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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 Parte prima Dal 1850 alla prima guerra mondiale 19 Capitolo I Dall'alpinismo d'epoca vittoriana al nazionalismo italiano 21 Capitolo II Il Club Alpin Français: "Pour la patrie par la montagne" 43 Capitolo III I club alpini in area germanica 61 Parte seconda La prima guerra mondiale e le sue conseguenze 93 Capitolo IV Montagna ed eroismo 95 Capitolo V Il DÖAV e il CAI dell'immediato dopoguerra 109 Parte terza Tempesta a est, sereno a ovest 135 Capitolo VI Dall'alpinismo elitario all'arianizzazione del DÖAV 137 Capitolo VII L'alpinismo in Francia dal 1919 al 1939 149 Parte quarta L'alpinismo negli stati totalitari 159 Capitolo VIII Alpinismo e fascismo 161 Capitolo IX Alpinismo, austro-fascismo e nazismo 171 Capitolo X Montagna, alpinismo e ideologie totalitarie 189 Capitolo XI L'alpinismo sotto Vichy 209 Conclusione 223 Note 236 Bibliografia 253 |
| << | < | > | >> |Pagina 9In questo saggio si studiano le relazioni tra l'alpinismo e l'ideologia nazionalista dal 1850 al 1950, nel contesto geografico delle Alpi. Prima della metà del XIX secolo sono pochi gli eventi significativi per la storia dell'alpinismo, e quasi tutti di interesse aneddotico. Si possono citare l'ascensione del Monte Ventoux compiuta dal Petrarca il 26 aprile 1336, quella del Rocciamelone a opera di Rotario d'Asti il l° settembre 1358, la traversata dei Krimmler Tauern di Rodolfo IV d'Austria nell'inverno del 1363, le escursioni in montagna dell'imperatore Massimiliano d'Austria verso il 1500 o quelle di un certo Jakob von Payersberg nel 1552. In territorio francese assume rilevanza particolare l'ascensione del Mont Aiguille di Antoine de Ville nel 1492. Sul margine est dell'altopiano del Vercors si trova questo colosso (2086 m) di roccia calcarea dalle ripide pareti, sormontato da un pianoro erboso lungo circa un chilometro. Menzionato fin dal 1211, il monte è al centro di numerose leggende. Nel 1349 il Delfinato, e quindi il Mont Aiguille, era stato annesso alla Francia; nel 1483, morto Luigi XI, saliva al trono il figlio Carlo VIII, già governatore della provincia. Nel 1490 questi incaricò uno dei suoi ufficiali, Antoine de Ville, di scalare la montagna: il 26 giugno 1492, una squadra composta da esperti di fortificazioni, un carpentiere e un tagliapietre raggiunse la vetta. Questo evento alpinistico, che venne debitamente registrato, ha suscitato l'attenzione degli studiosi. Non sfuggirà al lettore la contemporaneità dell'evento con la scoperta dell'America, come alcuni ricercatori hanno evidenziato investendo l'ascensione di un valore simbolico. L'impresa - si trattasse o no dell'ordine del re - indubbiamente costituì un atto di rilievo politico. Per quell'epoca non è possibile parlare di nazionalismo; d'altra parte "gli intenti non avevano nulla di sportivo né di romantico", criteri giustamente pertinenti alla definizione dell'alpinista. Risultano invece, in quel fatto, due tratti caratteristici della relazione alpinismo-politica: il patrocinatore illustre, perché "la portata simbolica dell'ascensione di un monarca o di un letterato è molto più evidente di quella di un ignoto montanaro", e la presenza di una cima particolare per forma, collocazione geografica o qualsiasi altra caratteristica suscettibile di assumere valore emblematico. Fondamentale è il fatto che una delle prime ascensioni non sia stata conseguenza della libera scelta di uno scalatore, ma abbia avuto un committente, ciò che le conferisce valore simbolico. Tuttavia, trattandosi di un evento isolato, non si può considerare la scalata del Mont Aiguille come termine a quo. Occorre attendere l'8 agosto 1786, con la prima ascensione del