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| << | < | > | >> |IndicePARTE PRIMA Prigionieri 9 Nostra Signora dei Musei 41 Le torture dell'Inferno 85 I fanciulli sulla piazza del mercato 159 PARTE SECONDA A caro prezzo 203 Le acque della contraddizione 270 PARTE TERZA Il nord magnetico 309 Il vero nord 357 Il vulcano addormentato 402 Il dolce sapore della libertà 444 EPILOGO Meditatio pauperis in solitudine 485 |
| << | < | > | >> |Pagina 9L'ultimo giorno di gennaio del 1915, sotto il segno dell'Acquario, in un anno di una grande guerra, al confine con la Spagna, nell'ombra di monti francesi, io venni al mondo. Fatto a immagine di Dio, quindi libero per natura, fui tuttavia schiavo della violenza e dell'egoismo, ad immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il quadro dell'inferno, pieno di uomini come me, i quali amavano Dio eppure lo odiavano, e, nati per amarlo, vivevano nel timore e nella disperazione di contrastanti appetiti. A poche centinaia di miglia dalla casa dove nacqui, si andavano raccogliendo i soldati che imputridivano nelle trincee fangose, tra i cavalli uccisi e i pezzi da settantacinque sfondati, in una foresta d'alberi senza rami, lungo la Marna. Mio padre e mia madre erano prigionieri in quel mondo, consapevoli che non era il loro, e che neppure gli appartenevano, tuttavia incapaci di uscirne. Erano nel mondo, ma non del mondo, non perché fossero santi, ma per un'altra ragione: perché erano artisti. L'integrità dell'artista innalza l'uomo sopra il livello del mondo senza però liberarlo da esso. Mio padre dipingeva come Cézanne, e capiva alla maniera di Cézanne il paesaggio della Francia meridionale. La sua visione del mondo era sana, piena di equilibrio, di venerazione per le strutture essenziali, per i rapporti fra le masse e per tutto ciò che imprime un'identità singolare ad ogni cosa creata. Era una visione religiosa e nitida, perciò la sua pittura non concedeva nulla alla decorazione né a commenti superflui, poiché l'uomo religioso rispetta la forza della creazione di Dio che può da sola farne testimonianza. Mio padre era un ottima artista. I miei genitori erano entrambi liberi da quei meschini e diffusi pregiudizi che divorano coloro che non s'intendono se non di automobili, di film, di quel che si trova chiuso nel frigorifero e scritto sui giornali, dei vicini che stanno per divorziare. Da mio padre ho ereditato il modo di veder le cose e parte della sua rettitudine, e da mia madre un po' del suo scontento per il disordine che esiste nel mondo, e un po' della sua versatilità. Da entrambi mi vennero buone doti per lavorare, sognare, godere ed esprimermi, doti che avrebbero dovuto fare di me una specie di re se i valori riconosciuti nel mondo fossero quelli veri. Non che si possedesse mai molto denaro, ma lo sanno anche gli sciocchi che per godere la vita il denaro non è necessario. Se fosse realmente vero ciò che quasi tutti ammettono per ipotesi, se quel che occorre per essere felici consistesse nell'impadronirsi di ogni cosa e nel vedere tutto, nello studiare ogni esperienza per poi parlarne, sarei stato sin dalla culla, e sarei tuttora, un essere felicissimo, un milionario dello spirito. Se la felicità fosse soltanto una questione di doti naturali, giunto all'età virile non sarei certo entrato in un monastero di Trappisti. | << | < | > | >> |Pagina 41Come poté avvenire che, allorquando la feccia del mondo si radunò nell'Europa occidentale, e Goti, Franchi e Longobardi si mescolarono agli ultimi Romani decadenti formando un mosaico di razze ibride, tutte note per la ferocia, gli odi, la stupidità, l'astuzia, la lussuria e la violenza, come poté avvenire che da tutto ciò nascessero il canto Gregoriano, i monasteri e le cattedrali, le poesie di Prudenzio, i commentari e le storie di Beda, i Moralia di Gregorio Magno, la Città di Dio e la Trinità di Sant'Agostino, gli scritti di Sant'Anselmo, i Sermoni di San Bernardo sulla Cantica, la poesia di Caedmon, di Cynewulf, di Langland, e di Dante, la Summa di San Tommaso e l' Oxoniense di Duns Scoto? Come avviene ancor oggi che un paio di