venuto a configurarsi nel dibattito corrente come qualcosa che sta a significare molto di più di un semplice fenomeno riguardante unicamente l'Oriente. In paesi come gli Stati Uniti, l'India e l'Inghilterra, per esempio, gli effetti delle sue analisi e delle sue posizioni — non solo sui rapporti storici e politici tra Occidente e Oriente, ma anche su questioni più generali come le connessioni tra sapere e potere, tra produzione della conoscenza e politica coloniale, tra rappresentazione dell'altro ed egemonia imperiale – sono stati davvero dirompenti all'interno di un insieme piuttosto eterogeneo di campi di studio e di discipline: dalla critica letteraria alla storia, dall'antropologia agli studi culturali, dalla critica d'arte agli area studies, dagli studi mediorientali alla teoria femminista. Inoltre, il modello teorico volutamente eclettico attraverso cui Said costruisce la sua visione dell'orientalismo (un patchwork composto da concezioni riprese da autori davvero dissimili come Michel Foucault, Erich Auerbach, Leo Spitzer, Antonio Gramsci, Claude Lévi-Strauss, Gaston Bachelard, Friedrich Nietzsche, Roland Barthes), nonché il suo costante accento sull'ubiquità, sull'estrema eterogeneità e pervasività del "campo d'azione del discorso orientalista" (capace di attraversare tanto le tragedie di Eschilo quanto gli scritti di Marx, gli studi degli orientalisti classici come Massignon e Renan e le ricerche filologiche di William Jones e di Friedrich Schlegel, la produzione letteraria di Dante, Carlyle e Flaubert e la pittura di Delacroix, le disposizioni di amministratori coloniali come Lord Cromer e Balfour nonché le concezioni di uomini politici come Napoleone e Henry Kissinger) hanno contribuito in modo decisivo sia alla nascita di nuovi approcci e campi di studio transdisciplinari, sia a un'ulteriore delegíttimazione politica dei saperi e dei confini disciplinari ereditati dalla tradizione umanistica. Una tradizione che il lavoro di Said, anche se in modo ambivalente, presenta come inscindibile dall'orientalismo stesso.

Da questo punto di vista, si può dire che in certi ambiti di studio l'estrema disseminazione di Orientalismo abbia contribuito a demolire in modo definitivo due dei pilastri fondamentali su cui le discipline accademiche tradizionali avevano costruito il loro edificio epistemologico, la loro legittimità accademica e il loro riconoscimento sociale. Dopo Orientalismo, infatti, è stato sempre più difficile affidarsi al concetto di cultura come a un comodo rifugio asettico e considerare la produzione del sapere come un campo autonomo dalle logiche di potere e dalle lotte politiche che attraversano l'intera arena sociale, come il frutto di volontà obiettive e disinteressate. In questo senso, appare indubbio che il testo di Said, mettendo a nudo la faziosità e la selettività dei saperi sedimentatisi lungo il tempo nei testi fondativi delle diverse tradizioni disciplinari, abbia dato il colpo di grazia definitivo tanto a ciò che rimaneva del mito della torre d'avorio dopo le lotte dei grandi movimenti anticoloniali e la straordinaria contestazione del Sessantotto quanto all'idea di autonomia e di eccezionalità culturale attraverso cui l'Europa aveva cercato di plasmare e legittimare la propria egemonia politica sul resto del mondo. Dopo Orientalismo, dunque, è diventato sempre più chiaro che

l'Europa non sarebbe stata, anzi non sarebbe potuta essere completamente se stessa senza la storia coloniale, e che l'idea antropologica di cultura è stata in gran parte prodotta dall'esperienza coloniale. Il colonialismo era cultura: una cultura emersa dal laboratorio coloniale come scienza e come strumento di governamentalità (Dirks 2002, p. 42; vedi anche Thomas 1992; Scott 1992).