Monte Bianco a opera di Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard e la pubblicazione, l'anno seguente, del Voyage dans les Alpes d'Horace Bénédict de Saussure, perché la conquista di una montagna abbia vasta eco. Di questa impresa, i dettagli cronologici precisi e le figure dei protagonisti permettono di delineare il ruolo svolto dagli inglesi e anche quello d'Horace Bénédict de Saussure. Essa offre inoltre allo studioso molti elementi utili alla definizione della prima forma accertata di alpinismo, quella dell'alpinismo scientifico, e, ancora, illustra come la conquista della vetta abbia raggiunto una dimensione simbolica di rilievo grazie a un fenomeno di mediatizzazione (per quanto il termine possa qui sembrare inappropriato) senza precedenti. La pubblicità contribuì a rendere il Monte Bianco di gran moda. Philippe Joutard ha potuto parlare al riguardo di una "mise en littérature" dell'alta montagna, a dimostrazione "che l'alta montagna era essenzialmente un fenomeno culturale". Qui il termine "alto" riguarda più le caratteristiche simboliche che quelle geografiche, apparendo come la "manifestazione territoriale di un sistema di valori". All'epoca il Monte Bianco era il luogo "alto" per eccellenza, per il suo carattere glaciale, la sua altezza, perché scelto come luogo privilegiato di un'attività scientifica e per la sua verginità. All'inizio del XIX secolo l'attenzione degli alpinisti si spostò dal Monte Bianco a cime raggiungibili per vie più facili (vie normali), come quelle del Grossglockner nel 1800, del Mont Perdu nel 1802, dell'Ortles nel 1804, con un vero sviluppo dell'alpinismo. Ma era ancora poco rispetto all'esplosione degli anni 1840-50, preludio all'alpinismo sportivo e alla creazione dei club alpini. Tra le 81 date significative ricordate nella Grande Encyclopédie de la montagne, tre (3,7%) risalgono al periodo 1492-1700, cinque (6,1%) a quello 1700-1800 e dodici (15%) a quello 1800-1840, per un totale di venti imprese (25%) in un arco temporale di quattro secoli. Tra il 1840 e il 1900 sono menzionate 35 date, un po' più del 43%. È chiaro dunque che l'alpinismo si è sviluppato a partire dalla metà del XIX secolo, quando fu fondato il primo club alpino, l'Alpine Club, che segnò il passaggio da un alpinismo di circostanza a un vero movimento alpino. Di qui muove la presente ricerca. Essa si estende fino a comprendere il periodo del fascismo e del nazismo, e quindi la seconda guerra mondiale. Dopo il 1945 si è assistito a una mondializzazione dell'alpinismo con lo sviluppo, fra l'altro, dell'himalayismo e di nuove tecniche. Le prime spedizioni all'Himalaya risalgono alla metà del XIX secolo, ma l'ascensione della prima vetta superiore agli 8000 metri è avvenuta solo nel giugno 1950 con la conquista dell'Annapurna a opera di Louis Lachenal e Maurice Herzog. Tre anni più tardi Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing scalavano la più alta vetta della Terra, l'Everest. Nella seconda metà del XX secolo il rapporto dell'alpinismo con il nazionalismo si è nettamente attenuato. A partire dagli anni sessanta tutti i grandi alpinisti hanno trascurato, a torto o a ragione, le Alpi, salvo poi ritornarvi: esse hanno perso molto del loro interesse non essendo più gli unici punti di riferimento per le imprese di alto livello. È stata così scelta la data del 1950 come termine ad quem della ricerca. Le due date di inizio e di termine non si riferiscono dunque ad avvenimenti determinati e vanno interpretate come approssimazioni cronologiche. L'alpinismo è un'invenzione europea. Al principio è stato praticato quasi esclusivamente nelle Alpi; anzi, per lungo tempo ci sono stati soltanto tre grandi centri alpinistici: Chamonix, Zermatt e la regione di