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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Mario Draghi VII Ringraziamenti IX Introduzione XI 1. La propaganda 1 2. Il sacro e il profano 44 3. Corruzione e speculazione 70 4. Il motore della rivoluzione 97 5. Il motore dello sviluppo 129 6. Paure e crisi finanziarie 153 7. Dittature e totalitarismi 180 8. Una moneta per l'Europa 220 Bibliografia 267 |
| << | < | > | >> |Pagina 1La moneta come uno spot. Per la propaganda, per la popolarità, per il consenso, ma soprattutto per conquistare il potere. Il più abile nell'uso spregiudicato di questo mezzo fu Giulio Cesare, che lo utilizzò come uno strumento decisivo nella sua politica. Uno strumento potente, come è oggi la televisione. Il dittatore, che curava ogni particolare della sua immagine e, modernissimo anche in questo, era maniacale perfino nei dettagli stilistici, fece coniare per tre volte la propria effigie perché le linee del volto impresse sulla moneta non lo soddisfacevano. «Mi invecchiano», diceva. Il suo assassino, Bruto, proclamò urbi et orbi il delitto che avrebbe cambiato il corso della storia con lo stesso metodo di Cesare: utilizzando la moneta. La faccia del tirannicida, impressa sul denaro con i pugnali e la scritta EIDIBUS MARTIIS (le idi di marzo), facendo il giro dell'impero annunciava, come un notiziario della CNN, il nuovo ciclo politico. Il culto della personalità è stato l'elemento comune ai grandi dittatori dell'antichità, e la moneta è stata il veicolo per alimentarlo. La globalizzaziorie della politica passava allora attraverso il denaro. I greci, gli egiziani e i persiani potevano sentirsi un unico popolo, suddito di Alessandro Magno, perché usavano la stessa moneta. E su quella moneta era impressa la faccia del giovane re guerriero, fiera e imperiosa, a ricordarglielo. La forza della moneta è anche nella sua immortalità, come uno spot che ha successo anche se non pubblicizza un prodotto, ma, raccontando la storia e i suoi protagonisti, funziona perfino duemila anni dopo. I cittadini di Napoli e quelli di Gand, per esempio, si sentivano parte di un tutto perché usavano lo stesso dischetto d'oro, questa volta con l'effigie dell'austero Asburgo, l'imperatore Carlo V.
La moneta rende il potere universale: una funzione che non perderà mai più.
Alessandro Magno Pella, 4 settembre 336 a.c. Due uomini camminano a fianco a fianco lungo le strade strette e non lastricate della vecchia capitale macedone. Uno è un quarantasettenne alto, vigoroso, con la pelle bruciata dal sole, una folta barba ben curata, il portamento deciso del condottiero. Indossa una tunica bianca e l'ampio mantello scarlatto del sovrano e del comandante. L'altro è un ventenne con il viso pallido e imberbe, la chioma lunga e un corpo esile coperto da una leggera tunica completamente bianca. Questo ragazzo dalla pelle chiarissima ha un'aria quasi efebica, ma il suo sguardo tradisce la sua vera natura, fiera e sicura: la natura di un conquistatore. Sono Filippo II, re di Macedonia, e suo figlio Alessandro. I loro cuori sono gonfi di gioia: si sono finalmente rappacificati dopo un lungo periodo di furiose incomprensioni. E poi, in quella fresca giornata di settembre, è stato celebrato un matrimonio importante per Filippo, per la sua Macedonia, per la pace di quella terra aspra e incantevole: lo sposalizio tra il re dell'Epiro, zio materno di Alessandro, e la figlia prediletta di Filippo. | << | < | > | >> |Pagina 70«Il valore del denaro dipende dal futuro.» Non sbaglia, nella sua asciutta sintesi, il filosofo Vittorio Mathieu quando, nella Filosofia del denaro, descrive un aspetto del potere dei soldi legato al tempo: evocare ricchezza, eventuale e