Autore Maria Messina
Titolo Personcine
EdizioneSellerio, Palermo, 1998 [1922], La memoria 412 , pag. 130, cop.fle., dim. 12x16,8x1 cm , Isbn 978-88-389-1386-0
LettoreElisabetta Cavalli, 2014
Classe narrativa italiana












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    Personcine

Delusioni                                            9

Il primo viaggio di Dodò                            20

Compagne di scuola                                  35

Di notte                                            42

La sorellina                                        52

Storiella di Natale                                 66

La bimba, la vecchia e la Madonnina nera
sotto l'arco di rose                                73

Bugie                                               78

Tapioca                                             89

Massaro Vanni                                       99

Candida                                            111

Il tricolore di Fedele                             119


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Delusioni



La casa del signor Còppola, che, di primavera, restava quasi nascosta dalle grandi robinie del piazzale, aveva un aspetto grazioso e pieno di gaiezza.

Era una casa a due piani, sapientemente divisa in quattro simmetrici appartamentini, assai piccoli, che si guardavano a coppie nella scala e aprivano due file di balconi sul piazzale. Nella scala, i due terrazzini gemelli del secondo piano sporgevano come tettoie sulle bussole a vetri del primo piano, le quali - simmetriche e velate d'ombra - si facevano riscontro nel lungo pianerottolo dove i giallo-verdognoli cardellini, i dorati canerini, e due malinconici merli, trillavano e fischiavano invano, chiedendo che un po' di sole entrasse nelle gabbie sospese alle cupe mensole dei terrazzi.

Quanti uccelli nel pianerottolo, quanti fiori in due balconi del primo piano, davanti le robinie odorose!

Uccelli e fiori erano del signor Bàrtoli, impiegato presso la Banca d'Italia.

Ciascuna stagione portava fiori nei due balconi dove sbocciavano margherite doppie, vividi gerani color di ceralacca e gerani bianchi purissimi; giunchiglie dorate, garofani meravigliosi e grandi viole dalla faccia di donnine invecchiate; e poi rose e rose: rose in tutte le sfumature dell'avorio che si arrampicavano fin sotto la ringhiera del balcone del verificatore di pesi e misure, e che lui contava ogni sera nel timore che le bimbe ne strappassero qualcuna.

Era geloso delle sue belle piante. Pure, se qualcuna delle ragazze del piazzale veniva sotto i balconi a domandare un fiore, egli non sapeva rifiutarsi di cogliere una viola o un garofano.

- Datemi una rosa, piuttosto! - diceva Luisa guardandolo con aria birichina.

- E una anche a me! - aggiungeva Lucia, col riso sulle fresche labbra.

Una rosa! Il signor Bàrtoli osservava perplesso gli snelli rami spinosi; poi guardava dentro, per timore che la moglie vedesse, infine tagliava le rose delicatamente, un po' a malincuore, e le buttava giù in fretta alle fanciulle che paravano i grembiuli, stendendo le belle braccia rosee a metà nude.

Certo, se la moglie si fosse accorta, gli avrebbe rimproverato di sciupare le piante.

Nei due appartamenti del secondo piano, non c'erano fiori. Molte bambine si facevano sentire.

Le bimbe, che gridavano e ridevano forte, che camminavano battendo i piedini, e trascinavano le seggiole facendo cadere una pioggerella di intònaco dal soffitto, erano mal sopportate tanto dalla signora Bàrtoli - che aveva l'abitudine di levarsi tardi, la mattina, e di dormire un'oretta, dopo desinare - quanto dalla moglie dell'usciere - che soffriva di emicrania. Ma l'impiegato della Banca d'Italia, era felice che al secondo piano ci fossero molte bambine.

Poichè egli amava la giovinezza, così come amava gli uccelli, i fiori, l'aria limpida e fresca delle mattinate di primavera.

Quando si alzava, aveva appena il tempo di annaffiare i fiori, accudire alle molte gabbie, fare colazione e vestirsi per andare in ufficio.

Passando per il pianerottolo guardava in su. Vedeva la piccola Nerina, l'ultima bimba dell'ispettore scolastico o pure l'Antonietta, la terza del verificatore di pesi e misure - che lo aspettavano - e diceva:

- Addio. Vado a prendere il «trattieni».