comuni muratori francesi o un carpentiere col suo aiutante sappiano costruire una piccionaia o un granaio di perfezione architettonica maggiore delle masse di eclettica sciocchezza che sorgono al prezzo di centinaia di migliaia di dollari nei recinti delle università americane? Quando nel 1925 arrivai in Francia, ritornando nel paese che mi aveva visto nascere, ritornavo anche alla sorgente della vita intellettuale e spirituale del mondo al quale appartenevo. Ritornavo alla sorgente di acque naturali, se volete, ma purificate e ripulite dalla grazia con effetti tanto sorprendenti che persino la corruzione e la decadenza della odierna società francese non sono mai riuscite ad avvelenarle interamente né a ridurle ancora una volta alla loro originaria, barbara impurità. È in Francia che sono sbocciati i più bei fiori della delicatezza e della grazia, dell'intelligenza e dello spirito, della comprensione, della proporzione e del gusto. Persino la campagna, persino il paesaggio della Francia, sia nelle colline basse e nelle ricche praterie e nei campi di meli della Normandia, sia nel profilo aspro e arido e netto delle montagne della Provenza, sia nei vasti, ondulati vigneti della Linguadoca, sembrano costruiti con qualcosa di simile alla perfezione, quasi destinati a far da sfondo alle cattedrali più belle, alle città più interessanti, ai monasteri più osservanti, alle università più celebri. Ma la cosa meravigliosa della Francia è il modo in cui tutte le sue perfezioni si armonizzano. Ha posseduto tutte le abilità, dalla culinaria alla logica e alla teologia, dalla costruzione dei ponti al misticismo, dalla viticoltura alla scultura, dall'allevamento del bestiame alla preghiera; e le ha possedute, una per una e tutte insieme, a un grado di perfezione maggiore di ogni altro paese. Perché le canzoni dei fanciulli francesi debbono essere più aggraziate, il loro linguaggio più intelligente e conciso, i loro occhi più calmi e profondi di quelli dei fanciulli di altre nazioni? Chi potrebbe spiegarlo? Francia! Sono lieto di essere nato nella tua terra, son lieto che Dio mi abbia ricondotto per qualche tempo a te prima che fosse troppo tardi. Ma non sapevo nulla di tutto questo la sera piovosa di settembre in cui sbarcammo a Calais, provenienti dall'Inghilterra dove eravamo stati di passaggio. E neppure condivisi o capii il soddisfatto entusiasmo con cui il babbo scese dalla nave e si tuffò nel baccano della stazione francese colma delle grida dei facchini e del fumo dei treni. Ero stanco, e molto prima di arrivare a Parigi mi addormentai. Mi svegliai in tempo per rimanere impressionato dalla fantasmagoria delle luci sulle strade bagnate e sulle acque scure della Senna, mentre attraversavamo uno degli innumerevoli ponti e lontano, le luci della torre Eiffel compitavano la parola «C-I-T-R-O-E-N». I nomi di Montparnasse, Rue des Saints Pères, Gare d'Orléans non significavano nulla per me, non mi parlavano delle alte case grigie, delle ampie tende ombrose dei caffè, degli alberi, della gente, delle chiese, dei tassì in corsa, e degli autobus verdi e bianchi, rumorosissimi. A dieci anni, non mi era possibile comprendere questa città, ma già capivo che avrei amato la Francia; e poi ancora una volta fummo in treno. Quel giorno sul rapido diretto verso il sud, verso il Midi, scopersi la Francia. Scopersi quella che è la terra alla quale, per quanto ne so, appartengo, se mai esiste un paese al quale appartengo davvero, e non per alcun titolo riconosciuto, ma per nascita geografica. Attraversammo la scura Loira a Orléans, su di un ponte lunghissimo e basso, e da quel momento mi sentii a casa mia, sebbene mai avessi visto quei luoghi prima e mai più dovessi rivederli. Fu là che il babbo mi parlò di Giovanna d'Arco, e credo che il pensiero di lei indugiasse in me, in fondo alla mente, per tutta la giornata. Forse questo pensiero, agendo come una specie di implicita preghiera mediante l'amore e la venerazione che accese nel mio intimo, mi ottenne in Cielo la sua intercessione, e per mezzo suo potei ricavare dal sacramento della sua terra una certa misura