potenziale, spesso solo transitoria. Avere fede di riuscire a muovere il mondo, sino al precipizio dell'illusione. La fiducia nel denaro, proiettata ossessivamente nel futuro, è l'attrazione dell'uomo per il sogno, per la speranza, per un progetto che può anche coincidere con un'intera esistenza. In questo vortice di ambizioni e di emozioni, di aspettative e di azzardi, il denaro è come un fantasma. Può apparire e scomparire alla stessa velocità. E il cerino del disincanto, al momento opportuno, resta spesso nelle mani degli ingenui, degli sprovveduti e dei creduloni, secondo la liturgia, immersa nei corsi e ricorsi della finanza, della speculazione. Diceva Nicholas Kaldor, economista inglese: «La speculazione finanziaria è quel comportamento volto allo scambio di beni o di valuta al fine di ottenere in un certo intervallo temporale una variazione favorevole di prezzo non giustificata né dall'uso diretto dei beni, né da loro trasferimenti su differenti mercati...» Secondo il filosofo tedesco George Simmel, invece, «la speculazione significa il denaro che compra altro denaro». E i protagonisti del rito consumato sul filo del lascia o raddoppia chi sono? «Uomini che lavorano contro i loro concittadini, e non ne provano alcun rimorso, pesti pubbliche!» tuonava indignato Louis-Sébastian Mercier, scrittore francese a cavallo tra Sette e Ottocento. «Trafficanti che comprano e vendono ciò che non esiste», sentenziava Viviane Forrester nella sua bibbia contro il capitalismo selvaggio, L'orrore economico. Ma anche «tessitori invisibili che stabilizzano e ravvivano i mercati pur assicurandosi enormi guadagni», secondo Milton Friedman, premio Nobel per l'economia nel 1976.
Nulla diventa più labile del confine tra il bene e il male nel gioco
perverso della speculazione. Nulla è più precario, per singoli uomini e per
intere nazioni, della ricchezza conquistata incrociando moneta e tempo, e
puntando alla roulette delle previsioni. Come dimostrano le storie esemplari di
personaggi che hanno, nel corso dei secoli, incarnato la potenza abbinata
all'evanescenza del denaro.
La famiglia Van der Burse Bruges, 6 novembre 1511. In una fredda mattina d'autunno Sint Joris Straat brulica di gente che pare avere il diavolo in corpo. Tra grida e spintoni, ricchi commercianti, orefici e cambiavalute, banchieri e fannulloni cercano di entrare nell'antico palazzo della famiglia Van der Burse. I signori arrivano scendendo dalle loro carrozze dal lato di Bursemarkt, il popolo a piedi da Sint Joris Straat. Ma appena gli uni e gli altri infilano il grande portone, le differenze di classe spariscono davanti alla comune sete di guadagno. L'uomo di corte e l'uomo di chiesa, l'uomo di legge e il soldato, il marchese e l'artigiano, il mercante e l'avventuriero dimenticano, sotto i portici dell'ampio cortile, ogni distinzione di rango e di casta per trattare azioni in uno sfrenato gioco speculativo. | << | < | > | >> |Pagina 129La moneta come motore dello sviluppo, strumento per la crescita economica e civile di popoli e nazioni. All'affermazione di questa dimensione moderna del denaro si dedicò, per tutta la vita, John Maynard Keynes. Sarà stato perché aveva fatto in tempo a vedere i disastri di ben due guerre mondiali e a capire, da genio qual era, che le cause di sofferenze, drammi e genocidi erano anzitutto economiche. Le guerre venivano provocate per potere e per soldi. I paesi vincitori si appropriavano delle ricchezze e delle speranze di quelli vinti. E, dal giorno dell'armistizio, i potenti di turno cominciavano a ragionare sul momento più adatto per fare una nuova guerra. Il che non dava altro risultato che un crescente impoverimento collettivo, nonché una decadenza dei destini planetari. A