Copertina
Autore Matteo Merzagora
CoautorePaola Rodari
Titolo La scienza in mostra
SottotitoloMusei, science centre e comunicazione
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2007, Campus , pag. 194, cop.fle., dim. 14,5x21x1,2 cm , Isbn 978-88-6159-006-9
PrefazionePietro Greco
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe musei , scienze naturali , comunicazione
PrimaPagina


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Indice


 IX Prefazione
    Il museo scientifico nella società della conoscenza
    di Pietro Greco


  1 Introduzione


  5 1.  La missione dei musei scientifici

  5 1.1 «Per ornamento»: i musei come fiori all'occhiello
  6 1.2 «Per insignare»: i musei, la ricerca scientifica
        e l'istruzione
  8 1.3 «Per delettatione»: i musei e il grande pubblico
  9 1.4 Agorà: il museo e il dialogo fra scienza e società
 11 1.5 La riscossa dei visitatori

 13 2.  Una lunga storia in breve: dalle origini al secolo
        dei Lumi

 13 2.1 Nascita di una parola
 14 2.2 Nascita di una pratica
 16 2.3 Nascita di una disciplina
 18 2.4 Osservare la natura
 19 2.5 Le Wunderkammer
 21 2.6 Il Seicento: dal privato al pubblico
 23 2.7 Le utopie
 24 2.8 L'ordinato secolo dei Lumi

CASE STUDIES:
LE CERE ANATOMICHE DEL MUSEO DELLA SPECOLA DI FIRENZE.
    UN'INTERPRFTAZIONE STORICO-SEMIOTICA, p 26;
UNA DISCIPLINA, UN MUSEO. IL CASO DEI MUSEI DEL COLLEGIO
    ROMANO, P. 28;
I SOLITI IGNOTI. I VISITATORI DEI MUSEI SCIENTIFICI NEI
    SECOLI PASSATI, p. 30

 32 3.  Una lunga storia in breve: l'Ottocento

 32 3.1 A ogni scienza il suo museo
 33 3.2 Musei per il pubblico
 34 3.3 I musei e le politiche nazionali
 36 3.4 Dall'ordinamento degli oggetti alla messa in scena
        dei processi: il Muséum d'Histoire Naturelle
 38 3.5 Esporre per insegnare: il Conservatoire National
        des Arts et Métiers
 40 3.6 Gloria dell'impero e ascesa dei men of progress:
        il Science museum
 42 3.7 Bravi industriali: il Deutsches Museum e il Museo
        Nazionale della Scienza e della Tecnologia
 44 3.8 All'incrocio tra scienza, politica e politica della
        scienza: il Palais de la Découverte

CASE STUDIES:
DAL MUSEO DI STORIA NATURALE AL MUSEO DI SCIENZE NATURALI, p.48;
I MUSEI DI CHIMICA IN ITALIA, p. 50

 52 4.  Dall'Exploratorium ai musei del millennio

 53 4.1 Un museo "dedicato alla consapevolezza": l'Exploratorium
 56 4.2 I figli dell'Exploratorium
 60 4.3 Luna park o palestre della scienza?
 62 4.4 Cattedrali e chiesette di campagna
 64 4.5 Un science centre per ogni città
 65 4.6 La terza generazione?
 69 4.7 La storia: una storia a sé

 72 5.  Il museo come media complesso

 73 5.1 L'edificio
 75 5.2 Straniamento e contestualizzazione
 77 5.3 Logiche allestitive
 79 5.4 Musei del museo
 80 5.5 I percorsi
 82 5.6 L'effetto suk
 84 5.7 La cucina allestitiva
 85 5.8 Nuove tecnologie e nuove forme di interattività
 89 5.9 Internet
 90 5.10 I testi
 92 5.11 Professionalità molteplici, per un'opera collettiva