E se ne andava, col cappello duro in mano, un cappello fuori moda, eppure nuovo fiammante, che nessuno gli aveva mai veduto mettere in capo una volta sola, anche se pioveva. Tenendo il cappello in mano, facendo girare il bastone nell'aria, come un giovanotto, attraversava soddisfatto il gran piazzale pieno di monelli, dove qualche bella ragazza si affacciava a salutarlo.

Le piccine, l'una aveva due anni appena e l'altra cinque, sedevano ognuna nel suo terrazzo, sdegnando di fare il chiasso con le sorelline. Tenevano fra di loro tanti discorsini, guardandosi tra i ferri delle ringhiere, coi rosei visetti pieni di gravità.

Aspettavano il «trattieni» del crudele Cucù che sapeva bene di non potere tornare prima delle quattro del pomeriggio.

Sul principio stavano buone; poi, stancate, piagnucolavano.

- Vi chiamerò io appena griderà Cu... cù... - assicurava Mariuccia che non andava a scuola, dalle monache, come le sue coetanee.

Così le piccole tornavano ad essere buone e qualche volta, facendo il chiasso, finivano col dimenticare il «trattieni».

Le giornate erano così lunghe!

Nelle ore calde del dopopranzo, le bimbe - anche Irene e Giulia venute di scuola - si riunivano tutte in uno dei terrazzini: le piccole con le bambole e col libro a figure colorate di Cappuccetto rosso, le più grandicelle con qualche lavoruccio che andava avanti lento lento. Anche le due mamme, avendo finito di sfaccendare, prendevano i cestini da lavoro e si facevano buona compagnia.

Ed ecco, verso le quattro, si leva il solito grido, roco ed allegro:

- Cu... cù! Cu... cù!

È venuto!

Le bimbe posano in fretta balocchi e lavoro, inginocchiandosi lungo la ringhiera, tutte in fila per vedere meglio.

- Brave! Brave! - dice il signor Bàrtoli salendo le scale col naso in su e gli occhietti scuri e vivaci che luccicano come quelli d'un topo. - Ora verrà il «trattieni».

Il signor Bàrtoli deve desinare, poi deve leggere il giornale mentre la moglie prepara il caffè - con molta cicoria - sulla macchinetta a spirito. Egli non ha fretta. Alcuni giorni non legge neanche il giornale: sdraiato sul seggiolone sembra di malumore. Si passa una mano sui capelli ancora abbondanti ricciuti e nerissimi - i vicini maligni e senza scrupoli affermano che se li tinga - e brontola qualche cosa che la moglie non afferra.

- Che dici?

- Otto ore d'ufficio mi hanno stancato, mi hanno vuotato il cervello. Son vecchio, oramai.

E socchiude gli occhi, profondamente addolorato di esser vecchio.

Perché, il buon Dio, ha voluto infliggere la vecchiezza alle sue creature?

Le bimbe sul terrazzo, aspettano impazienti, frementi. Le mamme borbottano sottovoce:

- Vecchio matto antipatico! Farle soffrire così!

Ma le bimbe non soffrono. I piccoli cuori palpitano di gioia.

È pur bello aspettare.

Ecco che sentono aprire la bussola, sotto lo sporgente terrazzo.

È lui!

Vedono la cima della canna, tutta la canna, poi la testa di Cucù.

Ecco il «trattieni»!

Oggi, in cima alla canna c'è un racimolo di uva.

Cucù allunga la canna e la ritira subito; l'offre a destra e a sinistra, senza cederla; avvicinandola, allontanandola, senza pietà. Le bimbe - dai vivaci grembiulini colorati - si agitano dietro la ringhiera, come uccelli che tentino la fuga; dodici manine di tutte le grandezze - quelle macchiate d'inchiostro delle grandicelle, quelle rosee di Nerina, la più piccola - si tendono fuori dai ferri.

Ma qualcuna ha afferrato la canna; un grido di trionfo erompe da un piccolo petto...

Chi è oggi la vittoriosa? Irene. Ma non mangia l'uva smeraldina: l'offre all'Antonietta e a Nerina.

La bellezza è tutta nella conquista, non nella cosa conquistata. Le bimbe l'hanno imparato, sebbene non sappiano dirlo.