vantaggio di pochi paesi, di poche economie, di pochi uomini. Keynes aveva capito, molto prima di chiunque altro, che il mondo avrebbe avuto uno sviluppo più equilibrato, più diffuso, più giusto, solo se fosse stato realizzato un nuovo ordine, fondato su princìpi di cooperazione e di complementarietà tra tutti gli Stati, tra tutte le economie. E sapeva che questo nuovo ordine avrebbe avuto un senso solo se fosse partito dal formidabile catalizzatore della moneta. Era quella la fonte dello sviluppo, altrimenti avrebbe continuato a essere la musa ispiratrice delle guerre. Serviva, insomma, un nuovo ordine monetario internazionale. E non solo: tutti i governi avrebbero dovuto concorrere a incrementare le proprie economie, intervenendo direttamente sulle cause dello sviluppo e se necessario utilizzando di nuovo la moneta. Una tesi troppo moderna e coraggiosa per un mondo dominato dagli interessi dei vincitori, dei banchieri e degli speculatori: ecco perché nessuna delle idee di Keynes si realizzò durante la sua vita. La rivincita dell'uomo che aveva provato a spingere il mondo un passo più avanti arrivò dopo la sua morte, nel marzo del 1946. E fu una rivincita clamorosa. L'intero ciclo di espansione economica del secondo dopoguerra fu consumato, in tutto il mondo occidentale, nel nome delle teorie keynesiane. Ancora oggi, quando la congiuntura è negativa e i governi hanno bisogno di individuare nuovi interventi per favorire la ripresa, l'oracolo che viene consultato è quello di John Maynard Keynes. Il sacerdote di una moneta che crea ricchezza e benessere, e non solo facili guadagni per pochi e paura d'inflazione per tanti.
Si avvera così quello che proprio lui predisse, a metà degli anni Trenta,
nella sua
Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta:
«Gli uomini di potere si illudono di decidere tutto da soli, ma in realtà sono
schiavi di qualche economista defunto: nel bene o nel male utilizzano senza
accorgersene idee messe in giro da altri, diventando poco più che strumenti per
la loro diffusione».
Jobn Maynard Keynes Oceano Atlantico, 19 giugno 1944. Una brezza, fresca e odorosa di salsedine, scompiglia i lunghi capelli di Lydia raccolti in un morbido chignon. Lei sta ascoltando, immobile, il marito. Lui legge ad alta voce una novella di Edgar Allan Poe. Sono due eleganti signori inglesi, vestiti di tutto punto e con indosso un grosso salvagente. Il che li rende, forse, un po' ridicoli. Fa una certa impressione, in quei giorni prossimi all'estate, incontrarli agghindati in quella strana foggia mentre passeggiano sul ponte della Queen Mary. Non sono lord e lady Keynes, vestiti convenzionalmente per un ricevimento, un'opera, un balletto o una conferenza. Non sono il più grande economista vivente e la sua incantevole moglie, ballerina di fama. Sono semplicemente due esseri umani attrezzati come lo stato di emergenza richiede. Molti dei passeggeri della grande nave riferiranno poi che vederli così, in quella strana, surreale intimità, fu un'esperienza preziosa e indimenticabile. Quello non era il primo viaggio di John Maynard Keynes oltreoceano. Nonostante la sua salute fosse sempre più incerta, non si era risparmiato nelle sue visite a Washington. Sapeva di dover preparare al meglio la conferenza di Bretton Woods, un'assemblea che avrebbe cambiato le sorti dell'umanità e rappresentato il punto d'arrivo del suo lungo e travagliato percorso di uomo, di economista e di inglese. La Gran Bretagna era arrivata alla guerra spossata, costretta a dar fondo in pochi mesi a tutte le sue riserve valutarie. Il paese era in ginocchio, i prezzi salivano sempre di più, i principali beni di consumo erano razionati, le fabbriche producevano a fatica quello che