CASE STUDIES:
I FESTIVAL DELLA SCIENZA, p. 94;
TEATRO E TEATRALIZZAZIONE NEI MUSEI PER COMUNICARE LA SCIENZA, p.96

 98 6.  Imparare al museo

 99 6.1 «Sì, va bene, si divertono. Ma imparano qualcosa?»
100 6.2 Sperimentare, esplorare, scoprire
102 6.3 Educazione formale e educazione informale
105 6.4 Esiste un design favorevole all'apprendimento?
107 6.5 Processo all'interattività
109 6.6 Se imparo, cambio
111 6.7 Pubblici diversi, offerte diverse
113 6.8 Una scuola grande come il mondo

CASE STUDY:
LA SCIENZA NON FA PER ME, p. 116

118 7.  Conoscere i visitatori

119 7.1 Ricerca di base e ricerca applicata
121 7.2 Passeggiando tra le sale
123 7.3 Guardare, toccare, stare insieme
126 7.4 Utilissime chiacchiere, preziosissimi testi
128 7.5 Una "learning task force": la famiglia
130 7.6 L'immaginario dei visitatori
132 7.7 Misurare gli apprendimenti
136 7.8 Conclusioni

CASE STUDIES:
VALUTARE, MODIFICARE E VALUTARE ANCORA, p. 138;
APRITI-CIELO: UN'INDAGINE SULL'IMMAGINARIO ASTRONOMICO DEL
    PUBBLICO, p. 140;
«MA DOVE SONO I PINGUINI?». L'IMMAGINARIO DEL PUBBLICO AL
    MUSEO DELL'ANTARTIDE, p. 142

144 8.  Il fattore umano

145 8.1 Il backstage
147 8.2 Le reti di musei
148 8.3 Gli animatori
150 8.4 Primo: "Non insegnare"
151 8.5 L'animazione: una professione?
152 8.6 Identikit e formazione

CASE STUDIES:
DALLA SCIENZA ALLA SOCIETΐ: L'ANIMATORE SCIENTIFICO, p. 154;
MA CHE LAVORO FACCIAMO?, p. 156

158 9.  Musei e società

160 9.1 I musei come agenzie territoriali
162 9.2 I musei come luogo di costruzione della cittadinanza
        scientifica
164 9.3 La scienza nel suo farsi: nuove museografie?
168 9.4 Controversia, dialogo e partecipazione:
        nuove museografie?
171 9.5 Musei senza esposizioni

CASE STUDIES:
LE MISSION DEI NUOVI MUSEI, SPECCHIO DI UNA TRASFORMAZIONE
    IN ATTO, p. 174;
IL MUSEO DEL BALΜ, UNA CATTEDRALE NEL DESERTO?, p. 176;
INCONTRO DI MENTI. UN PROGETTO DI PARTECIPAZIONE PUBBLICA
    SULLE NEUROSCIENZE, p. 178

181 Bibliografia

 

 

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Pagina IX

Prefazione

Il museo scientifico nella società della conoscenza

di Pietro Greco


A cosa servono i musei scientifici? Θ la domanda a cui cerca di rispondere l'intero nostro libro. Ma già sfogliando le prime pagine è possibile toccare con mano come nel corso della storia il museo sia cambiato. E che, dal museo "teatro della natura" al museo "teatro per la cittadinanza scientifica", dal museo conservativo al museo educativo, ogni epoca ha avuto il suo museo, con una specifica missione. Anzi, ogni epoca ha avuto i suoi musei: una pluralità di "teatri" allestiti con finalità spesso diverse.

Cosicché, se vogliamo rispondere in maniera più puntuale alla nostra domanda – a cosa servono oggi i musei scientifici – dobbiamo cercare di capire in che epoca siamo e quale funzione (quali funzioni) il museo vi può assolvere.

In che epoca, dunque, viviamo? Ormai non ci sono più dubbi: stiamo entrando in una nuova era, fondata su nuovi rapporti tra scienza e società. Ce lo dicono da tempo sociologi ed economisti. Ce lo ribadiscono molti dati statistici. Prendiamo a esempio il 2006: è stato un anno davvero significativo per la scienza nel mondo.

Per la prima volta gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) hanno superato i 1000 miliardi di dollari (a parità di potere d'acquisto). Una cifra che ormai sfiora il 2% del Prodotto interno lordo (Pil) del pianeta.

