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| << | < | > | >> |IndicePREMESSA 3 PREFAZIONE 5 INTRODUZIONE IL VOLTO DELL'ABISSO 7 CAPITOLO I WATER BABIES 15 CAPITOLO II IL DEMONE DEL BOP: "BIZZARRO COME WAYNE" 26 CAPITOLO III LA SAETTA DI NEWARK 36 CAPITOLO IV HARD DRINKING, HARD BOP (CON I JAZZ MESSENGERS) 53 CAPITOLO V I GRANDI VECCHI 61 CAPITOLO VI FIGLI DELLA NOTTE 68 CAPITOLO VII MILES SMILES 78 CAPITOLO VIII SANCTUARY 95 CAPITOLO IX MUSICA PER FILM CHE NON SARANNO MAI GIRATI 108 CAPITOLO X ESISTIAMO DA SEMPRE 115 CAPITOLO XI DANZATORI INDIGENI E AMICI DA FAVOLA 127 CAPITOLO XII VESTITI DI TUTTO PUNTO NELLA TEMPESTA 136 CAPITOLO XIII FIORI SELVATICI 149 CAPITOLO XIV JOY RYDER 162 CAPITOLO XV «RITIRA IL MANTELLO IN LAVANDERIA E VOLA, SUPERMAN!» 171 CAPITOLO XVI HIGH LIFE 177 CAPITOLO XVII SUPER NOVA 187 CAPITOLO XVIII PROMETEO LIBERATO 196 Note 209 Bibliografia 212 Ringraziamenti 213 Indice analitico 215 |
| << | < | > | >> |Pagina 7INTRODUZIONE
IL VOLTO DELL'ABISSO
Il 25 agosto 1991, giorno del suo cinquantottesimo compleanno, Wayne Shorter andò all'Hollywood Bowl di Los Angeles per assistere al concerto del suo ex bandleader Miles Davis. Quando s'intrufolò nel backstage per salutarlo, il leggendario trombettista chiese a tutti i presenti di uscire dal camerino. Fece il giro della stanza, si piazzò proprio di fronte a Wayne, gli posò le mani sulle spalle, e si mise a parlare di un argomento che non toccava quasi mai: la musica. Al termine della conversazione gli affidò una missione. «Sai, dovresti avere più visibilità», disse Miles con enfasi, scrutandolo nel profondo dei suoi occhi. Furono le ultime parole che gli rivolse, perché morì poche settimane più tardi. Miles sapeva che il genio di Wayne era sottovalutato. Per moltissimi anni aveva lavorato nelle formazioni altrui, esercitando un influsso sottile e quasi sovversivo sulla musica. Wayne seguì con convinzione il consiglio di Miles, e dopo essersi segnalato nel 2001 come leader del dinamico Wayne Shorter Quartet riuscì finalmente a ottenere qualche riconoscimento per il suo talento musicale. Nel 2003 il New York Times lo definiva «il genio definitivo del jazz, impareggiabile nella composizione, estremamente originale nell'improvvisazione». Ma l'oscurità era anche il prodotto della sua personalità schiva e bizzarra. Egli sostiene che la sfida di tutta la sua vita è stata imparare a «parlar chiaro». Di solito, quando nelle interviste esamina la propria musica, vanifica qualsiasi aspettativa di risposte dirette per compiere sbalorditivi salti immaginifici. Può collegare al contempo il suo lavoro a un film di Arnold Schwarzenegger e alla filosofia buddista che pratica da trent'anni. Come sostiene il suo amico ed ex compagno d'avventure Chick Corea, «forse è stato Wayne a inventare l'idea di pensare fuori dagli schemi, perché non credo che abbia mai trovato schemi». Per chi pensa che i commenti obliqui e mistici di Wayne siano affettati scoprire la sua schietta cordialità può rivelarsi sorprendente. Un mio amico, dopo averlo conosciuto, mi ha detto: «è un tipo davvero divertente», come se fosse riuscito a vedere al di là dell'atteggiamento da "uomo sulla luna" del personaggio pubblico. Wayne è spassoso e divertente. La sua sagacia e i suoi giochi di parole si sono affinati in quarant'anni di barzellette sulle automobili. Durante uno degli ultimi tour, qualcuno tirò fuori l'argomento dell'attrazione brasiliana per il bunda, il sedere. Veloce come il fulmine, Wayne si mise a scherzare: «laggiù hanno il cosiddetto garage biposto. Solo per carrozzerie ampie...». E andò avanti con una divagazione osé che a furia di risate fece venire le lacrime agli occhi ai membri della band. Ma spesso le battute e il linguaggio colorito e spiritoso si prestano a meditazioni più cosmiche. Il senso dell'umorismo rappresenta per lui una salvezza. Nell'ottobre del 2002, a Seattle, fu organizzato un incontro con alcuni studenti di musica, che rivolsero delle domande a Wayne e al suo quartetto. Una di loro chiese ingenuamente se preferisse esibirsi nelle sale da concerto o nei locali, in America o all'estero. «Non