Copertina
Autore Pier Vincenzo Mengaldo
Titolo Tra due linguaggi
SottotitoloArti figurative e critica
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2005, Saggi Arte e letteratura , pag. 124, ill., cop.fle., dim. 147x220x10 mm , Isbn 978-88-339-1586-9
LettoreLuca Vita, 2005
Classe arte , critica d'arte
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Indice


    Tra due linguaggi

  9 1. Vestibula artis

 78 2. Una primizia di Cecchi critico

 92 3. Officina ferrarese. Un omaggio a Roberto Longhi

119 Indice analitico

 

 

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Pagina 10

Lo studio presente verte dunque sulle descrizioni, ovviamente verbali, di opere figurative da parte di critici d'arte, e sugli strumenti stilistici relativi allo scopo. L'insieme si può definire con un termine particolare, cioè iponimo di «descrizione», e secondo una concettualizzazione particolare?

[...]

E ci sono opere che sommano alla loro intrinseca qualità qualcosa come un valore aggiunto: è il caso della mirabile Storia di Gombrich, riassunto o sintesi di tutta una tradizione, alla quale dunque mi sono appellato con particolare frequenza.

Per il resto, ho cercato di affrontare tutti i grandi protagonisti della critica d'arte di tre secoli, da Diderot a Lanzi, da Baudelaire a Burckhardt a Justi, da Fromentin a Longhi, da Panofsky a Gombrich, col relativo «contorno»; e comunque ho preferito lavorare in linea di massima non su corpora vilia ma su libri con cui avevo già una consuetudine di lettura: il che è stato, almeno nelle intenzioni, un modo di incrociare anche per questa via il discorso sui critici con le mie proprie esperienze figurative.

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Pagina 18

3. Qualche altro punto preliminare, in breve. Il discorso del critico d'arte è di norma un discorso che congloba, muovendosi fra loro, vari registri, a partire dal semplicemente informativo, e dunque presenta un tasso via via diverso di «relazione», argomentazione ecc.: è ovvio perciò che l' ékphrasis tenda comunque a emergerne come clou, anche nei critici più contenuti, quanto a densità stilistica, personalizzazione, sfruttamento «poetico» delle risorse della lingua. Essa quindi «stacca» non solo per il suo carattere di testa-a-testa con l'opera interrogata, ma anche in rapporto agli altri piani del discorso in cui è inserita. Il che emerge con particolare chiarezza quando, nella trattatistica antica e tipicamente nel grande Vasari (vedi Nencioni 83 sgg.) la descrizione, di per sé spesso vividissima, è immersa in un tessuto di narrazione biografica, anche insaporito di aneddoti o exempla. Si può dire che qui il critico può dimettere, anche se mai del tutto, quello «spirito di rinunzia» che secondo un grande filologo come Emil Norden (prefazione a Die antike Kunstprosa) distingue lo storico dall'«orgoglioso estetico».

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Pagina 21

4. Chi scrive pensa che in sostanza la critica d'arte moderna si muove nella forcella che s'apre fra la ritenutezza classica e obiettiva di Lanzi e la geniale, quasi spudorata libertà di Diderot, che della critica d'arte moderna può considerarsi forse il creatore («Diderot annexe la critique d'art à la littérature»: Starobinski 21). Categorizzando si può dire che questa nascita si dà, più o meno immediatamente, quando alle norme o regole sottentra il «gusto», quel «(buon) gusto» che ancora Winckelmann è finalmente subordinato all'imitazione degli antichi, della «bella natura» e dell'idea (cfr. parallelamente Algarotti 96: «il pittore idealista, che è il vero pittore, è simile al poeta, imita non ritrae; vale a dire finge con la fantasia e rappresenta gli obbietti quali esser dovrebbono con quella perfezione che si conviene all'universale e allo archetipo»; e vedi la famosa lettera di Raffaello al Castiglione). Quando insomma la divaricazione e il contrasto fra mimesi della natura o della realtà ed eídos, dominante dalla classicità al Rinascimento e oltre, cedono al concetto di originalità individua dell' ingenium (vedi eminentemente Panofsky IC); col che non dimentico interessanti riformulazioni del concetto di «mimesis» come già la pagina albertiana sulla specularità narcissica (46). In parallelo, non può esistere nella modernità, come già accennato, critica d'arte dei grandi professionisti senza l'affluenza dei grandi «dilettanti».

Tuttavia il mio scopo è quasi solo di accennare a una serie di universali o costanti, spero non asintotici, con ovvio sacrificio e della storia e delle caratterizzazioni individuali, che proprio nei maggiori si offrono comunque alla semplice serie delle citazioni.

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Pagina 30

8. L'opera d'arte, o meglio l'opera pittorica ricca e incisiva, non sollecita solo la vista, ma anche gli altri sensi (vedi del resto per uno di questi categorie affermate come «plasticità», «tattilità» ecc.), o li richiama analogicamente nell'immaginazione. A suo modo l'ha detto anche Stendhal 347, dopo aver rievocato per la prima volta la Sistina: «l'anima si sente agitata da sensazioni che non è abituata a ricevere attraverso l'organo della vista»; e vedi Brandi TG 103.