serviva alle forze armate. Tutte queste cose pesavano sulle spalle malferme di Keynes. Non si era risparmiato, dunque, e a Washington cominciava a sentirsi di casa. Era entrato nell'alta società locale statunitense, diventando amico delle famiglie più influenti, dai Lippman agli Acheson. Tutti erano stregati dalla sua personalità e dalla grazia di sua moglie, sempre al suo fianco. E ora, in quelle lunghe giornate di navigazione che lo separavano dalla storia, Keynes sentiva il peso di quell'estenuante negoziato, ricordava ogni passaggio delle sue animate discussioni con Harry Dexter White, assistente del ministro del Tesoro americano Henry Morgenthau. | << | < | > | >> |Pagina 220È durato più di mille anni il sogno di una moneta universale, capace di unire popoli e razze del vecchio continente. In principio fu Carlo Magno, un re coraggioso quanto aggressivo, a imporre in tutta l'Europa occidentale un unico sistema monetario destinato a durare fino alla Rivoluzione francese. Un sistema, anche in questo antesignano dell'euro, con un rapporto di cambio fisso, che doveva essere rispettato in tutte le zecche: una libbra d'argento per duecentoquaranta denari. Poi toccò a Napoleone, che annunciava «la pace e la prosperità dell'Europa sotto un solo capo». E con una sola moneta, il cui simbolo non a caso era l'aquila in volo del Sacro Romano Impero. La battaglia di Waterloo chiuse non soltanto la parabola di uno dei più famosi generali della storia, ma anche la sua ambizione di governare da Parigi un intero continente.
Ma laddove hanno fallito Carlo Magno e Napoleone, il sogno si è trasformato
in realtà dopo la «magica notte» del 31 dicembre 2001, quando l'euro è arrivato
nelle nostre tasche. Una moneta con molti padri: dai fondatori dell'Europa,
Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, agli ostinati difensori
contemporanei della moneta unica, da Jacques Delors a Carlo Azeglio Ciampi.
Uomini pronti a battersi, con la forza delle loro convinzioni, per un progetto
politico, l'Europa unita, il cui simbolo e presupposto è ancora una volta una
moneta: l'euro.
Carlo Magno Paderbon, 18 luglio 799. Nel cuore della Sassonia, dove la corte del re carolingio è andata, nell'oscura selva di Teutoburgo, a cercare un po' di sollievo dalle pietre infuocate di Aquisgrana, si consuma un incontro che cambierà le sorti del mondo. Un papa debole e impaurito si inoltra nelle foreste del Nord per cercare la protezione di un grande sovrano. All'arrivo di Leone III, Carlo va ad attenderlo sulla spianata davanti al palazzo. Il papa appare sull'altura in sella a una mula bianca. Attraversa lentamente le schiere di soldati in ginocchio davanti alle loro tende. Pallido e minuto, è tanto sfinito da doversi reggere al collo della bestia, disfatto dalle fatiche del viaggio e delle sventure. Troppe, per le fragili spalle di quel piccolo uomo.
Carlo lo aiuta a scendere dalla cavalcatura e lo stringe, singhiozzante,
tra le braccia. In quel momento l'anziano re rivede una scena impressa per
sempre nei suoi occhi di bambino. Quando, più di quarant'anni prima, il papa
Stefano II, traversando coraggiosamente il Gran San Bernardo, era arrivato a
Ponthion dove l'attendeva Pipino il Breve, re dei franchi, accompagnato da sua
moglie Berta «dal gran piè» e dai due figli. Uno di quei bambini era lui. Era il
753, l'anno in cui gli occhi di Carlo guardarono spalancati una scena
straordinaria: quell'uomo, indifeso e potentissimo, giunto da paesi ignoti e
lontani, si stava consegnando nelle mani di suo padre. In quel pallido mattino,
illuminato dal sole di gennaio, un'emozione rimase sospesa nell'aria,
sui boschi bruni, tra i fumi dell'orizzonte.
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