Su questo punto il testo di Said, collocandosi in modo atipico sulla traccia aperta qualche anno prima dall'archeologia del sapere di Foucault, si presentava piuttosto schietto e diretto: nella storia dei rapporti tra Occidente e Oriente il sapere e la cultura hanno funzionato da sempre come dispositivi di controllo, di gerarchizzazione e di assoggettamento, come strumenti essenziali all'incorporazione differenziale delle popolazioni e dei territori orientali nel progetto imperiale occidentale. L'orientalismo, infatti, sarebbe stato impensabile come "scienza trasversale dell'annessione e del dominio" senza la complicità della conoscenza e senza potenti investimenti simbolici e materiali (oggi diremmo biopolitici) nel campo della cultura, nella produzione di soggettività (tanto in Oriente quanto in Occidente). Per questo gli effetti più destabilizzanti e disgregatori generati dalla comparsa di Orientalismo si sono verificati proprio in questi campi, ovvero si sono tradotti spesso nella decostruzione radicale – ma sarebbe meglio dire decolonizzazione – degli archivi storici, letterari e culturali dei saperi e delle principali istituzioni occidentali, nonché nella critica aperta alle pretese di rappresentanza politica e culturale avanzate dalle élite nazionali e imperiali nei confronti delle masse coloniali. Lo scopo della nostra raccolta, dunque, è quello di presentare al lettore una parte del dibattito suscitato dal testo di Said nel mondo anglosassone. Si tratta di un dibattito teorico, politico ed epistemologico piuttosto movimentato e tuttora in corso, poiché incentrato su interrogativi di vitale importanza per la produzione di pratiche teoriche e politiche oppositive e postcoloniali, ovvero di "pedagogie del dissenso" (Mohanty 2003) esclusivamente finalizzate all'emancipazione collettiva e quindi all'istituzione di un nuovo comune globale inteso come il frutto della cooperazione e dell'autonomia sociale. I testi qui raccolti appaiono tutti interpellati da una domanda cruciale: in che misura è possibile lo sviluppo di saperi post-orientalisti, e cioè non finalizzati all'espropriazione e alla segmentazione culturale, alla produzione di soggetti gerarchicamente differenziati in funzione delle esigenze degli Stati (nazionali e imperiali), del mercato e delle logiche dell'accumulazione capitalistica? In effetti, i tre saggi di Said che qui presentiamo, al di là del loro liberalismo e culturalismo di fondo, insistono sulla necessità di dare vita a saperi più liberi e autonomi, non-coercitivi o secolari (per riprendere il controverso termine dello stesso Said), meno recintati e inerziali rispetto a quelli attualmente egemonici. Si tratta sicuramente di scritti importanti, poiché ci sollecitano in modo davvero suggestivo a non lasciarci espropriare dal potere dei "saperi morti", da quella conoscenza capace di diventare doxa corporativa e istituzionale, veicolo di potere, di assoggettamento e di integrazione. Anche la critica aspra e frontale di Aijaz Ahmad a Orientalismo è sollecitata in parte dalla stessa esigenza. Come appare ovvio, il saggio di Ahmad, collocando sullo sfondo del grande successo di Orientalismo negli Stati Uniti fenomeni come la contro-offensiva globale del capitale transnazionale, l'ascesa egemonica del neoliberismo di Ronald Reagan e di Margareth Thatcher, il declino politico della sinistra marxista a livello mondiale, la sconfitta dell'antimperialismo più radicale degli anni Settanta, lo sviluppo di movimenti migratori profondamente classisti e selettivi dai paesi del terzo mondo verso le università angloamericane e la progressiva valorizzazione capitalistica dell'etnicità e della differenza all'interno di un mercato del sapere molto diverso da quello degli anni precedenti, non fa che rincorrere Said sul suo stesso terreno. Il testo di Gyan Prakash, un autore legato comunque al progetto collettivo indiano dei Subaltern Studies, ci offre invece preziosi suggerimenti su come pensare e scrivere "storie post-orientaliste dell'India", mentre il saggio di Lata Mani e Ruth Frankenberg, due tra le più note femministe postcoloniali, ci consente di avere una panoramica piuttosto esauriente delle obiezioni sollevate al testo di Said e quindi di tutte le difficoltà politiche ed epistemologiche inerenti alla costruzione di prospettive — critiche, storiche, antropologiche — davvero post-orientaliste.

Inoltre, è chiaro che il dibattito sulle possibilità e sulle condizioni di un sapere post-orientalista — libero, non-coercitivo, indipendente dalle logiche economiche del mercato e dai bisogni politici dello Stato, improntato unicamente alla produzione di un bene comune — può assumere per noi ancora maggiore rilevanza di fronte agli attuali tentativi di mercificare, di segmentare ulteriormente la conoscenza e la cultura attraverso la progressiva privatizzazione delle università in funzione delle esigenze di un capitalismo neoliberale ormai in crisi (Bousquet 2008, Puwar 2004, Mohanty 2003).


L'inconscio strutturale dell'Occidente

Tuttavia, ciò che colpisce di Orientalismo, al di là della sua indiscutibile influenza, è che sin dal momento della sua uscita nel 1978 è stato considerato da più parti come un testo non soltanto compromesso alla radice da difficoltà e contraddizioni teoriche ed epistemologiche praticamente insormontabili, ma soprattutto come un'opera politicamente ambivalente. In effetti, come nota Robert Young, negli ultimi decenni sono stati davvero pochi i testi capaci di sopravvivere a così tante recensioni, revisioni e valutazioni se non proprio negative comunque altamente problematiche. In questo senso, può risultare emblematico il fatto che l'attuale campo degli studi post-coloniali sia venuto a configurarsi come disciplina accademica proprio a partire dal convergere di una grande varietà di critiche, di obiezioni e di approcci alternativi emersi dal confronto diretto con il lavoro di Said (Young 2001, p. 384). Si tratta, però, di un'evenienza che, contrariamente a quanto sembra suggerire Young, non fa che confermare la natura, per così dire, "epocale" di Orientalismo. A questo punto, possiamo cominciare a delineare una delle prime tesi di questa breve introduzione: se sull'originalità di Orientalismo (determinata soprattutto dall'estensione dell'analisi strutturalista e post-strutturalista del linguaggio, in particolare della nozione di discorso di Foucault, al rapporto Occidente/altro-coloniale), così come sui suoi cosiddetti limiti epistemologici strutturali (dovuti in buona parte a un uso eccessivamente umanistico di concetti provenienti da prospettive poco consone con tale tradizione), è stato detto fin troppo, quasi nulla è stato scritto sugli aspetti meno "eccentrici", quindi sulle concezioni più "tradizionali", dell'impianto complessivo (verrebbe da dire "storico-metafisico") del testo. Da questo punto di vista, Orientalismo presenta una coerenza stupefacente, se per coerenza intendiamo semplicemente la riproposizione – benché in riferimento a questioni inedite e in modi non certo comuni rispetto al passato – di uno "schema storico-ideologico" generale ampiamente diffuso (pur se con mille varianti) all'interno della tradizione critica della cultura occidentale moderna. In effetti, dal punto di vista dell'architettura "esistenziale" del testo, Orientalismo può essere certamente considerato come una sorta di "genealogia di tipo nietzscheano", ovvero come il tentativo di rinvenire le origini di una "tradizione malata" (appunto l'orientalismo) costitutiva della stessa identità occidentale e del soggetto sovrano moderno.