Così ogni giorno il signor Bàrtoli faceva gran baccano col suo «trattieni».

Una ciocca di ciliege, un confetto, un pezzetto di torta - e in mancanza d'altro anche un dado di zucchero o due baccelli - tutto era accolto con la stessa allegria e la gara si faceva con lo stesso entusiasmo.

Certi giorni di festa venivano anche le bambine dell'avvocato, la Titì e l'Esterina.

Titì, benché frequentasse il ginnasio, si divertiva un mondo col «trattieni».

Se capitavano altre piccole visitatrici erano invitate: - Venite! C'è il «trattieni»!

Il gioco diventava allora più rumoroso. Dieci, dodici bambine dietro la ringhiera di uno dei terrazzi, rallegravano il vecchio impiegato della banca che saltellava goffamente da destra a sinistra, avanti e indietro, facendosi venire l'affanno. E se la signora Bàrtoli chiudeva la bussola, indignata, e se la moglie dell'usciere si mostrava, tappandosi le orecchie col cotone per il pandemonio, il signor Bàrtoli, invece, godeva, superbo della sua trovata.

Che tenerezza, se quelle vocette d'argento chiamavano:

- Vieni, Cucù!... Addio, Cucù!...

Era per lui - che aveva tanto desiderato un piccino, nei primi anni di matrimonio - quasi lo stesso che sentirsi dire: - Papà!

Un giorno Elina, la figlia del colonnello Mari, venne con la mamma. Era, quella, una prima visita alla signora del verificatore; e una visita di molto riguardo. Irene invitò subito:

- Vieni sul terrazzo? C'è il «trattieni»!...

- Che cos'è il «trattieni»?

- Oh! vedrai com'è bello!

Mariuccia e Nerina furono chiamate a conoscere Elina che incuteva soggezione e ammirazione alle bimbe del «trattieni».

Era la più alta fra tutte; portava un vestitino rosso e i capelli a zazzera. Pareva una grande bambola viva.

Era anche profumata; e parlava sempre italiano. Ora, parlare l'italiano, senza impappinarsi mai, faceva grande impressione a Irene e a Mariuccia.

Andava a scuola, accompagnata dall'ordinanza. Solo la figlia d'un militare può farsi accompagnare da un soldato!

Aveva avuto il tifo: perciò portava i capelli corti, come un ragazzo. Anche quel tifo pareva un privilegio. Nessuna fra loro aveva mai avuto una malattia che la costringesse a portare ancora i capelli a zazzera!...

Raccontava che a Roma aveva passeggiato al Pincio — chi sa come doveva essere bello il Pincio!; aveva veduto il Re sei volte; e aveva veduto le giraffe e i cammelli in compagnia di Gaddo, il figlio del generale.

- Anche qui è venuto il serraglio! - esclamò Giulia.

- Che c'entra il serraglio! - rispose Elina, e continuò a raccontare di Gaddo che portava i calzoni lunghi alla marinara, e da Roma le mandava una cartolina illustrata al giorno.

Le bimbe, ascoltando mortificate, dimenticarono il «trattieni».

Se ne ricordarono quando sentirono gridare:

- Cu... cù! Cu... cù!

Si mossero subito, inginocchiandosi in fila. L'impazienza era più forte del solito, unita all'orgoglio di poter mostrare alla nuova venuta un gioco così bello e così interessante.

Irene, voltandosi, vide che Elina, in piedi, guardava con aria sprezzante. Si alzò, vergognandosi, e Mariuccia la imitò subito.

Comparì la canna. C'era un confetto rosso.

Il confetto fu subito di Nerina.

- Questo è tutto? - domandò ironicamente la figlia del colonnello.

- Non ti è piaciuto? Certi giorni ci mette anche le ciliege.

- Non mangiate mai ciliege, voialtre?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 52

La sorellina



Il professore, tenendo il fazzoletto a rossi quadri spampanato sulle ginocchia, spiegava una lezione di storia con voce piana e nasale, facendo lunghe pause, durante le quali pareva aspettare che le sue parole prendessero posto nelle irrequiete testoline degli scolaretti. Il vecchio prete voleva che dentro la scuola si facesse silenzio come si fosse in chiesa: e i ragazzi, che gli volevano bene, riuscivano a contentarlo, sebbene le sue lezioni e la sua voce fossero assai noiose e monotone.