Grindelwald nell'Oberland bernese. Non sorprende quindi che la prima denominazione sia stata "alpinismo". Il termine "pireneismo" ha faticato a imporsi; "andinismo" e "himalayismo" sono apparsi più tardi, quando alpinisti europei sono andati a cercare in quelle montagne ciò che pensavano di non trovare più nelle Alpi, cime vergini. Tutte le lingue europee usano termini derivati dalla base "Alpi", anche se in tedesco ad Alpinismus si affianca il sostantivo composto Bergsteigen, in cui al più circoscritto "Alpi" viene sostituito il più generico "Berg". L'entità geografica delle Alpi non corrisponde tuttavia a un'unica entità politica, bensì a più stati, i cui alpinisti hanno partecipato in diversa misura alla storia dell'alpinismo: anche se gli inglesi, non appartenenti a uno stato alpino, agli inizi hanno svolto una funzione predominante, al successivo sviluppo hanno contribuito soprattutto gli austro-tedeschi, gli italiani, i francesi e, in modo un po' diverso, gli svizzeri. Alcune linee di confine degli stati alpini corrono sulle Alpi. Il loro tracciato è stato spesso modificato in seguito a conflitti bellici, con importanti variazioni dopo la prima guerra mondiale, in particolare tra l'Austria e l'Italia. Le questioni di frontiera hanno coinvolto anche gli alpinisti, e ciò spiega la scelta del tema qui trattato. Nel condurre la ricerca si è dovuto andar oltre alle dichiarazioni degli alpinisti e dei protagonisti dell'ambiente alpino. Lo scopo non era infatti soltanto quello di dimostrare che l'alpinismo è o fu un fenomeno nazionale, né che o questo o quell'alpinista era fascista o nazista, ma soprattutto di analizzare il contesto storico-sociale del movimento alpino, della sua organizzazione e del suo sviluppo in momenti e luoghi determinati. L'alpinismo non è unicamente un fatto di personaggi che percorrono le montagne per piacere o per altre ragioni, ma è anche un movimento strutturato che, in quanto tale, ha accolto due aspetti della nostra civiltà. Il primo è il bisogno dell'uomo di scoprire luoghi nuovi, cercare, esplorare, osare, a qualunque prezzo, compresa la morte. Fu così che nel corso della storia Marco Polo, Cristoforo Colombo, Fridtjof Nansen, David Livingstone, per citarne solo alcuni, sono diventati grandi esploratori. Il secondo è rappresentato dal configurarsi di un nuovo rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero, che ha permesso a una piccola élite, di ricchi inglesi, tedeschi, austriaci, francesi, italiani e svizzeri, di inventare e praticare tale attività. Ma su quale pianeta vivono gli alpinisti, questi strani esseri apparentemente al di sopra di ogni contingenza materiale, indipendenti da ogni sfondo sociale tangibile? Sono davvero distaccati dal reale, da ogni legame familiare e da ogni gruppo sociale? Non è questa, piuttosto, un'immagine che si è voluta dare, che gli alpinisti hanno voluto darsi, ma che è soltanto un aspetto di una realtà più vasta e più complessa? Perché, in definitiva, che cosa è la montagna se non un mucchio di sassi dalle forme più o meno estetiche, dal clima spesso poco clemente, luogo di pericolo e di sofferenza? Il fatto che l'uomo l'abbia potuta personificare proiettando su di essa gioie e dolori, paure e fantasmi, e l'abbia così trasformata e plasmata, ha condotto a una mistificazione, che a sua volta ha dato vita a un'ideologia o ha facilitato il compito di uomini politici fornendo loro argomenti ad esempio sulla natura dell'uomo. Diventa dunque fondamentale individuare con esattezza quando e perché sia avvenuta questa "apologia della finzione". | << | < | > | >> |Pagina 16Un'altra categoria è costituita dai romanzi di montagna, il genere letterario in cui la montagna è il tema, oppure lo sfondo o la professione di