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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione alla seconda edizione La nuova frontiera dell'imperatore: se il mondo civile non avesse confini, il terrorismo scomparirebbe 7 Introduzione La Guerra del Golfo: la paura e i suoi confini 21 Parte I Una modernità mutilata 1 Paura dell'Occidente straniero 33 2 Paura dell'imam 43 3 Paura della democrazia 63 4 La Carta delle Nazioni Unite 83 5 Il Corano 99 Parte II Concetti sacri e ansie profane 6 Paura della libertà di pensiero 109 7 Paura dell'individualismo 129 8 Paura del passato 140 9 Paura del presente 157 10 Il canto delle donne: destinazione libertà 177 Conclusione Il Simorgh siamo noi! 201 Note 205 |
| << | < | > | >> |Pagina 33Gharb, la parola araba che traduce Occidente, indica anche il luogo dell'oscurità e dell'incomprensibile, che mette sempre paura. Gharb è il territorio di ciò che è strano, straniero (gha-rib). Tutto ciò che non capiamo ci fa paura. "Essere estraneo, straniero" in arabo ha una connotazione spaziale molto forte, essendo gharb il luogo dove il sole tramonta e dove l'oscurità incombe. È in Occidente che la notte addenta il sole e lo inghiotte; quindi tutte le cose più terrificanti sono possibili. È là che la gharaba (stranezza) ha preso dimora. Quando mia zia Halima introduceva nei suoi racconti del venerdì sera una persona di nome Gharib, l'estraneo, mio cugino 'Aziz mi tirava le trecce e io tiravo quelle di Mina; improvvisamente facevamo fatica a respirare e smettevamo di masticare i ceci tostati. Realizzavamo istintivamente che sarebbero accadute delle cose terribili nel tranquillo salotto della nostra vecchia zia. Nel gharb tutto viene divorato dall'oscurità. Non si riesce a vedere più nulla; ci si deve fidare degli altri sensi per intuire cosa si muove, cosa potrebbe essere pericoloso. Il luogo del tramonto è sempre un luogo distante, diverso da dove noi viviamo. È anche il territorio della notte. In arabo, "corvo" si dice ghurab, e porta sfortuna perché il suo colore annuncia la cecità. Il territorio del tramonto è anche il territorio della lontananza, di ciò che è altrove. Il Maghreb è il paese del tramonto. Nelle Mille e una notte i maghrebini usavano la magia e tutto ciò che l'islam proibisce. Il nome accettato per il Marocco è al-maghrib al-aqsa, l'estremo Occidente. All'interno della comunità araba, noi maghrebini siamo percepiti dalla gente di al-mashriq (il luogo dove sorge il sole), come essenzialmente sospetti; vivendo vicino ai confini con il mondo cristiano, apparteniamo al territorio di frontiera. E forse a causa del nostro retaggio berbero, perché prima della conquista araba parlavamo una lingua diversa e avevamo culti e riti diversi? O forse perché Tangeri si trova a poche miglia soltanto dalla Spagna? È perché prima della scoperta dell'America l'Atlantico era considerato la fine del mondo? Ma la differenza esiste comunque, e avrà la sua importanza nel momento in cui al mondo arabo si chiede di democratizzarsi e di fare esperienza dei suoi vari elementi, intendendoli come ricchezze da scoprire. Quando un francese dice "les Maghrébins", sta dicendo semplicemente "stranieri".
Ma soprattutto, "strano", "straniero" è un concetto spaziale. Per
proteggersi da ciò che non si comprende, è necessario erigere delle barriere. La
Guerra del Golfo ha insegnato agli arabi almeno queste due lezioni: primo,
nessun confine ci può più proteggere dal
gharb;
e secondo, dato che abbiamo un certo grado di
vulnerabilità, tanto per cominciare, il terrore che ci assale diventa
insopportabile; affrontare ciò che ci impaurisce e comprenderlo è l'unica
reazione possibile. Siamo stanchi di avere paura. La medina e i suoi abitanti
hanno finalmente deciso di cambiare le regole basilari del gioco: dobbiamo
capire, per non sprofondare. Non dipende dall'Occidente straniero comprenderci;
dipende da noi comprendere l'Occidente. Siamo ben attrezzati per l'operazione:
milioni di arabi parlano le lingue dell'Occidente e sono intimamente familiari
con le sue idee, culture e sogni; altri milioni di arabi vivono nei suoi vari
paesi e possono rifletterli a noi.