fa nessuna differenza dove suoniamo», rispose, «lasciarsi ingannare da queste cose equivale a permettere all'ambiente che ti circonda di avere il controllo su tutto. Alla fine scapperai via da tuo marito e cercherai di andare altrove. E se pensi davvero di poter andare altrove è bene che tu sappia che sulla tua valigia sta seduto un gattino che muove la coda e che ha già pianificato il tuo viaggio. Quel gatto si chiama Karma». In quasi tutte le interviste che ho fatto agli amici più intimi di Wayne, ho sentito raccontare di un momento in cui il fumettista cosmico ha detto qualcosa di sconcertante che in seguito, in tempi difficili, si è rivelata d'aiuto. Quelli che, conoscendolo meglio, dovrebbero aver fatto l'abitudine alla sua gravità metafisica, sono anche coloro che rimangono più colpiti dalla sua profondità. «Viviamo in un'epoca di decadenza, mi ha detto Joni Mitchell, «ma non Wayne. Lui continua a salire». Carlos Santana ha dichiarato di riuscire a pensare a Wayne soltanto come a un'«entità». Herbie Hancock ha illustrato il modo in cui la sua saggezza influenzi la musica: «in quanto essere umano Wayne Shorter si è evoluto a tal punto da essere in grado di sintetizzare tutta la storia del jazz in un'unica espressione musicale di grande peculiarità e vitalità. Nessun altro sa farlo oggi». Il mio primo incontro con Wayne è stato denso di frustrazioni e illuminazioni. Inviata a seguire l'apertura del tour del 2001 con la sua nuova band, gli chiesi come avesse selezionato il repertorio per i concerti. In tutta risposta mi chiese «fra i tuoi ricordi ricorrenti, qual è il più vecchio? Perché quello è il rasoio di Occam!». Oh-oh., pensai, mentre formula teorie sulla soluzione più semplice tra quelle conosciute al dilemma ontologico, come posso ottenere le informazioni di cui ho bisogno per il mio articolo? Ma qualche ora dopo, mentre stavo per addormentarmi, ricordai il mio primo momento di consapevolezza. «Ed eccomi insieme a mia sorella. Lei sale su per le scale, un passo dopo l'altro, con le scarpe slacciate». Capivo che si trattava di non dare il mondo per scontato e del bisogno di narrare gli eventi, anche solo nella mia testa. Immagino che questo, secondo la logica di Wayne, significhi che dovrei fare la scrittrice. Alla fine del 2002, quando acconsentì a collaborare a questa biografia, mi disse che avrebbe convinto a parlare con me amici e colleghi perplessi dando queste referenze: «Michelle è originaria del Kansas, ma ha sbattuto tre volte i tacchi ed è finita a Oz insieme a me». Era chiaro: collaborare col Mago Wayne avrebbe richiesto qualche incursione in territori inesplorati. Una mattina andai a trovarlo a casa sua, a Miami, per raccogliere materiale per la biografia, come avevamo concordato. Entrai dalla porta principale e oltrepassai un mobile in cui erano infilati cinquanta scatoloni neri e piatti che contenevano le sue partiture: tutto il lavoro di una vita da compositore. Wayne si trovava nello spazio polivalente che definisce la "stanza dei divertimenti": studio, ufficio e sala d'incisione. Indossava la sua maglietta preferita, la T-shirt azzurra di Superman senza maniche, ed era seduto alla scrivania a revisionare meticolosamente una composizione, con una penna in una mano e una boccetta di bianchetto nell'altra. Stava componendo dalle sei del mattino, come al solito. Lavora al mattino, e a volte la giornata comincia con la sveglia alle tre. E va avanti tutta la giornata. Ripete spesso che vuol visionare le diverse versioni delle partiture delle sinfonie di Beethoven, e quel giorno, come sempre, si esercitava a riprodurre la perseveranza compositiva del grande compositore tedesco. Sembrava condividere con lui anche la sordità: la televisione sparava a un volume insostenibile un servizio della MSNCB sull'Iraq. Ero pronta a mettermi all'opera, ma lui aveva altre idee in mente. «Ehi, che ne pensi se non facessimo nulla di quello che dovremmo fare oggi?», mi chiese con un luccichio negli occhi. Quell'uomo di quasi settant'anni mi sembrava un bambino precoce che cercava di convincermi con la sua parlantina a non mandarlo all'asilo. Ma