Per la prima volta (nell'ultimo secolo, almeno) la Cina ha superato il Giappone e ora, con 136 miliardi di dollari spesi nel 2006, è seconda assoluta nella classifica dei paesi che investono di più in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. Allo stesso modo l'India ha superato ha superato la Gran Bretagna, e la "piccola" Corea del Sud spende ormai in termini assoluti quanto l'Italia e la Spagna insieme.

Per la prima volta – nell'ultimo secolo almeno – l'Asia (con 361,9 miliardi complessivi) ha superato l'America del Nord (354,7 miliardi complessivi) nella classifica dei continenti che investono di più in R&S. Anche se gli Stati Uniti, con 330 miliardi di dollari, restano, di gran lunga, il paese che investe di più in R&S (OCSE, 2006; R&D, 2006).

Il 2006 è stato certamente l'anno dei record per la comunità scientifica internazionale. Ma questi record sono del tutto coerenti con un processo di lunga durata, che si è avviato da almeno un paio di decenni, nel corso dei quali, come rileva un rapporto della National Science Foundation degli Stati Uniti, si sono verificate tre grandi novità (NSB, 2006).

Primo: gli investimenti mondiali in R&S (a parità di potere d'acquisto) sono triplicati.

Secondo: gli investimenti privati in R&S stanno aumentando a un ritmo molto più sostenuto degli investimenti pubblici. Negli Stati Uniti, ormai, per ogni dollaro investito in ricerca dal governo federale, ve ne sono due investiti da aziende private. Negli anni sessanta il rapporto era completamente ribaltato, per ogni due dollari investiti dal governo federale ve ne era uno solo investito dalle aziende private. Ma la novità non riguarda solo gli Stati Uniti. In realtà, il rapporto di 2:1 a favore degli investimenti privati in R&S rispetto a quelli pubblici, pur con notevoli differenze tra paese e paese, si è imposto su scala planetaria.

Terzo: siamo passati da un mondo della ricerca essenzialmente bipolare – per quasi tutto il XX secolo la ricerca scientifica è stato un fenomeno che ha interessato solo le due sponde dell'Atlantico, Europa e America del Nord, con la sola eccezione del Giappone – a un mondo della ricerca almeno tripolare. La Cina, l'India e una decina di altri paesi asiatici – oltre al Giappone – hanno iniziato a "credere nella scienza" e a fondare sulla ricerca il loro sviluppo. La scienza ha cessato di avere una dimensione essenzialmente transatlantica e ormai ha una dimensione anche e soprattutto indopacifica: il 75% della spesa globale in R&S viene realizzata da paesi che affacciano sull'Oceano Pacifico e/o Indiano; mentre "solo" il 55% viene realizzata da paesi che affacciano sull'Atlantico Settentrionale. Fino a un paio di decenni fa le percentuali erano completamente ribaltate.

D'altra parte non ci sono solo Asia, America del Nord ed Europa. In maniera più attenuata, ma altrettanto significativa, anche nell'America del Sud molti paesi, a iniziare dal Brasile, hanno avviato un percorso di "sviluppo attraverso la ricerca".

In definitiva, tutte queste cifre e il nuovo quadro della geopolitica della ricerca ci suggeriscono che siamo definitivamente entrati nella knowledge-based society, nella società e nell'economia fondate sulla conoscenza. Perché la conoscenza (scientifica) si va imponendo sempre più come la leva principale di quella che Adam Smith chiamava la «ricchezza delle nazioni».

Un'analisi corroborata dal fatto che la produzione e il commercio dei prodotti ad alto contenuto di conoscenza aggiunto sono già oggi i settori più dinamici dell'economia mondiale. E che, a detta di molti, la frontiera della competitività domani passerà lungo il perimetro di un triangolo – il "triangolo della conoscenza" – disegnato da tre tecnologie innovative: le tecnologie informatiche, le biotecnologie e le nanotecnologie.

