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| << | < | > | >> |Indice6 LE MONTAGNE D'EUROPA 8 Problemi comuni 10 Contadini di montagna del Sud Tirolo in trasformazione 12 Riti alimentari 14 I miei antenati 15 Grandi famiglie e società rurale 16 Dall'interno e dall'esterno 17 Il futuro dei bambini 19 Dio, mandaci la pioggia! 20 Il mio bisnonno 22 Un piccolo maso in Sud Tirolo 24 Le donne delle montagne 26 Fiori alle finestre 28 Sotto il monte Rosa 30 Se i contadini di montagna scendono a valle 31 Armonia 32 LE MONTAGNE DELL'ASIA 34 Nazionalismo come stimolo 36 Inshallah 38 Tra il Demavend e il Sahara 39 I curdi 40 Dimostrazioni di forza e terrore 42 Esodo in Caucaso 43 Fiducia atavica 44 L'eredità culturale come vincolo 46 Popolazione rurale tra l'Oxus e l'Hindukush 47 Ai piedi dell'Hindukush 48 Gioco e lavoro dei bambini 50 Il pane 52 Come ospiti in cammino 54 Le valli disabitate del Tien Shan 56 Gli hunza, tra il Karakorum e l'Himalaya 58 Ultar Nullah 60 Roccaforte e pascoli 63 Isar Khan 64 Latte e burro 65 Rischi in alta montagna 66 Shangri La 67 Antiche arti 68 Realizzare se stessi 70 Preghiera e sciopero 70 I balti 72 Semina scarsa su una terra dura 74 Pulizia 76 Prima che il tempo li raggiunga 78 In alto oltre l'ansa dell'Indo 80 Incertezza 81 Autunno nella valle di Rakhiot 84 Esodo 86 Come secoli fa 88 A cavallo e nelle iurte, come un tempo 90 Identità regionale 92 Sotto la protezione di madre, padre e muri 94 Uiguri nel Taklimakan 95 Strati 96 Danze e giochi 98 Ladakh, l'ultima roccaforte del lamaismo 100 Architettura dei paesaggio 102 Regole della vita in comune 103 Nascoste e sporche 104 L'altopiano del Tibet 106 Amuleti e ornamenti 108 Karma 111 Ricchi sono solo i monasteri e gli dei 112 Morte, distruzione e ricostruzione 114 Migrazione di popoli 116 Sale dal Tibet 118 Attraverso il Tibet 120 Nel Tibet del nord 123 Nella terra degli sherpa 124 Alberghi, l'inizio del turismo 126 Il vecchio lama di Pangboche 128 I portatori d'acqua degli scalatori 130 Lavoro e pericoli 132 Guide alpine in Europa e sherpa sull'Himalaya 134 Contadini di montagna nepalesi 136 Urkien 138 Mani Rimdu 140 In cammino 141 Sentieri ripidi 142 Gli sherpa del Rolwaling 144 Impotenza 147 L'artigianato 148 Povertà e ricchezza 150 Religiosità 151 Fede, felicità e bellezza 152 Non solo un re 154 Centomila monaci circondati dal mistero 156 Il lavoro dei bambini 157 Alcol 159 Con gli occhi aperti 161 Cultura tibetana in Nepal 162 Inverno nel Mustang 164 Cascine in inverno 166 Acqua e mulini 167 Villaggio in inverno e in estate 169 Inverno a Manang 170 I granai sono chiusi 172 Ritorno al Medioevo 174 Cieli della migrazione annuale 176 LE MONTAGNE D'AMERICA 178 Sulle vette delle Ande 179 Sospinti verso le valli impraticabili delle Ande 18o Morte a Pokpa 182 Nessun riparo nella Puna de Atacama 184 I valori di chi resta 186 Window Rock e il Terzo mondo 188 Fiducia nella terra 1gi Dall'esterno e dall'interno 192 Kucherla 194 LE MONTAGNE DELL'AFRICA 196 Sempre in cammino 198 Alis, la guida dei masai 200 Uomini nel deserto 202 Architettura senza architetti 204 LE MONTAGNE DELL'OCEANIA 206 L'altopiano della Nuova Guinea 208 Nessuna paura dei cannibali 210 Freddo, fame e piedi nudi 212 Sulle tracce delle ultime tribù di montagna 214 APPENDICE ETNOLOGICA 224 Consigli utili per chi viaggia 225 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 7LE MONTAGNE D'EUROPAIl motivo principale che mi ha spinto a scrivere questo libro è il fatto che sono cresciuto in un paese di contadini del Sud Tirolo e ancora oggi vivo in montagna. Se non avessi mai vissuto e lavorato insieme ai contadini delle Alpi, non avrei potuto capire neppure gli altri popoli che vivono in montagna. Per questo mi sono familiari i tetti delle case di Ilaga, il