Fino a ora gli arabi si sono preoccupati dei confini, della loro singolarità -
di ciò che li ha distinti. Ora stanno semplicemente cercando di vedere come è
fatto l'altro. Perché l'Occidente è così forte, e perché noi siamo così deboli e
vulnerabili? Senza dubbio, la democrazia e il rispetto per l'individuo e i suoi
diritti vengono riconosciuti come il segreto della forza occidentale. La
ricerca di questi ideali è emersa negli slogan delle masse che hanno marciato
nelle strade di Algeri, Tunisi e Rabat per protestare contro la guerra e i
bombardamenti di Baghdad. I marocchini che marciarono per la pace il 3 febbraio
1991 cantavano:
Ma sa'alunash! Ma sa'alunash! Al-qarar qararnat Ma sa'alunash! Ma sa'alunash! Non ci hanno consultato! Non ci hanno consultato! La decisione è nostra! Non ci hanno consultato! Non ci hanno consultato! Quando le masse gridano il loro desiderio di democrazia, la paura entra nei corridoi del potere blindato. Coloro che hanno il controllo sul qarar (potere decisionale) cercheranno naturalmente di trasferire la paura ancestrale dell'Occidente all'idea stessa di democrazia, quella strana e affascinante figlia che l'Occidente ha aiutato a venire al mondo. Identificare la democrazia con una malattia occidentale, rivestirla del chador dell'estraneità, è un'operazione strategica che vale milioni di petrodollari. Questo piccolo libro avrà raggiunto il suo obiettivo se sarà riuscito a indicare alcune delle tecniche usate in questa operazione, inclusa la manipolazione della paura, che si realizza sovrapponendo ansie antiche a quelle moderne. È un'operazione complessa perché si costruisce su elementi emotivi imprevedibili come la speranza, il desiderio e la promessa del piacere, e la paura del dolore. La moschea e il satellite, il peccato e la Coca-Cola, il ritiro spirituale e i conti bancari. Ecco qui la sofisticazione più orientale, dove uno può sperare di tutto tranne che di avere delle semplici risposte. Puoi scegliere i colori che vuoi, tranne il nero e il bianco. Visto che l'Occidente costruisce la paura come un ragno intesse la sua ragnatela, è sufficiente adescare un'idea in quella ragnatela perché assorba l'odore della paura e produca il rumore di cose proibite. Immaginate per un momento un fiume in cui due barche, l'Oriente e l'Occidente, stanno navigando una contro l'altra, entrambe con molta gente a bordo. L'Oriente guarda a ciò che gli sta davanti e improvvisamente vede soltanto il proprio riflesso. L'Occidente in quel preciso momento non è altro che uno specchio. L'Oriente è in balìa del terrore, non perché l'Occidente sia diverso, ma perché riflette ed esibisce proprio quella parte che l'Oriente sta cercando di nascondere a se stesso: la responsabilità individuale. La democrazia - cioè, sostenere la sovranità dell'individuo invece che quella di un leader arbitrario - non è così nuova come proclamano gli imam. Va piuttosto detto che è repressa. La democrazia in questo senso non è estranea all'Est musulmano; è una ferita infetta che l'Est si è portato per secoli. Le forze di opposizione si sono costantemente ribellate e hanno cercato di uccidere il leader, e quello ha sempre cercato di annientarle. Questa danza di morte tra autorità e individualità è repressa per i musulmani, perché si è imbevuta del sangue e della violenza che nessuna civiltà ha lasciato salire in superficie; è stata lavata via dagli inesauribili fiumi di sangue che i nostri insegnanti ci nascosero e che noi nascondiamo a noi stessi mentre decantiamo i benefici dell'unità e della solidarietà all'interno della umma, la comunità musulmana.