Attenzione. Perché non è affatto scontato che la nuova era della conoscenza si risolva in una cavalcata trionfale verso «magnifiche sorti e progressive». Se vogliamo capire in che epoca siamo e, soprattutto, se vogliamo indirizzare ciò che stiamo facendo verso un futuro desiderabile dobbiamo rispondere ad alcune domande. Del tipo: cos'è esattamente la knowledge-based society? A chi appartiene la conoscenza? Θ accettabile una conoscenza (e quindi una scienza) che, sia pure indirettamente, genera nuove disuguaglianze? Non è forse necessario riaffermare l'antico ideale baconiano secondo cui la scienza non può essere a vantaggio di questo o di quello, ma a beneficio dell'intera umanità?

E, ancora, i problemi del controllo. Se nell'era industriale la dinamica sociale e politica è stata dominata dall'interrogativo «chi controlla i mezzi di produzione?», nell'era della conoscenza l'interrogativo diventa: «chi controlla i mezzi di ideazione?».

O domande ancor più di fondo. Il futuro della conoscenza è chiuso o è aperto? Nell'era della tecnoscienza, un sistema che molti considerano autonomo e autopropulsivo, possiamo chiederci ancora «cosa può fare l'uomo della tecnica?». O, invece, dobbiamo arrenderci all'interrogativo disperante che ci pone Umberto Galimberti (1999): «cosa farà la tecnica dell'uomo»? E, se il futuro è aperto, possiamo renderlo socialmente sostenibile?

D'altra parte da un paio di decenni l'uomo ha acquisito la robusta consapevolezza del suo mutato rapporto con il resto della natura e di un suo nuovo ruolo sul pianeta. Proprio grazie al progresso delle conoscenze scientifiche, sa di essere diventato un attore ecologico globale. Capace ormai di interferire nei grandi cicli biogeochimici della Terra, accelerando i cambiamenti del clima globale e contribuendo alerosione della biodiversità.

Questo protagonismo ecologico dell uomo crea immediate aspettative riguardo alla scienza. Chiamata a produrre nuove conoscenze sia per definire meglio il quadro delle dinamiche planetarie, sia per minimizzare gli effetti indesiderati dell'interferenza umana su questi equilibri (Greco, 2003).

La scienza, dunque, ha assunto sia il ruolo di leva principale per la crescita della «ricchezza delle nazioni», sia di strumento primario per la sostenibilità ecologica della crescita della «ricchezza delle nazioni».

Lo sviluppo della scienza, delle tecnologie, della knowledge-based economy e dei grandi problemi ecologici globali sono accompagnati da un fitto dibattito culturale – di cui è parte rilevante il dibattito bioetico – che a sua volta alimenta, con frequenza sempre più accelerata e probabilmente senza precedenti, l'agenda politica sia a livello internazionale che dei singoli paesi.

Se tutto questo è vero, se siamo entrati nell'era della conoscenza e, contemporaneamente, nell'era che il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha definito dell'Antropocene, ne consegue che la scienza ha assunto un ruolo sociale affatto nuovo. La scienza è definitivamente uscita dalla "torre d'avorio" e i rapporti tra società e società stanno diventando sempre più fittamente interpenetrati (Gibbons, 1994; Nowotny, 2001; Ziman, 2002).

In questo contesto è mutato il modo di lavorare degli scienziati. In cambio di risorse senza precedenti e di un ruolo socioeconomico-primario, infatti, la comunità scientifica è costretta, diversamente da quanto avveniva in un passato più o meno recente, ad assumere decisioni rilevanti per lo sviluppo delle sue attività di ricerca in compartecipazione con una serie di pubblici di non esperti: politici, burocrati, manager, grande pubblico.

Cosicché in questa nuova era, che è stata definita post-accademica, i ricercatori avvertono come sempre più pressante l'esigenza – squisitamente politica – di acquisire il consenso sociale intorno alle loro attività. Si è rafforzata, all'interno delle comunità scientifiche, l'esigenza di affrontare il tema della «responsabilità sociale della scienza» (Greco, 2005). E si è sviluppata, in maniera sempre manifesta, l'esigenza – una necessità professionale sempre meno derogabile – da parte dei ricercatori di comunicare scienza al pubblico (ai pubblici) di non esperti (Greco, 1999). Tutto questo conservando – cercando di conservare – quell'autonomia dalla politica che fu tra gli elementi fondanti della «Repubblica della Scienza» nel Seicento (Rossi, 1997; Bourdieu, 2003).