Prima di proseguire, però, è utile chiarire che l'espressione "genealogia di tipo nietzscheano" va qui intesa in senso più "metaforico" che "letterale". Come più volte è stato sottolineato, nonostante i pochi ma comunque importantissimi riferimenti a Nietzsche presenti in Orientalismo, sia la prospettiva complessiva dell'opera sia le posizioni più generali espresse successivamente da Said nei suoi scritti teorici più densi – .cor The World, the Text and the Critic (1983) o Culture and Imperialism (1993) – vanno in una direzione tutt'altro che nietzscheana. Mediante tale espressione, dunque, intendo semplicemente sottolineare il carattere "genealogico" e soprattutto "diagnostico" del lavoro di ricostruzione svolto da Said (cfr. Clifford 1988, pp. 305-306; Varadharajan 1999, pp. 114-115). Sin dalle prime pagine di Orientalismo, infatti, Said enuncia gli obiettivi e la metodologia del suo lavoro in modi che ricordano da vicino la concezione nietzscheana del filosofo (in questo caso del critico o dell'intellettuale) come "medico", ovvero come "medico della civiltà" dedito all'accertamento della principale patologia della cultura e quindi alla formulazione di una "diagnosi" indispensabile alla ricostituzione esistenziale del genere umano (e dell'umanesimo, nel caso specifico di Said):

proprio qui sta il principale problema posto dall'orientalismo. Si può dividere la realtà umana, che sembra in effetti di per sé divisa, in culture, eredità storiche, tradizioni, sistemi sociali e persino razze diverse, e salvare la propria umanità dalle conseguenze? Con "salvare la propria umanità dalle conseguenze", mi riferisco alla possibilità di evitare l'ostilità implicita in una divisione di questo genere, come quella tra "noi" (occidentali) e "loro" (orientali) (Said 1978, p. 52).


In breve: Said propone il suo lavoro come un'indagine volta all'identificazione dell'orientalismo in quanto sintomo della malattia più profonda e angosciante della civiltà moderna occidentale, ovvero di ciò che "con la sua violenza (ontologica) costitutiva corrode alla base le sue pretese più nobili" (Vadharajan 1999, p. 114). Così, vogliamo qui sostenere che per Said l'orientalismo – inteso come un'"othering machine" (Spivak 1984), come una macchina identitaria che non sa procedere o auto-affermarsi se non attraverso la produzione di confini e di differenze gerarchiche tra il sé e l'altro – rappresenti una sorta di "inconscio strutturale" (per riprendere la nota espressione di Lévi-Strauss) del soggetto sovrano moderno. Questo riferimento alla nozione di Lévi-Strauss può apparire a prima vista problematico, dal momento che Said stesso chiarisce nel suo testo, prendendo decisamente le distanze da Foucault su questo punto, che l'orientalismo non è un "corpus di scritti anonimo e informe" (p. 32) o "un sistema discorsivo di natura impersonale", bensì il prodotto dell'agire umano e quindi di una particolare sedimentazione del lavoro concreto e originale di tanti singoli autori (p. 32). Tuttavia, come abbiamo anticipato, la teoria sull'identità contenuta in Il pensiero selvaggio (1962) è una delle risorse esplicite attraverso cui Said costruisce l'orientalismo come ciò che potremmo chiamare un potente "dispositivo identitario" di dominio e di segregazione dell'altro (non-occidentale). Non è questa la sede per approfondire-ulteriormente l'argomento. Diciamo semplicemente che in Orientalismo Said riprende alcuni concetti e ragionamenti di Lévi-Strauss soprattutto per rafforzare la sua concezione secondo cui ogni forma di identità è sempre negativa, nel senso che può costituire o affermare se stessa unicamente attraverso una sua particolare costruzione culturale e del tutto arbitraria dell'altro. In effetti, uno dei presupposti fondamentali su cui si fonda l'intera struttura metafisica di Orientalismo è che alla base di ogni identità c'è sempre un processo di differenziazione del sé dall'altro, che è íl risultato "di qualcosa di più che una conoscenza puramente obiettiva" (p. 62). Così, se Said sostiene nel suo testo che Oriente e Occidente non sono che il prodotto di una geografia esclusivamente "immaginaria", ciò dipende anche da una sua particolare interpretazione dell'idea di Lévi-Strauss secondo cui "la mente umana sembra tenacemente tendere a una 'scienza del concreto'"(p. 59).

la pratica universale di designare nella nostra mente uno spazio familiare "nostro" in contrapposizione a uno spazio esterno "loro" è un modo di operare distinzioni geografiche che può essere del tutto arbitrario. Uso qui il termine "arbitrario" perché una geografia immaginaria del tipo "nostra terra/terra barbarica" non necessita che i barbari conoscano e accettino la distinzione. È sufficiente che "noi" costruiamo questa frontiera nelle nostre menti, "loro" diventano "loro" di conseguenza, la loro terra e la loro mentalità vengono considerate diverse dalle "nostre". Così, in una certa misura le società moderne e quelle primitive sembrano costruire il loro senso di identità, per così dire, in forma negativa" (p. 60).

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Una conoscenza narcisistica e paranoica

In ogni caso, se abbiamo definito l'orientalismo di Said come l'inconscio strutturale dell'Europa è per sottolineare che nella sua concezione dell'imperialismo occidentale esso ci viene presentato, parafrasando Althusser, come una sorta di "causa assente". In effetti, nello schema di Said è stato l'orientalismo, attraverso la sua graduale metamorfosi storica da mero campo del sapere (accademico e testuale) a "disciplina di accumulazione sistematica di territori e di popolazioni" (p. 126), a trasformare progressivamente l'Oriente da semplice "esterno-costitutivo" (Laclau 1990) dell'Occidente a un (s)oggetto-altro separato, inferiore, arretrato, silenzioso, passivo, femmineo, estraneo ed esotico (Said 1978, p. 204), a gettare quindi le basi culturali di quei fenomeni di dominio e di violenza che sono stati al centro stesso della formazione e dello sviluppo della modernità capitalistica occidentale: del colonialismo, della schiavitù, dell'imperialismo, del razzismo, del nazionalismo, dell'antisemitismo. Secondo Said, infatti, la teoria della supremazia dell'uomo bianco e della sua whiteness non apparve né per caso né all'improvviso:

(...) sono il frutto di complesse circostanze storiche e culturali, tra le quali almeno due hanno molto in comune con la storia dell'orientalismo nel secolo scorso. La prima consiste nell'abitudine, culturalmente approvata, di operare ampie generalizzazioni, con cui suddividere la realtà in varie categorie – lingue, razze, tipi, pigmentazione della pelle, mentalità – ognuna delle quali esprimeva non tanto criteri neutrali, quanto interpretazioni valutative. A tali categorie è sottesa la rigida opposizione binaria "nostro" e "loro", dove il primo prevale sempre sul secondo, riducendolo a una mera funzione di sé medesimo; un dualismo cui diedero sostegno non solo l'antropologia, la linguistica e la storiografia ma anche, ovviamente, le ipotesi di Darwin sulla selezione naturale e sulla sopravvivenza del più adatto, nonché – non meno importante – la retorica di un sublime umanitarismo culturale (Said 1978, p. 225).