L'Occidente mette paura perché obbliga i musulmani a riesumare i corpi di
tutti gli oppositori, religiosi e profani, intellettuali e ignoti artigiani, che
furono massacrati dai califfi, tutti quelli che furono condannati, come i Sufi e
i filosofi, perché, diceva il palazzo, parlavano di idee straniere che venivano
dalla Grecia, dall'India e dall'antica Persia.
Torniamo a monte, alle nostre considerazioni e in particolare a quel luogo
strano per eccellenza: noi stessi. In uno dei racconti delle
Mille e una notte
il sovrano vive l'esperienza soprannaturale di incontrare se stesso. Vedere la
sua immagine nel fiume lo disorienta completamente, è la cosa più
incomprensibile
('ajib)
che avrebbe potuto accadere. Il sovrano non era altri che Harun ar-Rashid
(170-193/786-809), il quinto califfo della dinastia
abbaside, la cui vita di magnificenza e ostentazione infiammò la fantasia dei
suoi contemporanei:
Si racconta che il Califfo Harùn ar-Rashid, una notte, si sentiva fortemente turbato dall'insonnia; mandò a chiamare il visir Giàafar il Barmecide e gli disse: «Il mio petto è oppresso; avrei intenzione, stanotte, di andare a zonzo per le vie di Baghdad [...]». «Odo e obbedisco!», rispose il visir. Detto fatto, si spogliarono lì per lì delle magnifiche vesti, indossarono panni da mercanti e furono tre: il califfo, Giàafar e Masrùr, il carnefice. Andarono girando da un posto all'altro, finché giunsero al fiume Tigri, ove scorsero un vecchio seduto in una barca [...]. Il califfo mascherato e i suoi accompagnatori ordinarono all'uomo anziano di portarli a fare un giro, offrendogli un lauto compenso. Ma l'anziano rifiutò, dicendo: «[...] il Califfo Harùn ar-Rashìd scende ogni notte per il Tigri in una navicella, accompagnato da un banditore che grida: "O uomini tutti, grandi e piccoli, pubblici e privati, bambini e giovanotti! Chiunque scende in barca lungo il Tigri, gli sarà tagliata la testa o verrà impiccato all'albero della sua barca!"». Poi l'anziano indicò l'imbarcazione che scendeva dal fiume nel mezzo della corrente: [...] essi videro a prua della barca un uomo che teneva in mano un torciere d'oro [...] a poppa della barca vide un altro uomo, vestito allo stesso modo, che teneva in mano un torciere eguale. E vide nella barca duecento schiavi in piedi in due file, e vide in mezzo collocato un trono d'oro, su cui sedeva un giovane bello come la luna piena, vestito di un manto nero [il colore reale degli Abbasidi, N.d.A.] ricamato d'oro. Gli stava davanti un uomo, come fosse il visir Giàafar, e alla sua destra uno schiavo in piedi, come fosse Masrùr, con una spada in mano [...] [il Califfo] guardò il giovane seduto sul trono e [...] si volse al visir dicendo: «Per Dio! a colui che siede su quel trono non manca nulla dell'aspetto di un califfo [...]!».
E il Comandante dei Credenti disse a Giàafar: «Per Dio, è un affare che mi
riempie di meraviglia, o Giàafar». Nulla disturba di più che "vedere se stessi"
senza aver prima represso qualcosa. Come dovremmo reagire quando il destino ci
mette faccia a faccia con noi stessi? Si può diventare pazzi per molto meno.
L'estraneo più incomprensibile è quel
gharib
che vive dentro di noi, sepolto negli strati più profondi del nostro intimo.
Rispetto a questa estraneità, il resto è facile da esplorare.