un protagonista, e che comprende opere molto diverse come La montagna incantata di Thomas Mann e Premier de Cordée di Roger Frison-Roche e quasi tutti gli scritti di Louis Ferdinand Ramuz.Si aggiungano poi le biografie e le autobiografie di alpinisti famosi, genere molto diffuso in cui si trovano i nomi di Georges Livanos con Al di là della verticale (insieme di elementi biografici e racconti di escursioni) e Cassin, Hermann Buhl con È buio sul ghiacciaio, Douglas Busk con Armand Charlet - Portrait d'une guide. Tutti gli scritti fin qui menzionati sono esempi della scrittura della montagna, perché costituiscono o, meglio, istituiscono la montagna e l'alpinismo quali temi specifici. C'è poi tutta una letteratura secondaria per la quale la montagna e l'alpinismo sono invece oggetto di studio, rappresentata dalle opere a carattere scientifico redatte da geografi, geologi, etnologi, le quali, a parte rare eccezioni, esulano da questo studio. In compenso, le opere di critica letteraria, le storie generali dell'alpinismo, quelle dei movimenti alpini o dei diversi settori delle Alpi, redatte da alpinisti, storici, sociologi ecc., costituiscono una preziosa fonte d'informazione. Non si dimentichino gli scritti degli specialisti delle diverse attività sportive, le cui riflessioni su sport e politica sono spesso simili a quelle qui condotte. Anche del dibattito spesso vivace e sempre attuale circa la questione se l'alpinismo sia o no uno sport si troverà traccia nei capitoli seguenti. I lavori scientifici si differenziano dagli altri perché privilegiano uno studio sistematico dei rapporti tra alpinismo e politica, società, storia, seguendo in ciò il principio enunciato da Pierre Arnaud di "inserire le attività fisiche e sportive nel loro contesto sociale e culturale". Questa tendenza che Hoibian chiama "sociologia storica", piuttosto che "socio-storia" o "storia sociale e culturale", derivata dagli studi di Pierre Bourdieu, utilizza in primo luogo il concetto di campi. Essa mira alla definizione di strutture sociali caratterizzate da stili di vita e abitudini di comportamento e di pensiero e comprendenti classi e sottoclassi dotate di contenuti specifici. Questa ricerca s'inscrive allora nel quadro più generale di una storia dell'educazione fisica e dello sport, a sua volta inclusa in una storia più ampia delle istituzioni e, fra queste, delle associazioni: "Per riassumere dirò che ci si trova confrontati con molteplici aspetti della vita politica, economica e culturale di un paese, nelle diverse fasi del suo sviluppo. Si potrebbe arrivare a una storia globale ideale, al tempo stesso analitica e sintetica, quale hanno raccomandato i fondatori delle Annales e i loro epigoni". In questo ambito, contrariamente alla gran quantità di testi appartenenti alla letteratura di montagna i documenti scarseggiano. Il collegamento dell'avvenimento sportivo, qualunque sia la sua natura, col suo ambiente, ciò che Catherine Loveau chiama "il resto della società", costituisce un approccio recente, alla cui origine sta l'ipotesi comunemente ammessa "che l'indipendenza del movimento sportivo è un'illusione" e che lo studio del fatto sportivo richiede un metodo d'indagine basato su inchieste, studi cronologici precisi e di approfondimento fino al confronto tra i diversi ambiti delle scienze sociali. Paul Veyne, storico francese, aveva tracciato, nel 1979, il quadro di una possibile ricerca critica sull'alpinismo. Egli mette in parallelo fatti di storia generale ed episodi della storia particolare dell'alpinismo. Il primo di questi fatti è la necessità "di un gruppo sociale che prenda questi giochi [scalare una montagna] sul serio e abbia un certo spirito di metodo: la borghesia". La descrizione che Veyne fa