Sul modo in cui Said propone la sua visione dell'orientalismo come radice di tutti i mali della cultura occidentale, come tradizione (de)generatrice del soggetto sovrano moderno, ci concentreremo dettagliatamente più avanti. Per il momento, basta ricordare che per Said l'Oriente a) è una costruzione culturale dell'Occidente che precede l'incontro con l'Oriente reale e b) che "le due entità geografiche si sostengono e in una certa misura si rispecchiano vicendevolmente" (p. 15). L'Oriente, quindi, è stato l'altro per eccellenza dell'Occidente sin dal momento stesso della sua nascita: e non è un caso se Said rinviene le origini dell'orientalismo nella Grecia antica, nel luogo scelto dalla mitopoiesi umanistica come radice della propria filiazione, in cui "già all'epoca dei Persiani di Eschilo l'Oriente si trasforma in una specie di alterità assai distante e piuttosto minacciosa" (p. 29). Così, in una lettura assai psicologizzante, l'orientalismo appare a Said come un prodotto del rapporto di profonda aggressività e ostilità dell'Occidente verso l'Oriente, poiché l'obiettivo principale di questo "campo del sapere" è quello di controllare e di addomesticare l'Oriente in quanto insidia e minaccia destabilizzante del proprio sé (p. 66). Ed è proprio in virtù di questi presupposti che l'orientalismo non può che configurarsi come "una forma di conoscenza paranoica, profondamente diversa, per esempio, dalla normale conoscenza storica" (p. 78).

È in questo modo, dunque, che per Said alla base della costituzione del soggetto sovrano moderno, come nota in modo davvero efficace Meyda Yegenoglu, non vi è altro che la "mitologia bianca" (i discorsi orientalisti/coloniali su "noi" e gli "altri") dell'orientalismo; una mitologia che non è che l'effetto di quel lento e progressivo processo di distacco, di differenziazione, di espulsione (quindi di negazione) e di gerarchizzazione dell'altro-orientale (cfr. Yegenoglu 1998). Si tratta di un processo rimosso ma che deve essere continuamente ripetuto, poiché rappresenta l'atto di fondazione dello stesso soggetto occidentale, la fonte della sua autonomia e sovranità. Secondo Said, infatti, è proprio in questo modo che

"l'Oriente acquistò rappresentanze e rappresentazioni, ognuna più concreta, più adatta alle esigenze ideologiche occidentali, di quelle che l'avevano preceduta. È come se, una volta prescelto l'Oriente come entità atta a raffigurare l'infinito in forma finita, l'Europa non sapesse più fare a meno di tale espediente" (Said 1978, pp. 68-69, corsivo mio).

Ricapitolando, se nella prospettiva di Said "l'Oriente è un palcoscenico nel quale l'intero Est è stato confinato" (ib.), a consentire l'allestimento dell'intero spettacolo è stata l'irruzione sulla scena di una volontà di dominio, di sapere e di potere, malata e assolutamente disumana, che occorrerà "disimparare"' (da cui bisognerà disidentificarsi) se si vuole contribuire allo sviluppo di saperi e politiche post-orientaliste, ovvero all'invenzione di "nuove anime" (Césaire 1956), di "nuovi modi di esistenza immanenti" (per tornare al Nietzsche di Deleuze) e di nuove comunità (affiliazioni) cosmopolite capaci di andare oltre la logica dei confini e delle essenze culturali:

Ma ciò cui soprattutto spero di aver contribuito è a una migliore comprensione di come il dominio culturale ha potuto costituirsi e operare. Se questo servirà da stimolo per un modo nuovo di atteggiarsi rispetto all'Oriente, e ci avvicinerà al superamento della stessa dicotomia "Oriente"/"Occidente", potremmo, come dice Raymond Williams, "disimparare (...) l'inerente atteggiamento di dominio" (Said 1978, p. 36).

[...]

Diciamolo in un altro modo e con parole semplici. Orientalismo deve la sua "compattezza" – un aspetto del testo di cui si parla davvero poco nelle sue numerosissime recensioni e critiche – al fatto che è stato costruito sulla base di una "struttura metafisica idealistica", per riprendere l'espressione di Ahmad, ampiamente diffusa e condivisa, comune sia all' umanesimo che all' antiumanesimo tradizionali: la Grecia e il soggetto occidentale come fonte di ogni valore, delle qualità più sublimi inerenti alla stessa condizione umana (il cogito, la coscienza, la modernità, la civiltà, la critica, il progresso, l'uomo), la Grecia e il soggetto occidentale come fonte di ogni disvalore, delle finzioni più terrificanti e autodistruttive della storia dell'umanità (la storia, lo storicismo, la metafisica, la dialettica, l'origine, il fondamento, il pensiero identitario, la repressione degli istinti, il fallologocentrísmo, l'uomo).