Di converso, la società nel suo complesso, essendo sempre più penetrata dalla cultura scientifica e dalle sue ricadute tecnologiche, avverte come pressante l'esigenza di governare la scienza e di indirizzarne lo sviluppo verso un futuro desiderabile (Greco, 2006a). La scienza è diventata uno dei grandi motori della società della conoscenza, e, dunque, la comunicazione della scienza è diventata un bisogno sociale diffuso (Castelfranchi, 2007). Un elemento primario della moderna democrazia.

Adesso possiamo cercare di rispondere alla nostra domanda iniziale. Se questo è il contesto, a che cosa servono oggi i musei scientifici? Qual è la loro missione?

Non esistono risposte tassative né formule normative. Ognuno può (deve) costruire il museo che vuole. Tuttavia un fatto sembra certo. Un museo che pensa di esaurire la sua missione nella ricerca della "efficacia della comunicazione" svincolata da ogni rapporto con la società della conoscenza e con i grandi temi che essa solleva, è, probabilmente, un museo destinato a una vita breve. Oggi il museo scientifico deve darsi una missione sociale molto più forte e ambiziosa. Deve proporsi come uno dei luoghi – come uno dei luoghi principali – dove si costruisce la nuova "cittadinanza scientifica", declinata in tutte le sue dimensioni.

La dimensione culturale. La cittadinanza scientifica è cittadinanza informata. Il museo deve contribuire a formare cittadini più informati sulla scienza. Deve proporsi quindi come museo educativo, ponendosi in questo contesto il problema dell'"efficacia della comunicazione", ma anche il problema della "globalità/globalizzazione della conoscenza". Dobbiamo tutti imparare a vivere in un contesto in cui la scienza non è prodotta in alcune regioni (l'Europa, il Nord America), ma in tutto il mondo. E in cui la competizione non è asimmetrica (tra paesi che sanno e paesi che non sanno), ma almeno tendenzialmente simmetrica (dove tutti i paesi sanno perché producono nuove conoscenze).

La dimensione sociale. La produzione di nuova conoscenza non deve essere a vantaggio di questo o di quello, ma dell'intera umanità. Tutti devono, almeno in linea di principio, accedere ai nuovi saperi. Il museo scientifico oggi può essere (insieme alla scuola, all'università, ad altre strutture pubbliche e private) uno dei luoghi della "democrazia della conoscenza", dove tutti possono accedere ai nuovi saperi.

La dimensione politica. La cittadinanza scientifica è dialogo. Il museo deve contribuire a rendere più fluidi sia i rapporti tra "esperti" e "non esperti" e più in generale, tra policymakers (coloro che prendono le decisioni rilevanti nell'ambito della società della conoscenza) e stakeholders (coloro che hanno una posta in gioco). La cittadinanza scientifica e possibilità democratica di scelta. Il museo deve proporsi come una delle agorà della società della conoscenza in cui si dibatte e in cui si cerca un punto di equilibrio condiviso tra i portatori di diversi interessi legittimi.

La dimensione economica. La cittadinanza scientifica è anche democrazia economica della conoscenza. Il museo è uno dei luoghi in cui il sapere scientifico viene non solo diffuso, ma dove si trasferiscono le conoscenze da chi le produce (gli scienziati) a chi le utilizza per creare ricchezza (le imprese). Ed ecco, dunque, un'altra missione del museo scientifico oggi: incubare le nuove imprese della conoscenza. Sperimentare e sviluppare la costruzione "dal basso" di un'economia democratica ed ecologica della conoscenza. Perché i nuovi saperi non devono essere fattori di nuova disuguaglianza, ma occasione di sviluppo sostenibile, sia da un punto di vista sociale che ecologico, per tutti.

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1. La missione dei musei scientifici


A che cosa serve un museo della scienza? Una domanda apparentemente sciocca e impertinente, se non fosse che per i musei, appena si guardino le cose in profondità, è tutt'altro che facile definire la propria missione culturale e sociale.