poi delle relazioni tra "il Signor Alpinista e il suo garzone, la Guida di origine contadina" è a sua volta saggia e pertinente. Essa pone in una nuova prospettiva le centinaia di osservazioni elogiative sulle guide "per natura" buona, generose, oneste, coraggiose, sicure, competenti ecc., osservazioni la cui pertinenza è pari solo all'ipocrisia dei loro autori. In particolare essa riconduce le relazioni tra clienti e guide a quelle effettivamente esistenti all'epoca tra padrone e prestatore d'opera: "I turisti, nobili e borghesi, fornivano il proposito e l'obiettivo, una cima, ed essi [le guide] fornivano la competenza e soprattutto ìl lavoro manuale". Veyne vede bene che la giustificazione utilitaristica dell'alpinismo vale meno della pura ricerca del piacere d'andare in montagna per divertimento e per una soddisfazione fisica e intellettuale: "Questa invenzione fu anche un'automistificazione: appena nato, l'alpinismo si rivelò fonte di nuovi piaceri, che diventarono la sua vera ragione d'essere, mentre le ragioni nobili che l'avevano fatto nascere si ridussero a una nazionalizzazione, a una copertura ideologica, e anch'essa finì per svanire". Veyne è stato dunque uno dei prinú storici ad andare oltre ai singoli eventi e all'aspetto aneddotico dell'alpinismo: egli ha saputo cogliere le tendenze profonde del movimento in una prospettiva storico-sociale. | << | < | > | >> |Pagina 2214 luglio 1865: Whymper e la prima del CervinoLa prima ascensione al Cervino, impresa insigne dei primordi, fu opera di uno dei più famosi alpinisti dei XIX secolo, Edward Whymper. Essa fu segnata da un grave incidente sulla via del ritorno, in cui persero la vita quattro persone; anche per questo ebbe grande risonanza, procurando al protagonista si la gloria, ma anche la tristezza di doversi giustificare agli occhi della comunità alpinistica con articoli su riviste e conferenze. I fatti sono noti. Whymper stesso li ha minutamente descritti, innumerevoli libri li hanno ripresi e talvolta deformati, giacché non sempre i biografi dell'alpinista hanno saputo decidersi tra agiografia e resoconto oggettivo. A distanza di quasi un secolo e mezzo è possibile sintetizzarli. Il Cervino rappresentava per Whymper un'ossessione e ogni estate egli tentava invano di conquistare la montagna. C'era sempre qualcosa a stravolgergli i programmi: il cattivo tempo, l'indisposizione di un compatriota che voleva a tutti i costi partecipare, la mancanza di compagni d'avventura. Il 14 luglio 1865, all'ottavo tentativo, dopo numerose peripezie giunse in vetta con il suo gruppo (Charles Hudson, Douglas Hadow, Francis Douglas, le guide Michel Croz, Peter Taugwalder e suo figlio). Durante la discesa, Croz, Hudson, Hadow e Douglas persero la vita precipitando lungo la parete Nord. Whymper e le due guide di Zermatt fecero ritorno a valle l'indomani; avevano portato a termine, sul piano alpinistico, una "lotta titanica". La letteratura sull'evento rivela la complessità e l'ambiguità delle motivazioni dei protagonisti, in primo luogo di Whymper. Mentre i suoi compagni gioivano sulla vetta per aver compiuto la più audace delle imprese alpinistiche e i Taugwalder consideravano i vantaggi economici che sarebbero loro derivati, Whymper non si abbandonava ai sogni, tutto preso a far calcoli. Questo il racconto di Toni Hiebeler: "Dell'avventura, Hudson e Croz erano i tecnici, Whymper la mente. L'entusiasmo di quelli era simile all'ebbrezza che segue la vittoria. Whymper sedeva in cima pensoso e tranquillo, concentrato sui suoi apparecchi di misurazione, e prendeva appunti, quasi indifferente all'immensità del paesaggio". Alla vigilia dell'impresa, basandosi su un gran numero di schizzi e sui risultati delle osservazioni degli anni