Tuttavia, come è noto, Orientalismo è stato anche un testo originale e di rottura radicale. Tale originalità va ricercata soprattutto nella sua abile articolazione della critica al soggetto sovrano occidentale – il fondamento di quella "struttura metafisica idealistica" sia nella versione celebrativa dell'umanesimo che in quella denigratoria dell'antiumanesimo – con la questione coloniale, ovvero con la lunga vicenda di dominio e di sfruttamento degli altri non-europei. La tesi forte di Orientalismo, come abbiamo accennato, è che alla base della costituzione dell'Europa come qualcosa di diverso e di superiore rispetto al resto del mondo – e quindi dell'istituzione della Storia e del Soggetto (con la S maiuscola, per dirla con Althusser) – vi è la produzione di discorsi e di rappresentazioni (coloniali) sull'altro orientale e non-occidentale. Un potere di narrare e di rappresentare, afferma Said sin dalle prime pagine del suo testo, che si fondava sulla certezza del silenzio dell'Oriente, sull'impossibilità degli orientali di autorappresentarsi, e che era quindi il risultato di precisi rapporti di potere esistenti tra l'Europa e il resto del mondo: "L'Oriente è stato orientalizzato non solo perché lo si è trovato 'orientale', ma anche perché è stato possibile renderlo 'orientale'" (Said 1978, p. 15). Questo "decentramento geografico" del soggetto europeo operato da Orientalismo (una dislocazione spaziale dell'episteme occidentale di cui non era stato capace nemmeno Foucault nonostante la radicalità del suo approccio) non faceva che portare chiaramente alla luce, pur se attraverso numerose contraddizioni politiche e ideologiche, il carattere eurocentrico e imperialista sia dell'umanesimo (dello storicismo, della dialettica) che dell'antiumanesimo (della critica dello storicismo, della critica della dialettica) tradizionale europeo. Così, nonostante il residuo umanistico (e quindi eurocentrico) dell'opera e le tante ambivalenze teoriche dell'impianto, Orientalismo gettava le basi della critica postcoloniale, divenendo al contempo un testo epocale come pochi altri negli ultimi anni.

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Teoria in viaggio

Edward Said


Come le persone e le scuole di pensiero, le idee e le teorie viaggiano: di persona in persona, di situazione in situazione, di periodo in periodo. Molto spesso, è proprio questa circolazione di idee ad alimentare e a sostenere la vita intellettuale e culturale. Pertanto, si può affermare che il movimento di teorie da un luogo all'altro, consapevole o inconsapevole, sotto forma di appropriazione selettiva o integrale, sia al tempo stesso un fatto inevitabile della vita sociale e un modo di favorire l'attività intellettuale. Detto questo, però, dovremo cercare di individuare tali movimenti per chiederci se una certa dislocazione spaziale e temporale abbia rafforzato o meno determinate idee o teorie, o anche se idee e teorie emerse in un certo contesto storico e nazionale possano restare significative in altri contesti o periodi. Vi sono casi particolarmente interessanti di idee e di teorie che hanno viaggiato da un contesto culturale all'altro: possiamo ricordare qui, per esempio, il caso delle cosiddette idee orientali sulla trascendenza importate in Europa agli inizi del XIX secolo, oppure la traduzione all'interno di società orientali tradizionali di alcune idee sociali europee verso la fine dell'Ottocento. Questo inserimento in un nuovo ambiente non avviene mai in modo meccanico. Comporta processi di rappresentazione e di istituzionalizzazione necessariamente diversi da quelli che si sono verificati nel luogo di origine. E questo rende particolarmente difficile ogni spiegazione del trapianto, del trasferimento, della circolazione e dello scambio di idee e teorie.

Tuttavia, tali movimenti sembrano caratterizzati da un modello ricorrente chiaramente identificabile, ovvero vi sono tre o quattro fasi comuni nei vari modi in cui viaggiano spesso le idee o le teorie. Per prima cosa, abbiamo un luogo di origine, o qualcosa di simile, cioè un complesso di circostanze iniziali che costituisce l'ambiente in cui è nata o in cui ha fatto irruzione nel discorso una certa idea. In secondo luogo, vi è una distanza da percorrere, un passaggio attraverso la pressione di diversi contesti, poiché l'idea si sposta da un punto precedente a un luogo e a un periodo diversi dove acquisterà nuova rilevanza. Terzo, abbiamo un insieme di condizioni (dí ammissibilità o di rifiuto che siano) con cui l'idea o la teoria trapiantata deve fare i conti, che possono favorire la sua introduzione o accoglienza, per quanto estranea essa possa apparire. Quarto, l'idea ormai pienamente (o parzialmente) accettata (e incorporata) si mostra diversa rispetto al suo originale, a causa dei suoi nuovi usi e della sua nuova posizione in un nuovo tempo e in un nuovo luogo.

[...]

Geoffrey Hartman ha illustrato con efficacia questa situazione nella sua analisi delle tensioni e delle esitazioni che attraversano l'attività critica contemporanea. La critica contemporanea, ci dice Hartman, è radicalmente revisionista: "Ormai libera da quel decoro neoclassico che aveva prodotto, nello spazio di tre secoli, una prosa illuminata ma anche oltremodo conciliante", l'attività critica appare caratterizzata oggi da ciò che egli chiama "un movimento linguistico straordinario" (Hartman 1980, p. 85). In certe occasioni, questo "movimento linguistico" diventa talmente eccentrico da richiamare, o anche sfidare, la letteratura stessa; oppure può ossessionare i critici fino a spingerli verso l'ideale di un linguaggio "puro". O ancora, i critici scoprono che la "scrittura assomiglia a un labirinto, a un rompicapo topologico e a un cruciverba testuale; e il lettore, da parte sua, non fa che perdersi momentaneamente in un' 'infinitizzazione' ermeneutica capace di far apparire arbitraria ogni regola di chiusura" (p. 284). Si può anche dire che queste opzioni per il discorso critico rappresentino mero terrorismo, "un nuovo sublime o un nuovo tipo di trascendentalismo emergente" (p. 151), ma rimangono per il critico umanista sia il dovere di definire in modo più chiaro "il campo specifico delle scienze umanistiche", sia l'esigenza di dare concretezza alla nostra cultura contemporanea piuttosto che dissolverla in un'astrattezza spirituale (p. 301). Infine, Hartman conclude che viviamo in un'epoca di transizione, ma tale sentenza non sembra che un altro modo di dire (come egli fa d'altronde attraverso il suo titolo Criticism in the Wilderness) che la critica appare oggi sconnessa, esitante, sfortunata, patetica e improntata alla futilità, poiché il suo campo di riferimento sfida qualsiasi tipo di chiusura o di certezza.