di grazia attuale, e contemplare inconsciamente Dio in tutti i pioppi lungo quei fiumi, in tutte le case rannicchiate sotto il loro tetto inclinato e raccolte intorno alle chiese dei villaggi, nei boschi e nelle fattorie e nei torrenti attraversati dai ponti. Passammo per un paese che si chiamava Chateaudun. Quando la terra si fece più ondulata, arrivammo a Limoges, dopo un labirinto di gallerie che terminavano in uno scroscio di luce, in un ponte altissimo e in un panorama della città aggruppata sul declivio di una ripida collina su fino ai piedi della cattedrale turrita. E continuammo ad avanzare nell'Aquitania, verso le antiche provincie di Quercy e di Rouergue dove, sebbene fossimo ancora incerti circa la nostra meta, io dovevo vivere e dissetarmi alle sorgenti del Medioevo. | << | < | > | >> |Pagina 83La preghiera è abbastanza attraente considerata in un insieme di buona mensa, di assolate e ridenti chiese di villaggio e nel verde paesaggio inglese. E, in realtà, la Chiesa d'Inghilterra significa tutto questo. Non vi si trova certo l'unità dottrinale, e ancor meno legame mistico tra le persone, molte delle quali hanno persino cessato di credere nella grazia o nei Sacramenti. Ciò che le tiene unite è la forte attrattiva della tradizione sociale, la ostinata tenacia con cui si afferrano a certe regole e costumi sociali, più o meno a proprio profitto. La Chiesa d'Inghilterra basa la sua esistenza quasi completamente sulla solidità e sul conservatorismo della classe dirigente inglese. La sua forza non ha nulla di soprannaturale, ma poggia sui forti istinti sociali e razziali che tengono legati i membri di questa casta; e gli Inglesi amano la loro Chiesa esattamente come amano il loro Re e i vecchi istituti di istruzione: per un complesso enorme, vago e ad un tempo dolce di tendenze soggettive nei confronti del paesaggio inglese, dei vecchi castelli e dei cottages, delle partite di cricket nei lunghi pomeriggi estivi, delle merende sul Tamigi, del croquet, del roast-beef, della pipa, della pantomima di Natale, del Punch e del Times londinese, di tutto ciò che, al solo pensiero, produce nei cuori inglesi una specie di caldo e inesprimibile fremito.Questa fu l'atmosfera in cui mi immersi non appena ebbi messo piede a Ripley Court, e la sensazione fu abbastanza forte in me da offuscare e rendere naturale quello che di soprannaturale sarebbe potuto essere nel mio desiderio di pregare e di amare Dio. E di conseguenza la grazia che avevo ricevuta rimase soffocata, non subito, ma gradatamente. Fino a che vissi in quella pacifica atmosfera di serra mista di cricket, di colletti alla Eton e di infanzia sintetica, rimasi pio, e forse sinceramente. Ma appena le fragili pareti di quella illusione caddero, appena cioè entrai in una Public School e vidi come sotto il loro sentimentalismo gli Inglesi fossero brutali quanto i Francesi, non cercai neppure di mantenere in vita quella che mi apparve una più o meno palese finzione. Naturalmente allora non ero in grado di ragionare su simili argomenti. Anche se la mia mente fosse stata sufficientemente matura per farlo, non avrei mai trovato la prospettiva adatta. E inoltre, tutto riguardava le mie emozioni e i miei sentimenti più che la mia intelligenza e la mia volontà, grazie al carattere vago e privo di sostanza delle dottrine anglicane quali vengono predicate da quasi tutti i pulpiti. È terribile pensare alla grazia che si spreca nel mondo e alle infinite persone che si perdono. Forse una spiegazione della sterilità e dell'inefficacia dell'anglicanesimo sul piano morale è, oltre alla mancanza di contatto vitale con il Corpo Mistico della vera Chiesa, l'ingiustizia sociale e l'opposizione di classe su cui si basa; infatti, essendo più che altro la religione di una classe, contrae le colpe della classe alla quale è unita inseparabilmente. Ma questa è una semplice supposizione, e non ho preparazione sufficiente per sostenerla. | << | < | > | >> |Pagina 100Avvenne nell'estate del 1930, prima che accadesse la maggior parte di queste cose, nell'estate cioè in cui Pop mi aveva trasmesso la mia parte