precedenti, aveva deciso che la cresta Hörnli era la miglior via d'accesso alla vetta, perché la meno ripida. Whymper era dunque un lucido calcolatore? Uno scienziato degno della tradizione dell'Alpine Club? In realtà nulla lo prova. In primo luogo, contrariamente a quanto sostiene Hiebeler, nel suo libro La salíta del Cervino Whymper non menziona mai strumenti di misurazione. Dei carichi trasportati dalle guide e dai portatori nelle sue ascensioni qua e là sulle Alpi, egli ricorda le sigarette, l'acquavite, la sua preziosa tenda, "bottiglie di pessimo vino di Rodier", il non meno noto cosciotto di montone di monsieur Reynaud d'Argentières, "otri con provvista di vino". Se prende appunti, si tratta dello "schizzo di una cima". Quanto a Whymper "pensoso e tranquillo", la cosa può essere verosimile in altre circostanze, ma non in questa. 'Croz e io, schizzando in avanti, ingaggiammo un testa a testa che terminò alla pari. All'1.40 del pomeriggio il mondo era ai nostri piedi e il Cervino era conquistato! Hurrà! Non si vedeva nessun'altra impronta". [...] Il Cervino domina Zermatt da circa 3000 metri e nulla s'interpone alla vista tra il paese e la cima. La sua forma piramidale pressoché perfetta da questo versante (non così da quello italiano) corrisponde nello spirito dell'uomo all'archetipo della montagna, e non si può che concordare con lo svizzero Edouard Wyss-Dunant quando scrive: "È la montagna più elegante in assoluto, un simbolo. Appartiene a quelle sommità dotate di una capacità di attrazione simbolica: è accessibile a tutti gli alpinisti, indipendentemente dalle capacità e dalla tecnica, supera quanto a posizione isolata tutte le altre montagne, combina piacere fisico e desiderio di elevazione della mente, procurando una gioia incornparabile". In realtà Whymper si era innamorato del Cervino come di una donna. È lui stesso a scriverlo. Quando nel 1862 - dopo una caduta sotto il Colle del Leone che sarebbe potuta costargli la vita, e dopo un nuovo tentativo fallito in compagnia del solo Meynet perché i Carrel visto che "la giornata pareva favorevole" (sic!) erano andati a caccia di marmotte - vide partire il professar Tyndall con Carrel, reagì come un amante deluso: "[Ero] tormentato dall'invidia e da altri sentimenti poco altruistici, [...] bighellonavo attorno, come un amante folle ronza intorno all'oggetto dei suoi desideri anche dopo esser stato sprezzantemente rifiutato". James Ramsey Ullman ha sintetizzato con maggior efficacia gli stati d'animo che il Cervino poteva ispirare: "Per tutti i secoli in cui gli uomini hanno percorso ed esplorato le Alpi, il loro sguardo è stato irresistibilmente attratto dallo slancio di questa cuspide selvaggia. Le altre montagne non sono che montagne. Il Cervino è bellezza, magia e terrore". | << | < | > | >> |Pagina 39A inizio secolo i dissapori tra le due associazioni non si erano ancora placati, e in un discorso del 1907 Guido Larcher alludeva a provocazioni e minacce: da allora i membri dell'Alpenverein vennero designati con l'espressione "i nostri nemici".Anche se si può attribuire a Quintino Sella, morto nel 1884, la responsabilità di questo sviluppo in senso nazionalista, esso affondava le sue radici nei principi che avevano ispirato la fondazione dei CAI. Poiché italiani e austriaci continuavano a dissentire sulla questione dei territori irredenti, e questi erano costituiti principalmente dalle montagne, le due associazioni alpine, il CAI (o la SAT) e l'Alpenverein si ritrovarono ben presto nella bufera e, invece di allontanarsene, ne approfittarono per caratterizzarsi ancor più in senso nazionalista. La prima guerra mondiale confermò ed esacerbò queste tendenze. In tale contesto profondamente polemico, il simbolismo della vetta conquistata