letame davanti alle stalle di Hunza o lo sgabello per mungere a Namche Bazar. Non ho osservato le tribù montane di tutti i continenti per indagare le loro condizioni di vita, ho soltanto cercato di capire in che cosa si assomigliano o si differenziano i loro mondi. | << | < | > | >> |Pagina 16DALL'INTERNO E DALL'ESTERNODa bambino trascorsi due estati lavorando nel Braunhof sul Renon. Ho lavorato nelle stalle, nel bosco e nei campi. Durante la fienagione bisognava alzarsi molto presto, alle quattro, e spesso era già notte quando, alla sera, ritornavamo a casa. Questa straordinaria esperienza in un maso mi ha permesso di capire molto bene la vita dei contadini. In casa, alla domenica, dalla finestra, seguivamo con lo sguardo i «signori» che passeggiavano per il sentiero tra l'abitazione e la stalla con il magazzino dei foraggi. E quanta rabbia provavamo quando i villeggianti stavano a guardare, per ore intere, come noi mettevamo insieme il fieno, avvolgendolo nei teli. Ci guardavano come animali in uno zoo. In seguito, durante le mie spedizioni, sebbene all'inizio inseguissi soltanto mete alpinistiche, abbandonai per la prima volta il mio ambiente culturale e imparai a conoscere paesi stranieri. Ben presto cominciarono a interessarmi non solo le vette ma anche gli uomini che vivono ai piedi delle grandi montagne. La cosa che mi colpiva ancor più degli aspetti sconosciuti, dei riti e dei modi di vivere, era la naturalezza che i bambini dei contadini esprimevano ovunque, sebbene fossero obbligati a lavorare insieme agli adulti. Nei bambini dei portatori più poveri, uomini che avevano imparato soltanto a servire, trovai quella fiducia in se stessi che manca al cittadino che si crede affermato. Non è la fierezza che questi uomini contrappongono alla crescente angoscia esistenziale di chi mira unicamente al proprio benessere, è la gioia di vivere riuscendo a nutrirsi dei propri prodotti. | << | < | > | >> |Pagina 17IL FUTURO DEI BAMBINIQuanti genitori che vivono nelle grandi concentrazioni urbane sognano che i loro bambini possano giocare nei prati e nei boschi. Oggi i sentieri dove si può gridare e saltare liberamente, i fienili e le stanze per accogliere tutti quando piove o nevica, sono considerati un lusso. I bambini dei contadini di montagna vivono ancora questa realtà quando iniziano a esplorare e conquistare il loro mondo. Ed è per questo motivo che, al momento di affrontare la prova della scuola, trovano difficile abituarsi alle aule piccole e sovraffollate delle città rumorose e caotiche. Durante gli anni delle elementari, affaticati dal lungo tragitto tra casa e scuola e dal lavoro in casa, a volte restano indietro rispetto agli altri bambini; nelle scuole superiori invece è l'animo che ne soffre perché, costretti in collegio, devono vivere lontani dai genitori e dall'ambiente familiare. Questa situazione è la medesima ovunque, che si tratti di un bimbo di contadini del Sud Tirolo o delle ragazze curde. Nel frattempo in molti insediamenti montani sono sorte le scuole. Sull'altopiano dell'Irian Barat i missionari olandesi si occupano della scuola, nel Solo Khumbu Edmund Hillary, il primo scalatore dell'Everest, ha fondato una scuola, e in altri luoghi sono intervenute associazioni private appoggiate dallo stato. Tuttavia soltanto gli insegnanti in grado di capire le condizioni particolari in cui crescono i bambini dei contadini e di iniziare a gettare le basi della loro cultura, possono costituire un valido aiuto. In caso contrario molti saranno costretti ad andare nelle città per consentire ai fratelli, svantaggiati fin dall'inizio, di sopravvivere nei villaggi. | << | < | > | >> |Pagina 28SOTTO IL MONTE ROSANell'estate del 1993 mi recai sotto il monte Rosa insieme al professar Zanzi e a suo