d'eredità e mi aveva spalancato le porte perché corressi lontano come il prodigo, o agissi come il prodigo senza neppure uscire dalla casa paterna. Io potei benissimo mangiare le ghiande anche senza il disturbo di andarle a cercare in un lontano paese.Passammo quasi tutta l'estate riuniti a Londra per poter visitare il babbo all'ospedale. Ricordo la prima di quelle visite. Da molti mesi ero stato a Londra solo di passaggio, e quindi avevo visto pochissimo il babbo da quando era entrato all'ospedale, nell'autunno dell'anno precedente. Vi andammo tutti. Il babbo era in una corsia. Eravamo arrivati troppo presto e fummo costretti ad attendere. Ci si trovava in una nuova ala dell'immenso ospedale. Il pavimento era pulito e lucido. Un po' depressi da quell'odore di malattia e di disinfettanti, dal sentore di medicinali caratteristico di tutti gli ospedali, rimanemmo a sedere per più di mezz'ora in un corridoio. Avevo appena comprato il volume di Hugo, Italian Self-Taught, e incominciai a studiare qualche verbo, mentre John Paul mi sedeva accanto, inquieto. Il tempo passava lentamente. Finalmente l'orologio che continuavamo a guardare segnò l'ora attesa; salimmo in ascensore. Tutti sapevamo quale fosse la corsia, che non era più la stessa. Credo che gli avessero cambiato posto due o tre volte. E aveva subìto più d'una operazione, ma nessuna aveva avuto successo. Entrammo nella corsia. Papà era in un letto, a sinistra, accanto alla porta. Appena lo vidi, capii subito che non sarebbe vissuto ancora a lungo. Aveva la faccia gonfia. Gli occhi non erano più limpidi, e sopra tutto il tumore gli aveva terribilmente deformato la fronte. Gli dissi : «Come stai, babbo?» Mi guardò e mi stese la mano, incerto e infelice, e capii che non poteva più nemmeno parlare. Ma si vedeva però che ci riconosceva, che sapeva quel che gli avveniva intorno, che aveva la mente chiara e comprendeva tutto. Ma il dolore della sua disperata condizione mi si abbatté improvvisamente addosso come una montagna. Mi sentii schiacciato. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Nessuno disse più nulla. Nascosi la faccia nelle coperte e piansi. E anche il povero babbo pianse. Gli altri rimasero lì intorno. Era una cosa spaventosamente triste. Eravamo disperati. Non c'era più nulla da fare. Quando alla fine alzai la testa e mi asciugai gli occhi, notai che gli infermieri avevano messo un paravento tutto intorno al letto. Ma ero troppo abbattuto per vergognarmi della mia dimostrazione di affetto e di dolore così poco inglese. Poi andammo via. A che ci poteva servire tutto quel patimento? Per me e per tutti gli altri della famiglia non avrebbe portato a nulla. Era una ferita aperta per cui non esisteva sollievo. Bisognava accettarla come animali. Eravamo nella condizione comune a quasi tutto il mondo, nella condizione degli uomini privi di fede che si trovano di fronte alla guerra, alla malattia, al dolore, alla fame, alla sofferenza, alle epidemie, ai bombardamenti, alla morte. Come gli animali senza il dono della parola, dovevamo prendere quel che veniva. Tentare di evitarlo, se possibile. Ma poi arriva il momento in cui ogni fuga è preclusa. Bisogna accettare. Tentare magari di stordirsi perché non faccia troppo male. Ma bisogna accettare, almeno in parte. E alla fine se ne rimane divorati. La verità, che molti comprendono solo troppo tardi, è infatti che più si cerca di evitare la sofferenza più si soffre, perché si incomincia a subire la tortura delle cose minori e più insignificanti, in proporzione diretta al timore che si ha di rimanere feriti. Chi più si adopera per evitare di soffrire è in fondo colui che soffre di più, e la sofferenza gli verrà da cose tanto piccole e prive d'importanza che non si potrà più dire che sia ragionevole. La sua esistenza, il suo stesso essere diventeranno argomento e fonte di pena, e l'esistere e il ragionare saranno la maggior tortura. Ecco un'altra delle grandi perversioni per cui il demonio si serve delle nostre filosofie per capovolgere tutta la nostra natura e strapparci tutte le possibilità di bene per rivolgerle contro