Da questa definizione discendono la progettazione delle esposizioni, il programma delle attività e l'immagine, anche pubblicitaria, proiettata all'esterno. Viceversa, i musei non possono definire il loro ruolo solo in conseguenza di un dibattito interno, ma devono giustificare pubblicamente la propria esistenza, rispondere alle richieste della società e, non da ultimo, devono persuadere gli enti pubblici e gli sponsor privati che la loro attività merita di essere finanziata.

Non di una sola, ma di molte ragioni d'essere erano coscienti già quei medici e farmacisti che nel Cinquecento italiano fecero nascere la museologia scientifica, dando la veste di museo alle loro collezioni naturalistiche. Ecco cosa scrive nel 1556 Costanzo Felici da Piobbico al bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1602), il più famoso tra i collezionisti dell'epoca: «Soggiongete poi che, essendo stato in Ravenna, vi sete accomodato de molti marmi e che per questo sete ancora in viaggio per Ferrara, per rendere bello, ricco e nobile affatto il vostro museo, che non volete che stii indietro cosa alcuna produtta dalla natura e considerata dal philosopho che non vi entri dentro, parte per ornamento, parte per delettazioni, e parte per insignare» (cit. in Olmi, 1992, p. 179).

Ornamento, piacere culturale, insegnamento. Senza pretese di fedeltà storica, useremo questo brano come stimolo per indagare i diversi compiti che il museo scientifico svolge o si attribuisce: quella che con una parola inglese, si chiama oggi la sua mission.


1.1 «Per ornamento»: i musei come fiori all'occhiello

Il sapere, anche incarnato negli oggetti conservati in un museo, è di "ornamento" al collezionista; il possedere oggetti preziosi, rari, di particolare bellezza o interesse, riverbera questo valore in primo luogo su chi li possiede, e poi sul visitatore che viene ad ammirarli. Su un piano non individuale ma sociale, dietro l'idea di "ornamento" possiamo scorgere il ruolo anche politico, propagandistico, del museo. Si pensi ad esempio al Deutsches Museum di Monaco, al Natural History Museum di Londra, ma in parte anche alla contemporanea Cité des Sciences et de l'Industrie di Parigi, e a tutti gli altri grandi templi della scienza, molto spesso letteralmente costruiti come templi: il museo è il luogo dove ammirare il progresso scientifico e tecnologico, e dove viene resa manifesta, nella grandiosità dell'istituzione, il ruolo di punta di una nazione in questo progresso.

Così come il museo era "ornamento" dello studioso e del nobile cinquecentesco, così è stato ed è monumento alla grandezza di uno Stato o fiore all'occhiello del piccolo Comune.

Il compito, più o meno esplicito, di destare meraviglia oscilla, anche nei musei contemporanei, tra la volontà di indurre nel visitatore un utile atteggiamento mentale di apertura e interesse, e quella di suscitare ammirazione per l'oggetto, per ciò che rappresenta, per il museo e infine per chi lo possiede, in un gioco di specchi e di traslazioni di senso.

L'"ornamento", però, spesso va molto oltre il semplice orpello estetico: diventa parte integrante del modo in cui una persona o una comunità sceglie di presentarsi al mondo. In questo senso i musei non sono né sono mai stati semplici riflessi di un sapere costruito altrove: «I musei scientifici non si limitano a mettere in mostra la scienza: ricreano particolari tipi di scienza per il pubblico, e offrono alla scienza che viene esposta una propria forma di legittimazione» (MacDonald, 1998, p. 2).