io ero preparata. Così passammo ore a guardare film, a leggere brani dai suoi libri preferiti e a chiacchierare. In sostanza, mi stava mostrando il suo processo creativo. Sua moglie Carolina svolazzava dentro e fuori dalla stanza come un angelo del focolare, fresca e aggraziata nel suo ampio abito di lino bianco, la pelle arrossata per aver lavorato al Buddhist Florida Nature and Culture Center, che si trova nei dintorni. Ci portò uno spuntino a base di frutta e soda al guaranà, una bevanda dietetica brasiliana. Niente latte e biscotti, perché Wayne è perennemente a dieta, anche se a volte si concede qualche strappo. La cultura cinematografica enciclopedica di Wayne è nota, e la sua vasta collezione di videocassette, Dvd e Laser-disc riempie la stanza dei divertimenti. Non c'è spazio qui per la sua collezione di libri, che trabocca invece da una libreria del soggiorno e da parecchi mobili nella stanza da letto. La biblioteca comprende opere di narrativa, filosofia, scienza, fantascienza e ben cinque edizioni di The Water Babies, il primo libro che ha letto e che ha stimolato il suo interesse nei confronti degli "universi paralleli". Wayne apprezza in particolare i libri ricchi di metafore sontuose e immaginifiche, dalla trama ambiziosa, equivalenti letterari della sua musica. «Non trascuro mai la fantasia», afferma, «quando ho finito di comporre, nella mia stanza dei divertimenti, penso al prossimo libro che leggerò. Mi metto a guardare la copertina e attacco la prima pagina, e così comincio a leggere dieci libri alla volta». Intrattiene un dialogo costante con film e libri, alla continua ricerca di mondi alternativi in cui vivere. Quando è solo inventa dei giochi, come tenere la mano sollevata con il palmo di fronte al viso, fingendo che sia un lupo mannaro venuto a prenderlo. Altre volte si preme con un dito la pancia da solo, come se il dito fosse un minuscolo prode all'assalto di un enorme, terribile mostro. Oppure sbatte volutamente contro i muri, tentando di attraversarli come un bambino che non ha mai smesso di credere alle favole. | << | < | > | >> |Pagina 26CAPITOLO II
IL DEMONE DEL BOP: "BIZZARRO COME WAYNE"
In una sera memorabile, l'interesse di Wayne per i film e le arti visive fu rimpiazzato da una vocazione più profonda. Scoprì uno stile musicale che catturava la velocità e il mistero di quei "mondi altri" soltanto attraverso il suono. Ascoltava spesso il programma radiofonico preferito da suo padre, il popolare Make Believe Ballroom condotto da Martin Block sulla WNEW di New York. Block faceva ascoltare Fletcher Henderson, Noble Sissle, Tommy Dorsey, Bing Crosby, Virginia O'Brien, Doris Day, Billie Holiday, Louis Armstrong, Claude Thornhill, Kate Smith: una miscela di stili popolari, anche se il fulcro dell'estetica di Block era simboleggiato dalla sigla del programma, un brano Swing eseguito dalla big band di Glenn Miller nel 1940. Alla metà degli anni Quaranta, Make Believe Ballroom registrava il venticinque per cento dell'audience radiofonica, e Block poteva praticamente decidere il successo di un disco includendolo o meno nelle sue playlist. Una sera, cautamente, quasi scusandosi, introdusse nel programma un tipo di musica sensibilmente diversa: «signore e signori», disse, «ci piacerebbe provare qualcosa di diverso, stasera. Ascolteremo un nuovo stile musicale, sta a voi decidere se vi piace. Lo chiamano... bebop». Quel sound fu una rivelazione per Wayne. «Fece ascoltare Off Minor di Thelonious Monk, poi qualcosa di Charlie Parker, poi Bud Powell», racconta, «mi si rizzarono le orecchie, deve essersi accesa una lampadina, perché non ero affatto appassionato di musica. Sembrava che quella musica riflettesse almeno in parte ciò che stava succedendo, e anche quello che non stava succedendo. Quello che alcuni speravano accadesse». Quando il bebop entrò a far parte del vocabolario di Wayne, improvvisamente sembrava che la musica fosse dappertutto. Non riusciva a evitarla. Nel 1947 Herman Lubinsky trasferì la sua influente etichetta discografica, la Savoy Records, al 58 di Market Street, nel centro di Newark. La novità portò