noi stessi. | << | < | > | >> |Pagina 171Correva a New York una specie di leggenda, messa in giro dai giornali del gruppo Hearst, secondo cui Columbia era un vivaio di comunisti. Tutti i professori e gli studenti venivano definiti rossi, eccetto forse il rettore, Nicholas Murray Butler, che viveva nella melanconica solitudine della sua enorme casa di mattoni a Morningside Drive. Non dubito affatto che la tristezza del povero vecchio fosse reale, e più che reale il suo isolamento da quasi tutto l'ambiente universitario. Ma l'affermazione che nell'università fossero tutti comunisti era ben lontana dal corrispondere al vero.So che, per quanto si riferiva al Corpo accademico, l'università di Columbia era costruita in cerchi concentrici intorno a un solido nucleo centrale di muffa benintenzionata e oscurantista, formata dai veterani, dai beniamini dei consiglieri e degli studenti, dalla guardia d'onore intellettuale di Butler. Poi veniva il circolo chiuso dei sociologi e degli economisti e avvocati, il cui mondo per me era un mistero e che esercitavano una forte influenza a Washington sotto il New Deal. Di loro e dei loro satelliti non seppi mai nulla, eccetto che non erano certo comunisti. C'era poi, nella scuola di filosofia, la piccola galassia dei pragmatisti, con tutte le migliaia di pallidi rampolli sparsi nelle giungle del Teachers College e del New College. E neppure questi erano comunisti. Essi avevano grande influenza su tutto il Middle West americano ed erano in gran parte condizionati da quegli stessi che intendevano condizionare, di modo che il Teachers College era sempre il paladino del quieto vivere, della mediocrità di una tendenza filosofica priva di bellezza e di fortuna. Questi tre gruppi rappresentavano allora la vera Columbia. Credo che tutti andassero fieri del loro liberalismo, perché questi erano «liberali» e non comunisti, e per questa loro posizione di abituale compromesso si attiravano sul capo tutto il disprezzo dei comunisti. Io non comprendo molto la politica, e inoltre ogni tentativo di analisi politica esulerebbe dai limiti della mia presente vocazione. Ma posso affermare che in quel tempo non pochi erano comunisti, o simpatizzanti comunisti, fra gli alunni, e specialmente nel Columbia College, dove quasi tutti gli studenti più svegli erano rossi. I comunisti controllavano il periodico studentesco e avevano molta influenza in alcune altre pubblicazioni e nel Comitato Studenti. Ma tale comunismo da giuoco serviva più che altro a fare chiassate, almeno per quel che si riferiva ai semplici iscritti senza cariche. The Spectator predicava e battagliava continuamente per organizzare adunate di massa, scioperi e dimostrazioni. Poi i ragazzi dell'associazione studentesca che in questo gioco accettavano di recitare la parte dei «fascisti» salivano nell'aula delle lezioni e volgevano i getti delle pompe anti-incendio su quanti stavano intorno all'oratore comunista. La relazione dell'accaduto veniva pubblicata sul Journal di New York la sera stessa; e gli studenti del Columbia Club soffocavano dalle risate, divorando la loro zuppa di testina di vitello. Nel periodo in cui arrivai all'università i comunisti avevano preso l'abitudine di tenere le adunanze alla meridiana della 116a Strada, al centro del vasto spiazzo fra la cupola della biblioteca e South Field, un luogo fuori della portata delle pompe anti-incendio del palazzo del Giornalismo e della Hamilton Hall. La prima adunata a cui partecipai fu molto tranquilla. Si trattava di un comizio contro il fascismo italiano, e vi furono due o tre discorsi di studenti che facevano pratica nell'arte oratoria. Quelli che stavano ad ascoltare erano più che altro membri della Lega Nazionale degli Studenti, venuti per senso di dovere o per spirito di parte. Alcuni passanti diretti alla stazione della sotterranea si fermarono incuriositi. Non v'era molto entusiasmo. Una ragazza con un gran ciuffo di capelli neri reggeva un cartellone che recava una specie di condanna del fascismo. Qualcuno mi vendette un opuscolo. Poi scopersi l'ometto tranquillo in soprabito grigio, serio, tarchiato