1.2 «Per insignare»: i musei, la ricerca scientifica e l'istruzione

Una seconda e altrettanto antica missione del museo scientifico è essere un luogo di ricerca e di studio. Ulisse Aldrovandi (e con lui gli altri protagonisti del collezionismo naturalistico cinquecentesco) raccoglieva personalmente o acquistava reperti naturali, che nel museo venivano trattati per durare, e poi disegnati, descritti e messi in relazione con il sapere dell'epoca. Medici, farmacisti, filosofi della natura costituivano e visitavano le collezioni per poter osservare, discutere e descrivere quanto non era alla loro immediata portata. Tra i visitatori molti studenti, che si preparavano alla professione di medico e farmacista. Il "teatro del mondo" cinquecentesco, luogo per "insignare", laboratorio e biblioteca della natura, contribuisce allo sviluppo delle scienze naturali e assume il ruolo di centro di ricerca, per l'epoca molto avanzato (Findlen, 1994).

La ricerca, e l'insegnamento accademico con questa, è ancora oggi una delle missioni del museo scientifico?

In Italia la risposta è sicuramente positiva per la maggioranza degli orti botanici, degli acquari, dei centri visita dei parchi naturali e dei musei di scienze naturali di medie e grandi dimensioni, impegnati in ricerche in collaborazione con altri enti territoriali o per conto terzi. Ma anche i musei naturalistici più piccoli fanno ricerca; anzi, talvolta fanno solo ricerca (anche se non sempre accademica), perché gestiti e animati da gruppi amatoriali (di cercatori di fossili, di collezionisti di minerali, di appassionati osservatori di uccelli...), che arricchiscono le proprie collezioni e pubblicano di tanto in tanto i risultati del loro lavoro, ma non hanno le risorse e le competenze per elaborare strategie comunicative o organizzare attività per il grande pubblico, limitandosi spesso a fornire, su prenotazione, visite guidate.

In condizioni simili, e a volte più difficili, sono le collezioni storico-scientifiche. Con l'eccezione di alcuni importanti esempi (citiamo fra tutti l'Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze e il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia "Leonardo da Vinci" di Milano) queste collezioni, per la maggior parte universitarie, non hanno risorse per attivare servizi di accoglienza del pubblico o per allestire più moderne esposizioni, e spesso non hanno fondi neanche per svolgere la propria attività interna di curatela, che dipende esclusivamente dal lavoro del personale accademico, impegnato nelle altre tradizionali attività universitarie (Reale, 2002; Reale, 2006).

Finanziamenti adeguati a parte, il problema di molti musei scientifici sembrerebbe, quindi, non tanto se fare ricerca o meno, ma se e come questa debba essere resa visibile al pubblico. Una proposta viene dal Natural History Museum di Londra, uno dei musei scientifici più grandi, più autorevoli e più visitati del mondo. Pur essendo anche un importante centro di ricerca, il museo, all'avanguardia nell'organizzazione di splendide mostre temporanee e permanenti, ha per molto tempo proposto al pubblico solo una parte delle proprie collezioni, e soprattutto nulla o quasi delle proprie attività scientifiche. Dal 2002 il museo ha invece aperto le sue quinte e inaugurato una nuova ala, il Darwin Centre, il cui scopo è favorire il contatto diretto tra pubblico e ricercatori nei luoghi stessi della ricerca.

Diversa è invece la risposta per i science centre, o musei interattivi. I science centre non sono nati per fare ricerca. Tra gli anni sessanta e settanta, in quei decenni segnati dalle armi atomiche, dall'energia nucleare e dalla gara per la conquista dello spazio, i science centre sono nati come un tentativo di tenere aperto un canale di comunicazione tra il mondo della ricerca e il grande pubblico, e dal più prosaico bisogno di una più efficace educazione scientifica dei giovani, a fronte di una difficoltà delle istituzioni scolastiche. I science centre non sono depositari di collezioni o raccolte, e si propongono di stimolare le capacità di osservazione e di ragionamento scientifico del pubblico, facendo fare esperienza, in diretta, dei fenomeni naturali attraverso apparati sperimentali inventati ad hoc: gli exhibit hands-on (letteralmente "le mani sopra"). Non hanno quindi, nella maggior parte dei casi, nessun legame con la ricerca o con le istituzioni che se ne occupano, se non in occasione della preparazione di particolari esposizioni.