alcuni musicisti bebop nel quartiere, e quella musica si sentiva nell'aria in tutta la città. «C'erano i ragazzi più grandi che gironzolavano fuori dalla scuola, i nullafacenti», ricorda, «erano un po' più grandi, avevano diciannove o ventun anni, parlavano di cose fichissime, e se ne stavano all'angolo della strada come un chiosco per le informazioni. Se gli passavi davanti, se ne uscivano dicendo: "hai mai sentito parlare di Charles Christopher Parker?", oppure: "hai mai sentito Dewey Davis?". Invece di scambiarsi i soliti insulti, si scambiavano riferimenti musicali per vedere chi era più imbranato. Se non sapevi cosa rispondere, voleva dire che ti avevano beccato». Per sopravvivere a queste conversazioni Wayne ascoltava alla radio Symphony Sid Torin, un dj che trasmetteva a mezzanotte e si rivolgeva a un pubblico jazz di nicchia. L'orientamento di Symphony Sid era chiaramente espresso dalla sigla del programma, Jumpin' with Symphony Sid un pezzo bebop composto da Lester Young. «Symphony Sid era unico: aveva una voce profonda, e parlava sempre nel gergo hipster, sottolineando così che era in rapporti stretti con i musicisti», racconta Wayne, «una sera arrivò in studio ubriaco. Era stato al Dixieland con Basie e disse: "in effetti non vorrei essere qui ora. Mi stavo divertendo troppo con Basie". Poi fece: "alcuni hanno deciso di prendere la linea A' e non sono più scesi. La band di Duke Ellington è rimasta sui binari, ma Prez è sceso, Bird è sceso"». Con questo suo nuovo interesse per il jazz, sentì la necessità di mettersi anche lui a suonare. «Per prima cosa mi procurai una Tonette, un piccolo flauto di plastica con otto fori», ha raccontato, «lo pagai un dollaro, e sembrava un sottomarino». La Tonette arrivò sul mercato nel 1938: uno strumento resistente, simile al flauto dolce ma con il timbro caldo di un flauto traverso. Nel 1941 oltre la metà delle scuole secondarie statunitensi l'avevano adottata come strumento standard per l'istruzione musicale, e le radio e il cinema l'utilizzavano per produrre nuovi effetti speciali. «Imparai a suonarla da solo», racconta, «alteravo le note, cioè coprivo a metà i fori per ottenere un suono diverso, o per suonare i semitoni. Me la tenevo nella tasca posteriore dei pantaloni e la tiravo fuori quando non c'era nessuno. Ma non mi ero reso conto che il suono rimbalzava sui muri, così mia madre sapeva sempre dov'ero: apriva la finestra e mi sentiva suonare mentre girovagavo per strada. Ecco cosa sarebbe utile per proteggere i bambini. Lo slogan potrebbe essere: "la Tonette, la salvezza dei bambini, il nemico dei molestatori". E se suonavi una certa nota potevi lasciare senza vita il tuo assalitore. Non ci sarebbe stato bisogno di prendere fiato per un'altra espirazione, perché lo avresti steso al primo colpo». | << | < | > | >> |Pagina 36CAPITOLO III
LA SAETTA DI NEWARK
C'è un mito duro a morire secondo cui i grandi artisti rivelano il loro genio al mondo dopo aver scoperto il loro talento creativo, come dei supereroi resi miracolosamente più potenti dai loro costumi. E c'è anche una diffusa convinzione, erronea, secondo cui i grandi artisti creano con poco sforzo. Molti anni dopo, Wayne esaminò alcune bozze delle partiture di Beethoven. «Conosci la Quinta?», mi ha chiesto, «ne ha fatte sedici versioni, con note cancellate, eccetera. Era taa, ta, poi ta, ta taa... ci furono moltissimi tentativi pieni di errori prima di arrivare a quell'eccitante ta-ta-ta taaa!». Le revisioni della partitura erano una conferma per gli anni di duro lavoro. Trascorse gran parte degli anni Cinquanta perfezionando le sue capacità compositive e la sua tecnica strumentale, e correndo su e giù per New York divertendosi un mondo. Prima ancora di poter iniziare questo lavoro, al college, Wayne dovette guadagnarsi i soldi per pagare le lezioni. Nell'autunno del 1951 cominciò a lavorare come magazziniere allo stabilimento della Singer, l'azienda di macchine da cucire, a Elizabeth, New Jersey, dove era impiegato suo padre. Trascorse un anno a trasportare carrelli di rocchetti da un reparto della fabbrica all'altro. Alla fine dell'estate