e senza cappello, un comunista dalla chioma scura, venuto dalla città a dirigere la faccenda. Non era studente, ed era un comunista autentico. Il suo compito era di formare e di allenare il materiale che gli si offriva nell'università. Aveva un assistente un po' più giovane, e a tutti e due il lavoro non mancava certo. Lo avvicinai e incominciai a parlare. Quando mi ascoltò, prestò attenzione alle mie idee e approvò il mio interessamento, mi sentii molto lusingato. Prese nota del mio nome e indirizzo e mi disse di frequentare le riunioni della N.S.L. (Lega Nazionale Studenti). Ben presto mi trovai a passeggiare avanti e indietro di fronte alla Casa Italiana con due cartelli, uno sul petto e uno sulla schiena, carichi d'accuse contro l'Italia per l'invasione dell'Etiopia, che era appena incominciata o stava per incominciare. Dato che l'accusa era senza dubbio vera, provavo una certa soddisfazione a fare la ronda in quel modo per annunciarla pubblicamente. Eravamo in due o tre. E per un'ora e mezzo o due camminammo su e giù sul marciapiede della Amsterdam Avenue, in quel grigio pomeriggio, con le nostre terribili accuse, mentre la fiamma della giustizia ci bruciava alta nel cuore nonostante la seccatura di quel lavoro. | << | < | > | >> |Pagina 178La mia parte attiva nella rivoluzione mondiale non fu di grande portata. In tutto durò tre mesi circa. Feci il picchetto davanti alla Casa Italiana, partecipai allo sciopero della pace, e mi pare di avere fatto una specie di discorso nella grande aula al secondo piano della Business School, dove la Lega Nazionale Studenti teneva le sue adunanze. Forse era un discorso sul comunismo in Inghilterra, argomento sul quale non sapevo assolutamente nulla; in ogni caso mi attenevo lealmente alla linea tradizionale della oratoria rossa. Andai a vendere opuscoli e riviste. Non so di che cosa parlassero, ma potevo intuirne il contenuto dalle enormi caricature dei capitalisti intenti a bere il sangue dei lavoratori.Poi i rossi organizzarono un ricevimento, e scelsero proprio un appartamento di Park Avenue. Questa ironia fu l'unico tratto divertente di tutta la faccenda. Ma in fondo forse non fu ironia. Era l'abitazione di una ragazza del Barnard iscritta alla Lega della gioventù comunista; i suoi genitori erano partiti per quella fine settimana. Riuscii benissimo a figurarmeli dall'aspetto dei mobili e dai volumi di Nietzsche, Schopenhauer, Oscar Wilde e Ibsen che riempivano gli scaffali. C'era anche un enorme piano a coda su cui qualcuno cominciò a suonare Beethoven mentre i rossi sedevano intorno sul pavimento. Più tardi organizzammo una specie di accampamento stile Boy Scout nella sala di soggiorno e cantammo canzoni comuniste, compreso il delicato pezzo antireligioso ormai classico: «In cielo un pasticcio sarà, quando qualcuno morrà» (There'll be pie in the sky when you die). Un tipo piccolissimo con la dentatura sporgente e gli occhiali cerchiati di corno indicò le due finestre ad angolo della stanza. Da esse si dominava da un lato un lunghissimo tratto della Park Avenue e dall'altro la grande arteria trasversale. «Che postazione di mitragliatrice,» disse. Era un adolescente della borghesia, e parlava in un appartamento di Park Avenue. Senza dubbio aveva visto le mitragliatrici soltanto al cinema. Se fosse scoppiata la rivoluzione, sarebbe stato probabilmente fra i primi ad essere eliminato dai rivoltosi. E poi, come tutti noi, aveva appena terminato di prestare il famoso giuramento di Oxford, che lo impegnava a non combattere in nessuna guerra. Una delle ragioni per cui trovai il ricevimento tanto noioso fu che nessuno all'infuori di me si mostrava entusiasta di procurare qualcosa da bere. Poi una delle ragazze mi invitò abbastanza bruscamente ad uscire per comprare al bar all'angolo della Terza Avenue qualche bottiglia di birra di segala. Quando ebbi bevuto qualcosa ella mi fece passare in un'altra stanza e mi iscrisse alla Lega della gioventù comunista. Presi il nome di battaglia di Frank Swift. Quando alzai gli occhi dal foglio, la ragazza era scomparsa come un sogno non troppo