Per questa distanza dalla scienza contemporanea, dai suoi luoghi e dai suoi temi, una serie di interventi polemici qualche anno fa mettevano sotto accusa i science centre (Bradburne, 1998). Da un fronte opposto a quello degli accademici più tradizionalisti, che da sempre hanno visto nei musei hands-on una sorta di luna park scientifici con poco valore educativo, alcuni tra i comunicatori della scienza più all'avanguardia hanno fatto ai science centre un'accusa simile: quella di essere solo dei centri di intrattenimento dove di scienza vera, attuale, ce n'è troppo poca.

Pur difendendo la propria filosofia hands-on (peraltro sostenuta anche da numerosissime ricerche sull'impatto sul pubblico), i science centre hanno preso sul serio il rischio di allontanarsi troppo dai luoghi della produzione del sapere scientifico: riportare la ricerca al centro dei musei interattivi è una delle sfide della museologia scientifica di oggi, che sta dando vita a diversi esperimenti comunicativi, a molta ricerca sul campo e a un dibattito sempre più ricco (Chittenden, Farmelo e Lewenstein, 2004).


1.3 «Per delettatione»: i musei e il grande pubblico

Scriveva Ulisse Adrovandi, in una lettera datata 1605: «[...] e tutto il giorno sono veduti da tanti vari Signori, che passano per questa città, i quali visitano il mio pandechio di natura, come un ottavo miracolo del mondo» (cit. in Olmi, 1992, p. 32). I visitatori del museo aldrovandiano non erano quindi solo studenti e studiosi, ma anche nobili e prelati, che lo visitavano per trarne insegnamento, perché era segno di distinzione visitarlo, ma anche per diletto.

Allora, come adesso, al museo si va anche per divertirsi; è un luogo sì educativo, ma di un tipo un po' speciale, dove, appunto, educazione e piacere vanno insieme.

Scrive a questo proposito Frank Oppenheimer, fondatore dell'Exploratorium di San Francisco: «La prima cosa che cerco di fare come insegnante è portare i miei ragazzi a capire un fenomeno o uno strumento – intendo cose come il brillio di una stella o un campanello elettrico – così chiaramente da rendersi conto che capire una cosa può essere divertente e gratificante, come mangiare o fare canestro. Se riesco a far capire allo studente che capire è divertente, sono sicuro che gli verrà voglia di capire tante altre cose, cioè che diventerà curioso» (Oppenheimer, 1985, p. 8). Su questa idea Oppenheimer fonda la missione educativa del museo: essere il luogo della scoperta; fornire degli stimoli all'appetito scientifico, senza pretendere di essere esaustivi; far assaporare la scienza perché venga voglia di mangiarne ancora.

In questo senso il museo non è un sostituto della scuola, e la sua missione non è principalmente trasmettere una serie precisa di informazioni e concetti (come nei programmi scolastici), quanto piuttosto offrire occasioni e spazi di cui il visitatore fruirà liberamente, vivendo delle esperienze il cui impatto maggiore sarà sugli atteggiamenti e le sensibilità (Bitgood, 1988; Falk e Dierking, 1992). Durante una visita si assorbono anche nozioni e si accumulano osservazioni, ma affinché si consolidino come sapere stabile (e soprattutto perché siano tradotte in parole e concetti) sono necessari i rinforzi che altre occasioni di vita (studio, letture, esperienze, media) offrono prima e dopo la visita al museo: non a caso l'educazione informale è considerata una parte di quel processo di apprendimento che dura tutta una vita ed è chiamato lifelong education.

Non solo la missione educativa del museo e le peculiarità dell'apprendimento che avviene tra le sue mura non sono più in discussione, ma, anzi, sono spesso il principale argomento nelle richieste di finanziamento pubblico. Tipico il caso del calo delle iscrizioni alle facoltà scientifiche: di fronte a questa crisi di adesione ai progetti culturali di alcuni tradizionali corsi di laurea (chimica, matematica e fisica, principalmente) la proposta educativa museale, che lascia maggiore libertà ai percorsi individuali e in cui la scienza viene presentata in modo stimolante e divertente, sembrerebbe costituire la giusta chiave per motivare i giovani a intraprendere una carriera scientifica, e per dare a tutti un'immagine della scienza più vera e attraente.

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