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Pagina 32

9. Non c'è dubbio che il discorso critico moderno sull'arte subisce, più che tendenzialmente, una torsione forte in senso soggettivistico: è sufficiente riandare subito a Diderot. Tuttavia l'io istituzionale del critico d'arte è, e non può non essere, un io metamorfico e mercuriale: qualcosa di simile diceva in generale, per aforisma, Schlegel 22: «Il critico è un lettore che rumina. Dovrebbe perciò avere più di uno stomaco». In questa opposizione, e nei modi via via di comporla o invece dichiararla, sta l'interesse della cosa. Forse molti critici d'arte vorrebbero, anche se raramente possono, proclamare con Nietzsche: «Che importa di me!» (Gaia scienza ecc.). Ma occorre anche dire che la proclamazione dell'io è un movimento, di forza uguale e contraria, contro quella dispersione del soggetto che si produce necessariamente nel critico, e soprattutto nel critico d'arte, alle prese con la pluralità e diversità dei suoi «oggetti», e con la pluralità dei dettagli che abitano in ogni oggetto.

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Pagina 60

15. «Siamo all'ultima scena». Hegel 1069, con formulazione lampante: «la pittura deve spingersi fino all'estremo stesso dell'apparenza come tale, cioè fino al punto in cui ogni contenuto diviene indifferente ed interesse principale diviene la creazione artistica della parvenza», e vedi pure Kant 321, Hegel 1099; ma prima ancora colui, tra i classici, che ha riflettuto più strenuamente sulle differenze fra arti della figurazione e letteratura, opponendosi alla mera identificazione classica di pittura e poesia (Orazio, Plutarco: «nient'altro che poesia muta»): Lessing nel Laocoonte, 98: «Ora, se la pittura, per mezzo dei suoi segni o dei mezzi della sua imitazione, che essa può collegare solo nello spazio, deve completamente rinunciare al tempo, le azioni, continuate, in quanto continuate, non possono essere tra i suoi oggetti, ma essa deve accontentarsi di azioni una accanto all'altra, o di semplici corpi, che con le loro posizioni fanno supporre le azioni. La poesia invece ...» (e vedi pure Winckelmann 97: «siccome nella scultura più che nelle altre due arti il bello è compreso in un solo momento ... »); vero però che discorrendo dell' ékphrasis per eccellenza, lo scudo d'Achille nell'Iliade, è lo stesso Lessing a osservare, 116: «Omero dipinge ... lo scudo non come uno scudo finito ma come uno scudo che diviene». Di qui le note posizioni dell'estetica moderna sull'astanzialità o presenzialità o ostensività (da intendersi naturalmente non come precedenti all'attività formativa ma come prodotto di questa) delle arti figurative, vedi ad esempio Formaggio 154 sgg., con citazione di Dufrenne, e appunto la ripresa del Laocoonte da parte di Lukács 480: le arti figurative non possono riprodurre «mai più di un unico istante» ecc. Ma ecco, d'accordo e non d'accordo con queste posizioni, il solito acutissimo Diderot SP 195: «Il pittore ha per sé solo un istante; non gli è concesso di abbracciare due azioni, e neppure due istanti diversi. Solo in certe circostanze, può richiamare un istante passato o preannunziare quello che seguirà senza scapito della verità e dell'interesse. Una catastrofe improvvisa sorprende l'uomo nelle sue funzioni; egli è in piena catastrofe, ma è ancora nelle sue funzioni», da integrare con 198, altrettanto stringente.

Per venire più direttamente alla nostra materia, è chiaro che l' ékphrasis si dà in un linguaggio, la lingua, per sua natura lineare, narrativo o discorsivo, che si svolge nel tempo, di contro all'astanza e alla compresenza degli elementi propri delle arti figurative - ma meno, ovviamente, in tanta architettura, da chiamarsi almeno «consequenziale», o ancor meglio «direzionale» (ma appoggiamoci alla geniale sintesi goethiana: «musica pietrificata»). Dunque il critico, come ho mostrato, può estrarre e valorizzare dal repertorio linguistico quei tratti, come la deissi o la sintassi nominale o l'elencazione se occorre protratta, che meglio possono dire quell'astanza o addizionalità (può anche, come indicato da qualche esempio, utilizzare l'avversativa per passare, marcando, ad es. dalla descrizione-descrizione alla descrizione-valutazione). Ma in linea generale non può che narrare il quadro o anche la scultura, facendo di necessità virtù, e cioè temporalizzando variamente l'opera figurativa (Baudelaire 88: «Un jour, un musicien ...», 298: «Ces gardiens de la mort sont coalisés ... Ce cauchemar s'agite ...»; Fromentin 127: «Autour du moribond on pleure»). Lo scudo di Achille...

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