L'esuberanza di Hartman – e non vi è dubbio che il suo atteggiamento sia in fondo esuberante – andrebbe vista alla luce della devastante osservazione di Richard Ohmann (nel suo English in America) secondo cui i dipartimenti di inglese non rappresentano che

uno sforzo discretamente riuscito da parte dei professori di ottenere certi benefici del capitalismo mentre se ne risparmiano i rischi, evitando deliberatamente di riconoscere i legami tra le modalità del loro lavoro e le dinamiche attraverso cui viene amministrata la società nel suo complesso (Ohmann 1976, p. 304).

Questo non significa che dobbiamo considerare i professori di letteratura come membri di un compatto fronte ideologico, benché il ragionamento di Ohmann sia per un certo verso corretto. Le divisioni al loro interno non possono essere ricondotte semplicemente a un conflitto tra vecchi e nuovi critici o all'egemonia di un'ideologia monolitica e ostile alla rappresentazione realistica, come afferma in modo del tutto fuorviante Gerald Graff. Se dei tanti argomenti usuali di dibattito ne prendiamo in considerazione soltanto quattro, noteremo che alcuni critici ci sembreranno all'avanguardia rispetto a certe questioni, mentre rispetto ad altre potrebbero apparirci decisamente conservatori:

1) La critica come disciplina, come umanesimo, come "schiava" del testo, coerente con l'univocità del testo, contro la critica come revisionismo e come forma di letteratura essa stessa.

2) Il ruolo del critico come professore e buon lettore: per proteggere il canone contro chi vuole sovvertirlo o sostituirlo con uno nuovo. La maggior parte dei critici di Yale è revisionista per quanto riguarda il punto 1), mentre appare conservatrice in riferimento al punto 2).

3) La critica come fenomeno scisso dal mondo politico/sociale contro la critica intesa sotto forma di metafisica filosofica, di psicoanalisi, di linguistica, o di qualche altra disciplina del genere, contro la critica come qualcosa che ha realmente a che fare con i campi "contaminati" della storia, dei media e dei sistemi economici. Qui la gamma delle posizioni è molto più ampia di 1) e 2).

4) La critica come critica del linguaggio (il linguaggio inteso come teologia negativa, come dogma privato, come metafisica astorica) contro la critica come analisi del linguaggio delle istituzioni, contro la critica come studio dei rapporti tra i linguaggi e gli elementi non linguistici.

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Foucault è un paradosso. La sua carriera rivela alla sua audience contemporanea un percorso straordinariamente avvincente il cui punto culminante è costituito dal suo recente personale annuncio (proclamato anche dai suoi discepoli per conto dello stesso Foucault) in cui sottolinea che nei suoi scritti non si occupa che dei rapporti tra sapere e potere. Grazie alla lucidità delle sue ricerche teoriche e pratiche, le categorie di pouvoir e savoir hanno fornito ai suoi lettori (sarebbe indecoroso non citare me stesso, ma vedi anche La police des familles di Jacques Donzelot) un efficace apparato concettuale per l'analisi dei discorsi di potere, in netto contrasto con la metafisica realmente astrusa che producono spesso gli allievi dei suoi principali avversari filosofici. Tuttavia, nell'opera del primo Foucault la forza teorica della sua prospettiva è rimasta per lo più implicita. Se si rileggono oggi Storia della follia o Sorvegliare e punire, non si può che restare colpiti dal modo in cui questi scritti contenevano già in sé i percorsi di quelli successivi; e tuttavia, si resta sorpresi del fatto che anche quando Foucault affronta il renfermement (internamento), ovvero la sua preoccupazione ossessiva, nell'analisi dei manicomi e degli ospedali, egli non si riferisce mai al potere in modo esplicito. Nemmeno qui troviamo volontè. Potremmo dispensare Le parole e le cose dell'accusa di aver tralasciato la questione del potere, adducendo che qui il soggetto dell'indagine di Foucault era la storia intellettuale e non la storia istituzionale. Ne L'archeologia del sapere vi sono qua e là indizi del fatto che Foucault sta iniziando ad affrontare il problema del potere attraverso una serie di astrazioni, di suoi surrogati: è per questo che egli parla di fenomeni come l'accettabilità, l'accumulazione, la conservazione e la formazione, ascrivendoli poi alla produzione e alle dinamiche degli enunciati, dei discorsi e degli archivi. E tuttavia porta avanti questo suo ragionamento senza dedicare un minimo di spazio alla questione dell'eventuale fonte comune della loro forza all'interno delle istituzioni, dei campi del sapere e della società stessa.

La teoria del potere di Foucault – a cui restringerò qui i miei interessi – è il prodotto del suo tentativo di analizzare dall'interno i sistemi di internamento vigenti, il cui funzionamento dipende in eguale misura dalla continuità delle istituzioni e dalla proliferazione di ideologie tecniche che giustificano tali istituzioni. Queste ideologie sono i suoi discorsi e le sue discipline. Nella sua concreta disamina di quelle istituzioni locali in cui vengono esercitati un simile potere e un simile sapere, Foucault è davvero unico e il suo lavoro resta straordinariamente interessante sotto ogni profilo. Come egli stesso ha affermato in Sorvegliare e punire, per poter funzionare il potere deve essere in grado di gestire, controllare e anche creare ogni minimo particolare: più scende nel dettaglio, più íl potere diventa reale, più il controllo produce unità gestibili, che generano a loro volta un sapere più efficace e onnipervasivo. Le prigioni, ricorda Foucault in un passo memorabile, sono fabbriche per la produzione di delinquenti, e la delinquenza non è che la materia prima dei discorsi disciplinari.