sulla quale l'alpinista pianta la bandiera assumeva un significato particolare; le spinte nazionaliste ebbero nella toponomastica libero gioco. Diego Leoni cita l'aneddoto della Cima Brenta, nel settore omonimo, ribattezzata nel 1905 da alpinisti austriaci Punta Francesco Giuseppe e dotata della bandiera gialla e nera della Casa d'Austria. Dopo poco tempo due alpinisti della SAT, Carlo Garbari e Guido Larcher, compirono l'ascensione, strapparono la bandiera nemica e la riportano come un trofeo al tenente colonnello Mugnaini, comandante del VI Reggimento Alpino di Verona: "Lassù si fronteggiarono gli uomini, ma dietro di essi c'erano le nazioni, gli stati, le borghesie nazionali". Da queste prime considerazioni si può comprendere come il patriottismo e il nazionalismo intervenissero nell'alpinismo. La competizione sportiva lasciava spazio alla competizione nazionalista, come nel caso del Cervino. Per Jean-Antoine Carrel si trattava innanzitutto di dimostrare che una guida valdostana poteva valere quanto un grande alpinista inglese già rinomato, se non di più. Questo bisogno di valorizzazione era ripreso dai dirigenti politici e del club alpino, che si servivano degli alpinisti per guadagnare in immagine e notorietà. Il fatto che uomini illustri, compreso un ministro, facessero parte degli organizzatori o degli artefici di quell'ascensione, rappresentava un elemento di modernità. Nel personaggio si vedevano le doti - il coraggio, l'abnegazione, il sangue freddo - richieste dall'alpinisino: in questa prospettiva Quintino Sella assumeva la stessa importanza dei protagonisti dell'ascensione. Laddove la situazione non era tanto propizia quanto sul Cervino, toccava ai dirigenti politici crearla. Nel caso dell'Italia, il fatto che il CAI fosse stato fondato poco dopo l'unificazione nazionale permetteva al sentimento nazionalistico di trovare nella montagna un terreno su cui consolidarsi. Occorreva comunque un campo di forte valore simbolico, e all'epoca gli italiani scelsero la montagna perché il confine correva lungo le Alpi. Con la Francia e la Svizzera la competizione conservava il carattere del confronto sportivo; i confini erano stabili, anche se l'acquisizione della Savoia da parte dei francesi era recente (1859); né gli alpinisti inglesi che si cimentavano su quelle montagne avevano alcuna rivendicazione territoriale da fare. La differenza tra Whymper e la cordata italiana salita sul Cervino il 17 luglio si scorge nel valore simbolico assunto dalla bandiera. Gli italiani non tralasciarono di issare il tricolore, mentre tre giorni prima sulla cima svizzera si era assistito a questa singolare scena, descritta da Whymper: "Gli altri erano arrivati; così ritornammo all'estremità settentrionale della cresta. Croz prese uno dei pali della tenda (che aveva portato con sé) e lo piantò in un punto dove la neve era molto profonda. 'Sì' venne detto, 'qui c'è l'asta della bandiera, ma la bandiera dov'è?'. 'Eccola qui' rispose lui, sfilandosi la blusa e fissandola al paletto. Ne sortì una bandiera piuttosto povera, e non c'era un alito di vento che la facesse sventolare". Con l'Austria le cose stavano diversamente: l'impero austro-ungarico dominava ancora i territori rivendicati dagli italiani, come l'Ortles e le Dolomiti, dove i club alpini si trovavano quindi in prima linea. Qui il confronto, più diretto, pretigurava il tema della montagna in guerra. | << | < | > | >> |Pagina 106Una tale valorizzazione eroica fu naturalmente opera del CAI e del DÖAV, attraverso le loro pubblicazioni nazionali. Durante la guerra e fino al 1920, tutti i numeri della Rivista del CAI cominciavano con una lunga lista di medaglie attribuite agli "Eroi della Patria", tutti membri del CAI, in una rubrica