La democrazia è come quell'imbarcazione sovrana che galleggia sul fiume del tempo, obbligandoci a trovarci dinanzi a ciò che non siamo stati in grado di prendere in considerazione fino a ora nella nostra cultura musulmana: 'aql (ragione) e ra'y (opinione o giudizio personale). Fin dall'inizio i musulmani hanno dato la loro vita per porre e risolvere la questione che è rimasta un enigma fino a oggi: obbedire o ragionare, credere o pensare? L'asserzione che l'individuo e la sua libertà non sono esclusiva proprietà dell'Occidente è al cuore della nostra tradizione, ma è stata sommersa da incessanti bagni di sangue. L'Occidente, con la sua insistenza a favore della democrazia ci sembra assai gharib, estraneo, perché è uno specchio di ciò che ci impaurisce, la ferita che quindici secoli non sono riusciti a ricucire: il fatto che l'opinione personale porta sempre alla violenza. Sotto il terrore della spada, il dispotismo politico ha obbligato i musulmani a rinviare la discussione sulla responsabilità, sulla libertà di pensiero, e sull'impossibilità di una cieca obbedienza. Ciò fu chiamato la chiusura delle porte dell' ijtihad, "iniziativa privata". Il gharb, parlando costantemente di democrazia, ci mette davanti agli occhi la nave fantasma di coloro che furono decapitati per essersi rifiutati di obbedire. Porta anche alla superficie la lotta tra la penna e la spada: cioè la lotta tra, da una parte, gli intellettuali, i qadi (giudici) assetati di giustizia, i Sufi assetati di libertà e i poeti che cercarono di esprimere la loro individualità; "e, dall'altra parte, i califfi e la loro shari'a, la loro lettura molto autoritaria della legge divina. L'Occidente, che parla costantemente di democrazia attraverso i suoi satelliti e i suoi network mediatici, fa paura ad alcuni perché risveglia la memoria di grandi personaggi dimenticati che non vengono mai celebrati dai leader di oggi. Essi erano i difensori di quella piccola cosa, così fragile, così vulnerabile, chiamata karama, "dignità". C'era Hallaj, il Sufi che insisteva sul fatto che l'essere umano è depositario dell' haqq, "verità", e che ogni persona riflette la bellezza divina e come conseguenza è necessariamente sovrana. Hallaj fu bruciato vivo a Baghdad nell'anno 390 dell'egira (XI secolo d.C.) perché chiese, fra l'altro, come mai la terra e i suoi abitanti fossero così lontani dal divino. Dato che soltanto la vicinanza o la lontananza dal divino possono legittimare l'autorità dell'imam, questi non ha autorità se tutti sono vicini a Dio quanto lui. Hallaj insisteva sul privilegio dell'essere umano quale creatura di Dio e, come tale, capace di autoguidarsi, essendo dotato di ragione e riflettendo lo straordinario potere e la magnificenza dell'intelletto. Egli sfidò così l'autorità semplicemente dichiarando di essere al-haqq, la verità incarnata. Il suo «Ana al-haqq» (io sono la verità) trovò orecchie pronte all'ascolto. Si discuteva di Hallaj e delle sue idee nelle strade e nei bazar di Baghdad. I curiosi della strada erano presenti il giorno della sua tortura, che fu naturalmente pubblica di modo che tutti potessero capire l'azione del califfo. Se gli esseri umani sostengono di essere degni del loro Dio e di poter comprendere bene da sé la verità, a che cosa servono allora il califfo, l'imam e tutta la violenza che infliggono? Non fu facile per il califfo decidere dell'esecuzione di Hallaj, perché quello che Hallaj diceva aveva senso per molta gente. «Ricevette un migliaio di colpi e non pronunciò una parola [...] l'esecutore gli tagliò le mani e i piedi, gli tagliò la testa, che tenne da parte, e poi bruciò il corpo. Quando non fu rimasto altro che le ceneri, le buttò nel Tigri e piantò la testa sul ponte di Baghdad». Mentre veniva torturato, Hallaj cantava: «Ana al-haqq». Chi vuole ricordare? Chi vuole disseppellire i corpi del passato e ricordare quell'epoca cupa e lontana in cui il grido in nome dell'individualità e della