Con questo tipo di descrizioni e di osservazioni minuziose non ho alcun problema. E quando il linguaggio dello stesso Foucault diventa generale (quando egli sposta la sua analisi del potere dai particolari alla società in quanto totalità) che la sua magistrale svolta metodologica si trasforma in trappola teorica. Curiosamente, questo problema è un po' più visibile quando la teoria di Foucault esce dalla Francia e si sedimenta nel lavoro dei suoi discepoli di oltremare. Di recente, per esempio, l'opera di Foucault è stata elogiata da Ian Hacking come alternativa realistica alla prospettiva decisamente anacronistica e "romantica" dei marxisti progressisti (quali marxisti? tutti i marxisti?), ma anche in quanto alternativa risolutamente anarchica alle idee di Noam Chomsky, descritto in modo del tutto inadeguato come "un riformista liberale straordinariamente sensato" (Hacking 1981, p. 36). Altri scrittori, che del tutto giustamente considerano le analisi del potere di Foucault come una finestra aperta verso il mondo reale della politica e della società, finiscono però per fraintendere acriticamente molte delle sue affermazioni considerandole semplicemente come l'ultimo grido della teoria sociale. In ogni caso, l'opera di Foucault costituisce indubbiamente un'alternativa importante a quel formalismo astorico con cui egli stesso ha discusso in modo implicito, e molto dobbiamo al suo lavoro se lui e altri intellettuali specifici (contrapposti agli intellettuali universali) sono riusciti a sferrare una guerra di guerriglia di piccola scala contro alcune istituzioni repressive e contro il "silenzio" e la "segretezza".

Ma riconoscere questi suoi meriti non significa dover accettare la sua idea (espressa nei sui corsi sulla storia della sessualità) secondo cui "il potere è dappertutto", insieme a tutto ciò che comporta una prospettiva analitica sviluppata in un modo così semplicistico (Foucault 1976). Dal mio punto di vista, come ho anticipato, è stata la volontà di non incorrere nell'economicismo marxista ad aver portato Foucault a cancellare il ruolo delle classi sociali, dell'economia, delle insurrezioni e delle ribellioni nelle società prese di mira dalle sue analisi storiche. Supponiamo per un momento che le prigioni, le scuole, le caserme e le fabbriche siano state, come afferma Foucault stesso, davvero le fabbriche disciplinari della Francia del XIX secolo (poiché egli parla quasi esclusivamente della Francia) e che quindi siano state completamente dominate da un potere di tipo panottico: non vi furono delle resistenze? E perché, come ha notato in modo così tagliente Nicos Poulantzas nel suo L'état, le pouvoir, le socialisme, Foucault non analizza mai tali resistenze, che finiscono sempre per essere assorbite dal sistema che egli tenta di descrivere? I fatti sono molto più complicati, come un qualunque storico dello Stato moderno potrebbe facilmente dimostrare. Inoltre, per riprendere le critiche di Poulantzas, anche se accettassimo la visione secondo cui il potere è qualcosa di essenzialmente razionale, strategico ed efficace, qualcosa che funziona attraverso dispositivi, che nessuno detiene e che investe ogni singolo aspetto della società (come si afferma in Sorvegliare e punire), sarebbe corretto concludere, come fa Foucault (1975), che il potere si esaurisce nel suo stesso esercizio? Non è semplicemente sbagliato, si chiede ancora Poulantzas (1978), sostenere che il potere non si concentra da nessuna parte e che le lotte e lo sfruttamento (termini entrambi completamente tralasciati da Foucault) semplicemente non esistono? Il problema è che la nozione di pouvoir di Foucault può estendersi illimitatamente fino a comprendere ogni cosa, divorando qualsiasi ostacolo possa trovare sulla sua strada (le resistenze che suscita, le dinamiche economiche e di classe di cui si serve e si alimenta, le riserve che produce), neutralizzando il mutamento e mistificando la propria microfisica sovranità (Poulantzas 1978). L'affermazione di Hacking secondo cui "nessuno conosce questo sapere, nessuno produce questo potere" costituisce sicuramente un sintomo di quanto vaga possa diventare la concezione del potere di Foucault quando viaggia così lontano. Ma è anche ovvio che Hacking vuole portare il ragionamento di Foucault all'estremo per dimostrare che non abbiamo a che fare con un semplice seguace di Marx.

Difatti, Foucault ha una concezione spinozista del potere, che ha ipnotizzato non soltanto lui ma anche numerosi critici che vogliono andare oltre l'ottimismo della sinistra e il pessimismo della destra, ma che alla fine non fanno che giustificare la propria paralisi politica con un intellettualismo sofisticato. Questi critici si mostrano inoltre desiderosi di apparire al mondo più realisti, in sintonia con la società e con il potere, e soprattutto come intellettuali armati di un approccio storico e anti-formalista. Il problema è che la teoria di Foucault ha disegnato un enorme circolo attorno a sé, costituendo un territorio unico che ha finito per inghiottire lo stesso Foucault così come tutti i suoi seguaci. È certamente sbagliato affermare, come fa Hacking portando all'assurdo Foucault, che la speranza, l'ottimismo e il pessimismo siano dei semplici satelliti dell'idea di un soggetto permanente e trascendentale, poiché viviamo e agiamo quotidianamente in funzione di quelle cose senza riferirci tuttavia a un tale irrilevante "soggetto". Dopotutto, vi è una sensibile differenza tra Speranza e speranza, così come tra il Logos e le parole: non dobbiamo lasciare che Foucault vinca la sua battaglia confondendo queste cose e facendoci dimenticare che la storia si fa soltanto attraverso il lavoro, l'intenzione, la resistenza, lo sforzo e il conflitto, poiché nessuna di queste attività può essere silenziosamente assorbita dalle microreti del potere.