ispiratore, e io me ne andai a casa sulla ferrovia di Long Island col segreto di un nome che soltanto oggi non mi vergogno di rivelare, perché sono ormai al di là di ogni umiliazione. Partecipai a una sola riunione della Lega dei giovani comunisti, nell'appartamento di uno studente. Ci fu una lunga discussione sul motivo per cui il compagno tal dei tali non veniva mai alle adunate. E la risposta fu che suo padre era troppo borghese per permetterglielo. Dopo di che uscii nella strada deserta e lasciai che la riunione terminasse per conto suo. Era bello trovarsi all'aperto. I miei passi risonavano sul selciato scuro. In fondo alla via, la pallida luce ambrata di un bar mi lanciava un amorevole cenno di richiamo da sotto le putrelle d'acciaio della ferrovia elevata. Il locale era deserto. Ordinai un bicchiere di birra, accesi una sigaretta e gustai il primo, dolce momento di silenzio e di sollievo. Finì così la mia carriera di rivoluzionario. Decisi che sarebbe stato più saggio per me rimanere un «compagno di viaggio». La verità è che sin dal principio la mia aspirazione ad agire per il bene dell'umanità era stata piuttosto debole e astratta. Mio unico interesse era quello di fare del bene a un'unica persona sulla terra: a me stesso. | << | < | > | >> |Pagina 268Adesso era all'altare in paramenti candidi e apriva il libro. Io stavo inginocchiato alla balaustra. Il tabernacolo illuminato era tutto per me. Sentivo la voce mormorante del sacerdote e le risposte del chierichetto e non importava che non vedessi nessuno per sapere quando mi dovevo alzare in piedi e mettere in ginocchio, perché non mi sentivo ancora sicuro circa i particolari del cerimoniale. Ma quando il campanello squillò, sapevo quel che stava accadendo. E vidi l'Ostia levata, il silenzio e la semplicità con cui ancora una volta il Cristo trionfava, alto, attirando a Sé ogni cosa, attirandomi a Sé.Poi la voce del sacerdote si fece più alta nella recita del Poter Noster. Subito dopo il chierichetto stava dicendo il Confiteor con un mormorio affrettato. Lo diceva per me. Padre Moore si voltò, tracciò un grande segno di croce per l'assoluzione e sollevò la piccola Ostia. «Ecco l'Agnello di Dio: ecco Colui che toglie i peccati del mondo.» E la mia Prima Comunione si mosse verso di me, giù per i gradini dell'altare. Ero solo alla balaustra. Il Cielo era tutto mio, quel Cielo che non subisce divisione o diminuzione per quanti vi partecipino. Ma quella solitudine serviva a ricordarmi che il Cristo celato nella piccola Ostia dava Sé stesso per me e a me, e con Sé offriva tutta la Divinità e Trinità, grande e nuovo impulso di forza e di stabilità per l'opera iniziata solo pochi minuti prima al fonte. Lasciai la balaustra, ritornai al banco dove gli altri stavano inginocchiati come quattro ombre, quattro cose irreali, e nascosi il viso tra le mani. Nel Tempio di Dio che ero diventato, l'unico eterno e puro sacrificio veniva offerto al Dio che dimorava in me, il sacrificio di Dio a Dio, e insieme a Dio sacrificio di me a Lui incorporato nella Sua Incarnazione. Cristo nato in me, nuova Betlemme, e sacrificato in me, Suo nuovo Calvario, e risorto in me, Cristo che in Se stesso offriva me al Padre, chiedendo al Padre, Padre mio e Suo, di ricevermi nel Suo infinito e speciale amore, non nell'amore che porta a tutte le cose che esistono, perché la stessa esistenza non è che un segno dell'amore di Dio, ma nell'amore di quelle creature che si sentono attratte a Lui con la forza del Suo amore per Sé stesso. Perché ero finalmente entrato nell'eterno moto di quella gravitazione che è la vita e lo spirito di Dio: la gravitazione di Dio verso le profondità della Sua natura infinita, della Sua bontà senza confini. E Dio, questo centro che è dovunque, questo cerchio la cui circonferenza non è in nessun luogo, trovandomi, attraverso la mia incorporazione col Cristo, incorporato in questo immenso e terribile moto di gravitazione che è amore, che è lo Spirito Santo, mi amava.
E mi lanciava il Suo richiamo dal profondo degli infiniti Suoi abissi.
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