dignità veniva soffocato nel sangue? Come possiamo fuggire dalla ferita che portiamo dentro e che pensavamo si fosse cicatrizzata e dimenticata da tempo? Se comprendessimo veramente il nostro passato, ci sentiremmo meno alienati dall'Occidente e dalla sua democrazia. Il gharb fa dunque paura ai despoti che sono al potere e ai mini-despoti che sognano di rimpiazzarli, perché li obbliga a buttarsi in quella insolita ricerca dell'individualità troncata degli arabi? La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non impaurisce la gente perché dichiara che «la volontà della gente deve essere la base dell'autorità del governo» e che «ognuno ha il diritto di prendere parte nel governo del proprio paese». Fa paura perché sveglia la memoria dei Kharigiti, quella setta ribelle che emerse agli inizi della storia islamica ed è collegata nella nostra memoria al terrorismo e all'anarchia. A fianco dei Sufi, che filosofeggiarono sul bisogno di rigettare l'idea della cieca sottomissione, sorse un altro movimento i cui membri si dedicavano ad assassinare gli imam che non piacevano loro. Durante tutta la sua storia l'islam è stato marcato da due tendenze: una tendenza intellettuale che speculava sui fondamenti filosofici del mondo e dell'umanità, e un'altra tendenza che rese violenta la sfida politica attraverso il ricorso alla forza. La prima tradizione era quella dei falasifa, i filosofi ellenizzati, e dei Sufi, che attinsero dalla cultura persiana e da quella indiana; la seconda era la tradizione di sovversione politica kharigita. I Kharigiti (separatisti) non sognarono mai di cambiare la relazione tra il leader e la comunità; essi pensavano semplicemente che ribellandosi contro l'imam e talvolta uccidendolo, avrebbero potuto cambiare le cose. I falasifa e i Sufi proponevano una profonda riflessione sulla natura dell'umanità e la natura del divino, portando così alla luce la questione del posto della ragione e dell'opinione personale, come fecero i filosofi occidentali dell'Illuminismo. Le due tradizioni sollevavano i medesimi argomenti che oggi ci vengono presentati come importati dall'Occidente, argomenti che l'islam non ha mai risolto: quello della ta'a (obbedienza all'imam, il leader della comunità) e quello della libertà individuale. L'islam politico non risolse questi due argomenti né nella teoria (visto che il dibattito veniva sempre soffocato dal califfo), né nella pratica, perché l'idea della rappresentazione non venne mai realizzata, sebbene l'idea che l'imam venga scelto dalla comunità sia profondamente radicata nell'islam sunnita. | << | < | > | >> |Pagina 66L'umanesimo secolare, come viene definito dal sociologo americano James Davison Hunter, è una delle nozioni che s'insegnano nelle scuole pubbliche americane: «I curricula delle scuole pubbliche tendono a riflettere un'enfasi sull'individuo come misura di tutte le cose e su autonomia personale, sentimenti, necessità personali, e valori soggettivamente prodotti - che sono tutti indipendenti dagli standard trascendentali implicati nel teismo tradizionale». L'umanesimo secolare americano si sviluppò non tanto contro la religione quanto contro l'interferenza dello stato nella religione e specialmente contro la manipolazione della stessa. Il successo di questo approccio è dimostrato dal fatto che gli Stati Uniti sono uno dei paesi più religiosi che si possa immaginare; non solo le chiese esistono ancora, ma stanno perfino aumentando! Oltre al cristianesimo protestante, che è onnipresente e costituisce la cultura religiosa dominante, ci sono le altre confessioni religiose: «Circa il 28% della popolazione statunitense è cattolica; gli ebrei raggiungono circa il 2,5%. I mormoni oggi costituiscono l'1,6% della popolazione [...] e sono una delle confessioni che cresce più velocemente in America. Molto più significativa è l'espansione del pluralismo, oltre le tradizioni della fede giudeo-cristiana. Ci sono, per esempio, tanti musulmani