successiva, Wayne aveva messo da parte duemila dollari: con l'aiuto dei genitori, aveva abbastanza soldi per cominciare l'università. Si iscrisse alla New York University nell'autunno del 1952, come studente di musica e frequentò tutti i corsi richiesti per la specializzazione. «Scelsi storia della musica, un corso in cui si studiavano le dodici tribù d'Israele, San Francesco, e tutte queste cose nei loro passaggi attraverso l'Europa. Nel college si tenevano parecchi corsi di storia della musica, che si intensificavano nell'ultimo anno in vista dell'esame finale. La storia della musica veniva usata come un barometro per capire a che punto eri come persona in generale, la tua comprensione globale della cultura e della musica». Studiò inoltre pianoforte, dimostrando la sua abilità in The Star-Spangled Banner e nell'aria settecentesca Drink to Me Only with Thine Eyes. Per i corsi di armonia e orchestrazione, svolgeva i compiti a casa con un approccio sperimentale. Già esperto nel bebop, Wayne aveva orecchio per suoni altri. «Quando frequentavo le lezioni di musica alla NYU, i professori mi assegnavano dei compiti e mi dicevano: "se vuoi sperimentare, fallo nel tuo tempo libero e fuori dalla classe. Quando sei in classe, devi farli come devono essere fatti". Ma alcuni di noi, nelle esercitazioni, riuscivano a infilarci comunque quello che volevano. E loro, non sapendo esattamente cosa non andava perché riuscivamo a camuffarli ben bene, dicevano: "questo è sbagliato". Pensavano sinceramente che fosse sbagliato. Ma non sapevano cosa succedeva nella mia testa...». Con un'eccezione, però: la professoressa di armonia moderna, Modena Scoville, una progressista dall'orecchio acuto. «Diceva: "forse non è corretto, ma va bene. So che ti infili nella metropolitana e fai tutte queste cose". Prendevamo la metropolitana e sperimentavamo. "Ehi, perché non spostiamo questo do diesis qui, e facciamo comunque delle quarte perfette?", perché dicevano che non potevamo farlo. E allora cercavamo di nasconderle. Ma quell'insegnante le trovava sempre. Ogni volta». La Scoville lo incoraggiò a mescolare stili diversi, ma gli disse che doveva conoscerli. Si mise a lavorare a un'opera intitolata The Singing Lessons, la storia delle gang di italiani che vedeva nei dintorni del campus, nella zona sud del Greenwich Village. Smise di lavorarci al terzo anno. «Sentii che Leonard Bernstein stava facendo una cosa intitolata West Side Story e pensai: ci tornerò su un'altra volta». Wayne cominciò a scrivere altre composizioni e canzoni. Non diede loro un titolo da subito. In seguito le avrebbe chiamate Nellie Bly, Ping Pong, Hammer Head e Sincerely Diana.
Inoltre, suonava nell'orchestra del college, la qual cosa, a suo parere, non
era certo un segno di distinzione: «il direttore del dipartimento di musica
chiamò chiunque a parteciparvi, tutti gli studenti di musica. Sapevano che
l'orchestra avrebbe lavorato duramente e avrebbe portato soldi alla scuola,
facendo da mascotte, sostenendo le partite di football e le parate. Una specie
di bandiera vivente che sottolineasse i successi della scuola». Poiché studiava
educazione musicale, non ricevette lezioni formali di
sassofono al college. Quel tipo di studio si svolgeva nei locali. I migliori
musicisti jazz possedevano tecniche strumentali più che adeguate per gli
standard dell'istruzione classica.
«Miles Davis mi raccontò che gli chiesero di eseguire il triplo colpo di lingua
all'esame per entrare alla Juilliard», racconta Wayne, «non appena capì cosa
intendevano, lo eseguì come niente fosse e passò l'esame». Studiava performance
strumentale al di fuori dell'orario delle lezioni, al Birdland e al Café
Bohemia, conducendo una doppia vita, da studente e da frequentatore dei jazz
club, dove teneva d'occhio i musicisti che si esibivano.
«Prendevo l'autobus e altri due treni per andare alla NYU», ricorda, «poi stavo
in giro fino all'una o alle due del mattino nei locali di New York e tornavo a
casa verso le tre. Dopodiché mi alzavo alle sette per andare al college. E lo
facevo tutti i giorni».
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