figlio per un motivo preciso, non per una semplice passeggiata in montagna. Il mio interesse era rivolto ai walser, che da secoli vivono nelle valli ai piedi di questo possente massiccio, e alla possibilità di sopravvivenza della loro cultura. Ci spostavamo da una valle all'altra per incontrare la gente e parlare. Osservavo le persone e facevo domande. Non ottenni risposte. Sul monte Rosa gli uomini sono molto silenziosi, come le gole, profonde e cupe. Ogni cosa resta senza risposta. Le valli giacciono tra le montagne come bocche mute, aperte. Spalancate ma senza che ne escano suoni. Gli uomini, che un tempo continuavano ad arrampicarsi sui pendii delle montagne per creare insediamenti, fissavano il fondo di queste gole come pervasi da una sensazione di vuoto. Ed era così ovunque: sull'Himalaya, sulle Ande, nel Caucaso o sulle Alpi. Questi uomini di montagna si sono costruiti case adeguate al clima, utilizzando i materiali del posto, di solito pietra e legno. Le tecniche, gli attrezzi e il ritmo di lavoro in molti luoghi sono così simili che le distanze tra le singole popolazioni a volte confondono. Sherpa e walser, indios e cimbri potrebbero essere vicini di casa. I torrenti, le barriere di detriti, le frane in montagna sono simili dappertutto e coloro che devono vivere cercando l'armonia sui pendii ripidi dei monti diventano ingegnosi quando sono minacciati dalle catastrofi. Ovunque sulla terra, dove le montagne s'innalzano fino al cielo, l'uomo cerca di sfruttare i terreni da pascolo in alto, fino al limite della vegetazione arborea. Conosce la conformazione della regione e non ha bisogno né di carte geografiche né di bussola per correre dietro agli animali domestici o alla selvaggina; con un complicato sistema di canali porta l'acqua dai nevai della vetta fino ai terreni coltivati a fondovalle per irrigarli. Con la medesima ostinazione con cui le montagne un tempo si sollevarono dal profondo della terra verso il firmamento, l'uomo usa i luoghi pianeggianti come campi, dissoda le foreste, costruisce sentieri, ponti, case. La vita degli uomini delle montagne, diversamente da quella di coloro che vivono nelle città, pare serena e tragica nello stesso tempo. Non ho mai voluto scoprire se dietro tutto ciò ci sia la consapevolezza che non esiste alcuna via di scampo oppure semplicemente l'ingenuità di coloro che sono prigionieri delle gole e delle zone detritiche. Nel corso dei secoli l'uomo «razionale» ha costruito un regno di comodità e sicurezze, la città, e considera «normale» questo modello di organizzazione sociale. Tuttavia c'è ancora qualcuno che continua a vivere tra le montagne. Lassù cercare di cavarsela è molto diverso dal vivere in un bassopiano: faticoso, con molti impedimenti, monotono. Malgrado tutto, vogliono restare lassù. Anche gli antenati soffrivano di nostalgia e d'angoscia e spesso pativano il freddo. Nascevano e morivano in solitudine ma non abbandonavano le loro cascine, le valli, le montagne. Essere soli è come essere lassù, sopportabile fintantoché si risparmia il proprio mondo dall'ordine sociale delle città. Sono molto pochi coloro che raccontano le loro storie nei libri o nei film. Vivono la loro vita fino alla fine e ogni singolo destino resta visibile nei tetti, nei muri, nei canali d'acqua. La loro realtà non ha bisogno di essere verificata. Anche gli arnesi degli artigiani vengono inventati e dimenticati. | << | < | > | >> |Pagina 184I VALORI DI CHI RESTANessun dubbio, abbiamo portato i valori di chi resta nelle nazioni industrializzate. Collegati in rete ovunque e, in qualche modo, socialmente sicuri, controlliamo il mondo e il nostro denaro controlla il mercato capitalistico. Tuttavia la nostra vita sembra essere costantemente minacciata. Le situazioni di allarme