in America quanti sono i mormoni, e più musulmani che episcopaliani. Anche il numero di indù e di buddisti è incredibilmente cresciuto dalla fine della seconda guerra mondiale». Predicando la tolleranza e la libertà di pensiero, l'umanesimo secolare rivolge un attacco non a Dio, ma alla burocrazia governativa e ostacola l'uso di fondi governativi e istituzioni per propagare la religione, qualsiasi essa sia. La maggior parte dei paesi colonizzati - cioè i paesi non occidentali - non ha mai vissuto quella fase della storia così indispensabile allo sviluppo dello spirito scientifico, durante la quale lo stato e le sue istituzioni divennero il mezzo attraverso il quale trasmettere le idee di tolleranza e rispetto per l'individuo. Oltretutto, i governi coloniali erano brutali e culturalmente limitati. I governi nazionalisti che li soppiantarono erano ugualmente brutali e ostili al fiorire dello spirito scientifico e dell'iniziativa privata. Ciò tagliò fuori virtualmente il Terzo Mondo dai progressi dell'umanesimo degli ultimi secoli in entrambe i suoi aspetti: l'aspetto scientifico (la promozione dell'uso delle risorse del governo per investire nella ricerca scientifica e incoraggiare la libertà di esplorare e inventare), e l'aspetto politico (la costituzione di democrazie rappresentative, con l'esercizio del diritto di voto ai cittadini e la loro partecipazione al processo decisionale politico). Il risultato fu il violento malessere, che qualcuno chiama azma (crisi), che oggi assedia le nazioni colonizzate. Negli stati arabi moderni ogni tanto prende la forma di uno scoppio di intolleranza e di rigetto del presente e dei nostri leader. In altri tempi si è espresso con il desiderio dei giovani delle classi più deboli di emigrare, di lasciare il mondo arabo per l'Europa. Ancora in altri tempi, lo si può riscontrare nell'atteggiamento di disagio esistenziale dell'intellettuale verso il proprio paese, che Hichem Djait così bene esprime: Mi sento umiliato di appartenere a uno stato che non guarda al futuro, senza ambizioni, uno stato che è autoritario se non dispotico, in cui non vi è né scienza, né ragione, né amore per la vita, né una vera cultura. Questo stato mi frena; e in questa società provinciale e ruralizzata mi sento soffocare, soffro di essere governato da leader rozzi e ignoranti. Come intellettuale, mi sento nevrotico. È umano e legittimo che io proietti il mio malessere nella mia società, ma le rivolte popolari sono testimonianza che quel malessere non è solo una costruzione intellettuale. Djait parla per le migliaia se non milioni di persone che si sentono nello stesso modo. La tragedia è che gli arabi, come il resto dei cittadini del Terzo Mondo, non hanno mai avuto un accesso sistematico ai progressi della modernità, sviluppatisi dal «lascito dell'Illuminismo, una rivoluzione ideologica che ha portato al ridimensionamento delle cosmologie medioevali e riformatrici e allo scardinamento delle forme feudali di autorità politica e delle forme teistiche di autorità morale». Ma la rottura con lo stato medievale, che usava il sacro per legittimare e mascherare un governo arbitrario, non ha mai avuto luogo nel mondo arabo: I musulmani non pensavano al fenomeno della modernità in termini di rottura con il passato, bensì in termini di una relazione rinnovata con il passato. Non pensavano al fenomeno della modernità in termini di progresso, ma in termini di rinascita - quindi, dopo tutto, in termini di magia e di mito. Nella maggior parte dei casi l'approccio dei musulmani, l'approccio degli intellettuali politici e religiosi, era proprio l'opposto dei princìpi sottintesi da una corretta comprensione del pensiero illuminista. Oggi, quando nelle nazioni del mondo arabo che furono colonizzate parliamo della democrazia e della paura della democrazia, stiamo parlando all'interno di uno schema mentale strutturato da mancanze, amputazioni, lacune. La gente fa esperienza della modernità