Fuori dai vetri impolverati della finestra chiusa, passavano a nugoli fitti e bruni gli storni, e i grandi fiori d'una pianta rampicante ravvivavano il muro bigiognolo d'una casa lontana. E la vista distraeva un poco gli scolari, specie quelli che restavano in fondo, meno sorvegliati dagli occhietti acuti del professore.

Nella prima fila, il più attento pareva, come sempre, Giovannino Panebianco: il più bravo della classe, che buscava nove in tutte le materie e, chiamato, non si confondeva mai. Col visetto pallido fra le mani, teneva lo sguardo incollato alla pedana della cattedra. Pareva attento, al solito.

Ma non seguiva, lui così diligente, le spiegazioni del professore.

La voce stanca della mamma gli aveva lasciato una penosa impressione.

— Vannino mio! Siamo troppo sfortunati! — aveva mormorato la mamma, baciandolo, sull'uscio.

Ben conosceva — il fanciullo dai grandi occhi scuri e pensosi che somigliavano tanto agli occhi di Bice — ben comprendeva il perché dell'apprensione materna. E un brivido gli era corso fra spalla e spalla.

Ora ricordava e pensava, pensava e ricordava, con una invincibile voglia di piangere liberamente, lì sul banco, in mezzo alla curiosità dei compagni...


Il padre era morto: lassù, in un ospedaletto da campo. Uno fra i primi devotamente accorsi alla chiamata, uno fra i primi a cadere. Eroe ignorato e oscuro, fra mille eroi ignorati che tutto offrono alla Patria, nell'ora del pericolo, perché la Patria sia libera e salva.

Il tempo sereno, quando la famiglia era intatta, pareva di già lontano, quasi irreale, come un bel sogno bruscamente interrotto.

La mamma e i due orfani si erano dovuti affidare allo zio Lùcio, quello che vendeva panni e tela in fondo al corso. Zio per modo di dire... Un cugino del nonno paterno: l'unico parente che avessero in paese, o almeno l'unico che si fosse fatto avanti per aiutarli.

Gran brutta cosa essere poveri e soli! Zio Lùcio, con le sue arie da protettore pareva avere comprato la volontà delle tre creature.

- Così voglio fare e così faccio! - esclamava.

Oppure:

- Lo dico io e basta!

Non c'era da replicare. Se replicavano, egli gridava, stropicciandosi le due mani, grosse pelose, dalle unghie sporche:

- Bravi! Fate pure di testa vostra. Io per me, me ne lavo le mani. Così... vedete!... Ma mi capite, eh! Fate come se lo zio Lùcio non ci fosse più!

E perciò facevano come lo zio Lùcio voleva. Il pane è il pane! Tutte le parole sono belle e buone, ma quando la credenza è vuota e la mamma non ha un soldo nel borsellino, bisogna andare nella bottega in fondo al corso e domandare, sottovoce, ché non odano gli altri:

- Zio Lùcio, vuol prestarmi dieci lire? - (Diceva sempre così, Giovannino).

- Prestate! Mi faresti ridere, se ne avessi voglia! Prestate!

- Le renderò, zio Lùcio. A pena guadagnerò, io...

- Tu? Vagabondo! Mal'erba! Se volessi guadagnare per davvero, saresti lontano, a girare con le pezze di tela sulle spalle! Come giravo io alla tua età, e non mi facevo mantenere da nessuno.

Zio Lùcio, che non poteva soffrire i libri e la gente istruita, era persuaso che il ragazzo fosse un gran fannullone. A studiare si spende, non si guadagna quattrini! e la madre avrebbe dovuto imporsi, invece di pungersi le dita per quel piccolo presuntuoso!

Giovannino sapeva benissimo che a studiare si spende; e certe volte si domandava se non avesse avuto il dovere di lasciare la scuola e di mettersi a un mestiere qualunque. Allora, così pensando, il proponimento di esercitare una professione, come il povero papà, gli pareva una meta troppo lontana - da non raggiungere mai.

Ma la mamma e Bice si ribellavano:

- Non lasciarti continuare sarebbe lo stesso che stroncare una pianta! Tu sarai domani il nostro sostegno.