Vi è una critica ancora più importante da fare alla nozione di potere di Foucault, ed è stato Chomsky ad averla formulata nel modo più efficace. Sfortunatamente, la maggior parte dei nuovi lettori di Foucault negli Stati Uniti sembra non essere a conoscenza del colloquio avvenuto tra questi due intellettuali alcuni anni fa per la televisione olandese, e nemmeno della critica specifica di Chomsky a Foucault contenuta in Language and Responsibility. In principio, entrambi concordano sulla necessità di combattere la repressione, ma si tratta di una posizione che ultimamente Foucault ha trovato sempre più difficile da condividere senza chiarimenti ulteriori. In ogni caso, per Chomsky la lotta sociopolitica deve essere condotta avendo due obiettivi in testa: primo, "cercando di immaginare una società futura del tutto conforme a quelle che riteniamo essere le esigenze più importanti della natura umana", secondo, "analizzando la natura del potere e dell'oppressione nelle nostre società" (Chomsky 1979, p. 80). Foucault era d'accordo sul secondo obiettivo, ma non accettava affatto il primo. Dal suo punto di vista, qualunque società futura si possa immaginare oggi "non sarà che un'invenzione della nostra civiltà e un prodotto del nostro sistema di classe". Immaginare una società futura retta dalla giustizia non solo sarebbe un'attività limitata dalla falsa coscienza, ma resterebbe un progetto piuttosto utopico per chi come Foucault crede che "l'idea stessa di giustizia sia di fatto un'idea inventata e messa in funzione nelle diverse società in quanto strumento di un determinato potere politico ed economico oppure come un'arma contro quel potere" (cfr. Elders, a cura, 1974, pp. 184-185). Mi sembra che questo sia un esempio perfetto delle reticenze di Foucault a prendere sul serio le proprie idee sulle resistenze al potere. Se il potere opprime, controlla e manipola, tutto ciò che gli resiste non può avere il suo stesso valore morale, non può costituire semplicemente un'arma neutrale contro di esso. La resistenza non può essere al contempo un'alternativa antagonista al potere e qualcosa che dipende interamente da esso, tranne che in un senso del tutto metafisico e in ultima istanza banale. Anche se il compito può apparire a volte estremamente difficile, dobbiamo sempre stabilire una qualche distinzione: come fa Chomsky, per esempio, quando afferma che darebbe il suo appoggio a un proletariato oppresso se in quanto classe facesse della giustizia l'obiettivo primario della sua lotta.

L'inquietante circolarità della teoria del potere di Foucault rappresenta una forma di iper-semplificazione teorica a cui è difficile resistere, poiché, diversamente da tante altre generalizzazioni teoriche, essa viene formulata, riformulata e costantemente re-interpretata a partire da situazioni storiche "apparentemente" documentate. Ma occorre notare che per Foucault la storia è in ultima istanza testuale, o piuttosto testualizzata; un tipo di storia le cui modalità farebbero sentire a proprio agio uno scrittore come Borges. Gramsci, dal canto suo, troverebbe questo tipo di storia assai spiacevole. Avrebbe sicuramente apprezzato le finezze delle archeologie di Foucault, ma troverebbe assai bizzarro che esse non diano un minimo di credito, nemmeno simbolico, ai movimenti emergenti e che non considerino affatto le rivoluzioni, le contro-egemonie e i blocchi storici. Nella storia umana vi è sempre qualcosa che resta fuori dalla portata dei sistemi dominanti, al di là della loro eventuale pervasività, ed è questo, ovviamente, a rendere possibile i mutamenti, a limitare il potere nel senso di Foucault e quindi a minare alle fondamenta la sua teoria del dominio. Appare molto difficile immaginare che Foucault, diversamente da intellettuali come Chomsky o John Berger, possa impegnarsi seriamente nell'analisi di questioni politiche altamente conflittuali o in descrizioni del potere e dell'oppressione che abbiano l'obiettivo concreto di alleviare la sofferenza umana o di denunciare le speranze tradite.

Questa mia conclusione potrebbe sembrare piuttosto esagerata, ma resta comunque il fatto che le teorie di cui stiamo parlando possono diventare molto facilmente dei dogmi culturali. In effetti, presso i gruppi culturali, le corporazioni o le famiglie putative tipiche della vita istituzionale accademica esse acquisiscono piuttosto in fretta il rango dell'Autorità. Benché debbano essere assolutamente distinte da dogmi culturali più volgari come il razzismo e il nazionalismo, restano in ogni caso pericolose: poiché la loro specifica storia — ovvero l'antagonismo di cui furono portatrici al momento della loro irruzione storica — può cospirare contro la coscienza critica, convincendola del fatto che una teoria rivoluzionaria resta sempre rivoluzionaria, pregnante, sensibile alla storia. Lasciate a propri specialisti e accoliti, per così dire, le teorie tendono a erigere dei muri intorno a sé, anche se questo non deve significare che i critici devono ignorare le prospettive del passato o darsi disperatamente alla ricerca di vere novità. Misurare la distanza — spaziale e temporale — percorsa da una determinata teoria; registrare lo scontro con le resistenze che suscita o ha suscitato; muoversi in modo critico verso quel mondo politico più vasto in cui fenomeni come le discipline umanistiche o come i grandi classici dovrebbero essere considerati piccole sfere dell'impresa umana; tracciare una mappa del territorio specifico di tutte le tecniche della disseminazione, della comunicazione e dell'interpretazione; conservare una speranza modesta (forse ridimensionata nelle sue ambizioni) circa la possibilità di veder nascere una comunità umana non fondata sulla coercizione: se questi non sono imperativi, sembrano almeno opzioni attraenti. E che cos'è in fondo la coscienza critica se non la ricerca incessante di alternative?

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