senza capirne le fondamenta, i concetti di base. La libertà di pensiero viene demonizzata e identificata con la ribellione kharigita e il disordine. Il filosofo marocchino 'Ali Umlil ha dedicato un intero libro alle confusioni concettuali che sono alla base del "riformismo arabo". Nel libro egli illustra come i movimenti nazionalisti alla fine del Diciannovesimo e all'inizio del Ventesimo secolo cercarono di modernizzare la cultura musulmana senza rompere con il passato, che era gravato dal dispotismo e dalla manipolazione del sacro. Questi movimenti introdussero istituzioni e concetti delle democrazie rappresentative occidentali come "costituzione", "parlamento", e "suffragio universale", mentre tuttavia trascuravano di istruire le masse sul punto essenziale: la sovranità dell'individuo e la libertà di opinione, che costituiscono la base filosofica di queste istituzioni e concetti. I nazionalisti non furono capaci di riflettere a fondo su tali problemi. Molte erano autorità religiose, obbligate a prendere parte al movimento dai militari ma inibite dal loro sciovinismo da caserma. Non possiamo dimenticare che il mondo arabo, come il resto del Terzo Mondo, ha visto l'accesso dei militari al potere negli anni '50 e '60. Il dibattito non divenne mai filosofico, come dice Umlil: «II filosofo non ha mai contato nulla; non è mai stato invitato a fare la parte del da'i, il propagandista di idee riformiste. Il ruolo andava ai fuqaha', le autorità religiose». Presto molti riformisti cercarono di legare il concetto di una costituzione alla shari'a, la legge di origine divina. I politici, in cerca di occasioni per estendere il proprio dominio, approfittarono dell'opportunità per confondere la questione. Coloro che insistevano per tenere le due cose distinte furono condannati come infedeli, blasfemi, alleati dei colonizzatori, agenti del nemico. | << | < | > | >> |Pagina 113Come le altre religioni monoteistiche, l'islam promette pace al prezzo di sacrificio - il sacrificio del desiderio, hawa. Rahma, la pace nella comunità, può esistere solo se l'individuo rinuncia ai suoi ahwa' (plurale di hawa), che sono considerati la fonte della discordia e della guerra. La jahiliyya aveva visto il regno sfrenato della hawa, il desiderio e l'egoismo individuale. L'islam avrebbe realizzato il contrario: rahma nella comunità al prezzo di sacrificare gli ahwa', i desideri e le passioni individuali. Rahma in cambio di libertà è il contratto sociale che la nuova religione propose ai cittadini della Mecca. Rinunciare alla libertà di pensiero e sottomettersi al gruppo è il patto che condurrà alla pace; la salam verrà istituita se l'individuo accetterà di sacrificare il proprio individualismo. Hawa significa sia "desiderio" sia "passione", ma può voler dire anche "opinione personale". È l'interesse individuale sfrenato di una persona che dimentica l'esistenza degli altri per pensare solo al proprio vantaggio. Il desiderio, che è individuale per definizione, è l'opposto di rahma, che è un'intensa sensibilità nei confronti degli altri, di tutti gli altri, del gruppo.
Fin dall'inizio l'islam fu in grado di istituire solo una pace fragile,
costantemente minacciata dall'interno dal desiderio, la più imprevedibile
espressione dell'individualismo. La sottomissione al gruppo si confondeva con
'aql
(ragione) e ogni concessione alle preferenze e ai desideri individuali
veniva bollata come irrazionale. Quindi
hawa
era equiparata alla passione
irragionevole. La minaccia del disordine preislamico avrebbe sempre pesato sulla
città, perché il pericolo è inerente alla natura umana. In ogni persona dorme un
potenziale
jahili;
la pace è solo un equilibrio precario. Il termine
hawa
e il suo plurale ricorrono circa trenta volte nel Corano come polo negativo
della città ideale.
Hawa
è la crepa, la fessura attraverso la quale la discordia e il disordine possono
infiltrarsi.
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