Il fanciullo, un po' rinfrancato, tornava al suo fermo proposito. Studiava più del necessario, con l'ardente accorata volontà di pigliare la media, di levarsi dagli occhi lo spauracchio delle tasse da pagare...

Spesso zio Lùcio se la pigliava anche con Bice, sebbene la fanciulla non andasse più a scuola. Borbottava:

- Tua sorella dovrebbe essere qui, invece di fare la signorina di casa! Dovrebbe farmi risparmiare la mesata che do al garzone. Ma voi due non sarete mai buoni a qualche cosa!

Giovannino trasaliva, quando il rozzo parente nominava la sua gracile e fine sorellina.

- Questo no! Questo no! - ripeteva fra sé e sé stringendo i pugni. - Finché ci sono io!...

Ma che faceva lui, per la sua piccola Bice? Niente. Lei, piuttosto, si sacrificava; lei restava ore ed ore curva su un fine ricamo; per aiutare la mamma a guadagnare i soldi che ci volevano per le scarpe, per i libri e la carta, e per tante spese che parevano inutili allo zio Lùcio! Era lui, intanto, che pesava in casa, mentre l'avvenire restava così lontano!

Piangeva allora, Giovannino, peggio di un bimbo; e sempre veniva la mamma a chetarlo:

- Che t'ha fatto lo zio?

- Niente.

- ... non ti hanno dato un punto buono?...

- No... no...

- E allora?

Allora il pianto finiva in un sorriso e in un bacio. E tutti e tre, uniti dall'amore, si sentivano forti, quasi lieti, nell'intrecciare insieme le speranze buone.

Oh! i bei disegni, verso il crepuscolo, quando la mamma e Bice avevano posato il lavoro e Giovannino riponeva i suoi libri! Per risparmiare il lume, d'estate cenavano sul terrazzo al chiaro della luna.

Al chiaro della luna parlavano dell'avvenire ancora lontano e tutto pareva facile e bello. Giovannino stava per ottenere la licenza del ginnasio; il tempo passava, galoppando, e la fortuna accarezzava i capelli un po' grigi della mamma, quelli chiari degli orfani...

Il liceo! Tutti a Palermo! Zio Lùcio poteva restare in pace! Il fanciullo avrebbe trovato da fare, nelle ore libere. Una grande città è differente dal paese senza risorse; chi vuole, può occuparsi in qualche fabbrica, in qualche tipografia, in una biblioteca... anche in un ufficio... senza lasciare la scuola.

Al chiaro della luna tutto era facile e vicino. E la mattina ripigliavano le solite occupazioni, con l'animo un po' triste e un po' lieto come certe giornate fatte di nebbia e di sole.

Ma quando la mamma si mostrava troppo scoraggiata, il fanciullo non osava più sperare cose buone.

Che fare sul momento?

Sul momento era un povero ragazzo che doveva andare a pitoccare qualche lira allo zio Lùcio il quale fingeva di non sentire e si faceva ripetere la domanda due o tre volte davanti al giovane di bottega, e poi borbottava che i parenti poveri costano caro; un povero ragazzo che scriveva la brutta copia dei compiti sul foglio da avvolgere del pizzicagnolo o sul rovescio dei manifesti per non comprare troppa carta, che imparava le lezioni all'alba per non sprecare il lume di sera...

Quel giorno era oppresso, quasi avvilito.

- Siamo troppo sfortunati!...

- Sì, mamma, sfortunati...

Bice deperiva. Se rideva mostrava le rughe, agli angoli della bocca, come una vecchina. Una pena, vederla ridere!

Lavorava troppo. Lavorava alla pari della mamma.

- Smetti! - le dicevano.

- Non sono ancora stanca! - rispondeva.

Ma era stanca. Si scorgeva la stanchezza per le due pennellate azzurrognole che le cerchiavano gli occhi.

Dovevano essere terminati certi ricami ordinati da una sposa, certe trine che avrebbero ornato il corredino di un bimbo. E Bice, che sapeva di essere - così svelta e brava - un grande aiuto per la mamma, non voleva smettere.