si susseguono, e così pure i programmi d'emergenza. Minacciati dall'esaurimento delle fonti di energia e dalla catastrofe climatica, spaventati dall'AIDS e dalle intossicazioni alimentari, preoccupati per la foresta tropicale e per la molteplicità delle specie, la speranza e la gioia di vivere si dileguano. Una vera tragedia ma senza rimproveri o dubbi e alla fine senza la nostra partecipazione: il declino dei popoli delle montagne. Molti credono che l'ultimo atto dell'esodo dalle montagne significhi un guadagno per noi, un beneficio per le città. «I popoli delle montagne devono scomparire?» chiedo a me stesso e ai miei lettori. Forse presto ci ricorderemo di loro nei nostri musei, degli hunza e degli sherpa, dei walser e degli indios, delle società tribali senza rappresentanti, delle società non costituite in nazione, degli aborigeni dei continenti più lontani. Tra alcuni decenni forse li avremo scacciati, integrati, assimilati oppure molto semplicemente eliminati. Ma quando avremo tolto all'ultimo khampa il suo orgoglio, al dani della Nuova Guinea l'astuccio penico e alla donna ladakhi i gioielli di turchesi per metterli nel nostro zaino, sarà troppo tardi. Perché se berremo il tè al burro sotto qualche tetto di lamiera o in qualche albergo di paese e ci entusiasmeremo per i tempi passati, nessuno saprà più che cosa è andato realmente perduto. Le strade, le case e gli stili di vita saranno come i nostri. Se vogliamo «civilizzare» gli uomini delle montagne, diventeranno come noi, nostri pari. Ma come faranno le generazioni future a capire che cosa è andato perduto con il declino delle culture di montagna? Chi sentirà la mancanza di qualcosa che non ha mai conosciuto? Cento anni fa un terzo della superficie terrestre apparteneva ancora ai popoli delle montagne. Ma gli uomini delle montagne non hanno costituito uno stato proprio, non hanno conservato le loro religioni, di rado hanno creato industrie. Non si espandevano, non facevano i missionari. Non investivano il denaro in azioni, non brevettavano il loro know-how. Sono stati conquistati, incorporati, evangelizzati, senza che potessero difendersi. Per i colonialisti non sono mai stati più che popolazioni esotiche. Esistevano ma non contavano. Certo, noi li visitiamo, offriamo loro aiuto per lo sviluppo dei turismo, li rispettiamo, paghiamo per i loro servizi, ma non cerchiamo di capirli. Quale forma dovrà assumere dunque una promozione del turismo che risulti adeguata anche per loro?
Se la povertà materiale dovesse essere paragonata
alla diaspora culturale, nel nostro mercato globale
potremmo rinunciare alla cultura dei caucasici, dei masai
e dei tuareg. Ma tutte queste popolazioni di montagna
hanno un'esperienza di vita così grande per ciò che
concerne la sopravvivenza che potremmo diventare loro
eredi: ricchezza di sentimenti, parsimonia, rispetto di fronte
all'universo. Conservare tutto ciò sarebbe più importante
del tentativo di renderli simile a noi. Il fatto che ai
khampa, ai kalash e ai curdi non interessi cambiare il loro
mondo in un miscuglio di carceri e parchi per il tempo
libero, grandi magazzini e discariche, non significa negare
la civilizzazione. Non devono diventare tutti come noi.
Gli uomini che vivono in montagna hanno bisogno di
mantenere la coscienza della propria identità, i valori che
corrispondono al loro modo di vivere, i diritti sulla terra
in cui vivono, le scuole che si fondano sul sistema di valori
della loro cultura e non della società industriale. Sono loro
che devono poter stabilire il grado della loro povertà
e del loro isolamento. Forse lo sparuto manipolo
degli scampati avrebbe ancora una possibilità di restare
lassù dove solo loro sono in grado di sopravvivere.
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