Una vicina aveva osservato:

- Questa ragazza vuol essere curata a tempo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 89

Tapioca



Dopo cena (quando tutta la famiglia era riunita) la signora Clotilde, ripigliando lo stesso argomento con le stesse parole, concludeva invariabilmente:

- Non ne posso più, e la licenzierò.

Allora la nonna osservava:

- Chi farà la spesa? Chi rigovernerà?

E il signor commendatore, consorte della signora Clotilde, aggiungeva:

- Non ne troverai un'altra che si contenti dello stesso salario. Il mio segretario spende sessanta lire al mese ed è servito peggio di noi.

La discussione continuava un pezzo su questo tono, mentre Gigi si occupava a riempire di pupazzetti i margini del giornale della sera, e Lella diceva di sì e di no col capo aggravato dal sonno: alla fine erano tutti d'accordo nel decidere che non dovevano licenziare Tapioca.

In verità, la signora Clotilde aveva molte buone ragioni di lagnarsi: Tapioca non rubava, Tapioca non rompeva le stoviglie, Tapioca non spettegolava coi portinai, alla pari delle altre serve del palazzo, eppure Tapioca era insopportabile.

Ma si chiamava proprio Tapioca?

No. Si chiamava Luigina. Un giorno Lella aveva detto:

- Luigina fa pensare alla tapioca...

E non si chiamò più, la nuova servetta, col suo vero nome.

La prima volta che si sentì chiamare così, Luigina levò i piccoli occhi tondi e sporgenti pieni di diffidenza, e osò domandare alla padroncina:

- Che significa tapioca?

- Niente. È un soprannome molto carino!

E Lella rise a scroscio, e fece due piroette. Luigina, che conosceva bene la signorina Lella, non volle provocare nuova allegria con le proprie insistenze; ma si imbronciò. E parve più brutta, con la bassa fronte corrugata.

Sì, perché Luigina era anche brutta: oggi un po' meno, ieri un po' di più, ma sempre brutta, senza rimedio. E quando una cosa non le piaceva, diventava addirittura comica.

Era a pena a pena più alta di Lella, senza vita, con le braccia lunghe lunghe: l'unica sua bellezza erano i capelli, neri e folti, ma li portava tirati sulla fronte e arrotolati sulla nuca come il fondo d'un canestro.

Pure assicurando di avere vent'anni, e di avere servito in altre case, si era contentata di un piccolissimo salario. La signora Clotilde, che l'aveva incontrata in una agenzia di collocamento (Luigina era in compagnia d'una cugina più grande, che si era subito collocata come cameriera), credette lì per lì di avere pescato un tesoro. Ma poi!

Luigina non sapeva fare niente.

- Niente, capisci? - sfogava la signora Clotilde col marito. - Debbo insegnarle ad apparecchiare la tavola!

- È un po' deficente - aveva osservato il commendatore. - Non vedi che è rachitica? A vent'anni non è più alta di Lella.

Fosse stata solo rachitica, pazienza! Ma era lenta, impacciata, distratta.

Eccola che spazza e spolvera, sorvegliata dalla padrona; ma se la padrona si allontana le sue braccia si allentano piano piano, come il movimento d'una macchina senza olio.

Come non chiamarla Tapioca?

Lustra le scarpe e resta immobile, con la spazzola in mano, assorta come chi ascolta: ha certo dimenticato le dieci scarpe che aspettano in fila. Asciuga i piatti, davanti la finestra aperta, e gli occhi restano sperduti nello sfondo di mare lontano.

- Tapioca! Marmotta! Cretina!

Sobbalza, più comica di un burattino tirato dal filo all'improvviso.

- Che facevi? Dormivi in piedi?

Balbetta, stralunata, qualche scusa, e ripiglia la faccenda, curvandosi come se i rimproveri della padrona fossero una grandinata sulle gracili spalle - troppo gracili per vent'anni finiti!

Lella si interessò subito della servetta nuova. Il cagnolino era morto, il cardellino fuggito; balocchi, da quando c'era la guerra, non se ne compravano più: non disponeva, per divertirsi, altro che di Tapioca.

Salita su una seggiola, sfilava, adagio adagio, tutte le forcine dal canestro di capelli lasciando penzolare i treccini - quattro, sei - sul collo. Nascondeva le spazzole e gli stofinacci per veder la servetta affannata a cercare di qua e di là. Infilava uno spago nei manichi dei coperchi, di modo che, se Luigina ne prendeva uno, tutti gli altri precipitavano strepitando. Spegneva il gas, e la pentola non bolliva più a tempo. Buttava l'acqua calda da rigovernare.

E Gigi la comandava con una alterigia che pareva la serva la tenessero solo per lui.

- Tapioca, portami un bicchiere d'acqua! Pulisci subito le mie scarpe!

Pure Luigina non meritava di essere maltrattata così. Ella faceva un miglio di strada per comprare il pane bianco (lo vendeva un tale di nascosto), perché a Lella non piaceva il pane scuro. Macinava il caffè, all'alba, e correva tra le prime dal lattaio, perché Gigi - che andava da un compagno prima della scuola - non aspettasse troppo la colazione. Così lenta, così distratta, faceva miracoli per contentare tutti. Ma i padroni non s'accorgevano d'altro che della sua incapacità e si ostinavano a lagnarsi; il signorino Gigi seguitava a fare il prepotente; e la signorina Lella si divertiva sempre a inventare dispetti, uno più crudele dell'altro.

- Stupida! Marmotta!

Sì, veramente stupida, pareva.

Ecco: dimenticando le faccende, in cucina, guardava attonita il pezzo di mare che si scorgeva dall'alta finestra: un pezzo di mare che, da lontano, pareva sempre calmo e immobile - quasi come lo sguardo dei suoi occhi chiari.


Una sera, sul tardi, si sentì picchiare all'uscio, poi si sentì un grido di Tapioca. Un grido solo, che riempì tutta la stanza, paurosamente.

Il commendatore si levò in piedi, e ordinò a Gigi che si slanciava:

- Non ti muovere.

E mentre la signora Clotilde si stringeva alla nonna, egli volle staccare un fucile austriaco (sempre buono a far paura) dai cimeli di guerra. Subito l'atto gli sembrò ridicolo, e uscì gravemente, solo e inerme.

Si ripresentò seguito da un soldato che teneva Tapioca per la mano, come si tiene una bambina.

- Sedete - invitò, tornando a sdraiarsi nella poltroncina. - E spiegatevi pure davanti alle signore.

- È il padre di Luigina - aggiunse.

Il soldato sedette, tenendo il berretto fra le mani: aveva i capelli grigi, la barba lunga di otto giorni, e gli occhi inquieti.

- Vossignoria hanno ragione - rispose umilmente. - Ma per spiegarmi dovrei fare un po' di storia, e temo di seccare.

- Parlate.

- È che il mio rozzo linguaggio non sa servirsi di poche frasi.

- Non importa - ripeté il commendatore con un tono secco e una faccia superba che facevano morire le parole in bocca.

Il soldato guardò con aria di rimprovero Luigina, che abbassò il capo.

- Spiegatevi, dunque.

- Ecco - cominciò l'uomo osservando il berretto come se non parlasse ad altri che al suo muto compagno. - Io ero muratore e guadagnavo benino. La mia povera moglie e questa bambina, facevano le signore, con rispetto a vossignoria. Poi fui chiamato soldato. Certi cattivi compagni mi consigliavano di nascondermi, ma io che la fronte la voglio portare alta, partii. Mia moglie scriveva ogni giorno, e le sue lettere mi alleggerivano la pena della lontananza. Ogni tanto c'era anche un saluto di Luigina...

- Tapioca sa scrivere? - interruppe Lella.

Tutti guardarono Lella con certe occhiate che pungevano come spilli. Il padre di Luigina, perdendo il filo del racconto, domandò:

- Perché Tapioca?

- Non badate - scusò la nonna. - È un vezzeggiativo. La piccina la chiama così perché Luigina, lenta e impacciata...

- Lenta e impacciata? - esclamò l'uomo sorpreso. - La Luigina che sapeva passeggiare su un muricciolo? Un diavoletto che aiutava la madre a lavare, a fare il pane, a strofinare i rami...

- Qui, però, non sapeva fare niente!

- Quando uno è levato dalla sua casa, dalle sue abitudini, pare sempre stupido.

- Dicevate che Luigina scriveva... - interruppe il commendatore bruscamente.

| << |  <  |