intitolata "Il CAI e la guerra". Il lessico, militare naturalmente, usava e abusava di tre termini: la nostra guerra, in relazione alle nostre montagne, in cui l'accento era posto sul possessivo, la patria e un uso vario di eroico (eroi della patria, eroismo ecc.). Regolarmente il presidente dei CAI prendeva la penna per esortare gli italiani in generale e gli alpinisti in particolare alla difesa della patria, a compiere il proprio dovere, a serbar fiducia nella vittoria. "Della gloria delle eccelse vette furono degni gli alpinisti e i montanari d'Italia; quel tempo di pace in cui quasi sembrammo inferiori nella gara delle imprese ad altri, è trascorso per sempre; oggi il nemiúco sa che non vi sono limiti al coraggio, alla resistenza dell'alpinista, del montanaro d'Italia". Con la vittoria del 1918 l'euforia giunse al culmine, e i dirigenti del CAI continuarono a prediligere i termini bellici e altisonanti: "Alpinisti Italiani! Oggi che la santa guerra, giusta, necessaria ha concesso allo sguardo di volgersi non più incerto alla gran cerchia della Alpi, forza e bellezza d'Italia, oggi sotto unico libero cielo il Club Alpino Italiano manda l'augurato saluto alle Società Alpine vindici eroiche dello Spirito Italico per tanti anni di martirio".I testi apparsi sulla Zeitschrift sono altrettanto eloquenti. Su nove articoli selezionati, otto risultano esclusivamente dedicati alla guerra, di cui cinque del 1917. Il nono, firmato Michael Mayr, giustifica pienamente la rivendicazione di un Tirolo del Sud austriaco, e non si allontana quindi più di tanto dalla tematica dei precedenti. L'atteggiamento degli uni e degli altri risulta comprensibile se interpretato in relazione al fatto che l'evento sportivo era considerato fattore di rigenerazione della razza. L'elemento razziale trovava logica espressione nella competizione sportiva, di cui la guerra era ritenuta esito rituale: "Lo sport, com'è stato osservato da numerosi sociologi, è l'anticamera della guerra". I conflitti del 1870 e del 1914 non fecero che amplificare il tema dello sport formatore di individui eccezionali, vigorosi, dinamici, pronti a servire un paese, a salvarlo. Ciò che nel 1870 era valso per francesi e tedeschi, valse nel 1914 per tedeschi e italiani, provocando le stesse cause, gli stessi effetti. Con un particolare tipo di lessico, la descrizione esaltante del fatto sportivo/bellico o l'organizzazione e la codificazione della violenza, si voleva in realtà fare accettare una realtà crudele e difficilmente sopportabile al di fuori di tale contesto. | << | < | > | >> |Pagina 122Il lavoro di Tolomei ruotò intorno a due principi. Il primo era di ordine ideologico: "Per la nostra dignità e per la piena affermazione dei nostri diritti dovevamo assolutamente ravvivare la toponomastica italica nelle terre che i nostri soldati andavano riacquistando alla Patria. Non si doveva tardare a ravvalorare i nostri nomi mentre procedeva l'esercito". Il secondo concerneva la linguistica diacronica: appellandosi a fonti romane, preromane, etrusche e retiche tentò di giustificare l'origine latina della toponomastica della regione e dare base scientifica alle trasformazioni proposte: "Alcuni di essi (nomi) che avevano subito la corruzione tedesca, si poterono restituire dai documenti nella forma antica, che resterà nell'uso".Se la ricerca di Tolomei si fondava su fonti storiche, essa era comunque falsata da considerazioni più nazionaliste che scientifiche, e gli austriaci non mancarono di qualificarle come pseudoscientifiche. Dalla sua Tolomei aveva il fatto che la zona era stata occupata da etnie liguri, etrusche, celtiche, poi latinizzate nel II secolo a.C., prima dell'arrivo dei germani, nel VI secolo d.C. E se non tutte le radici dei nomi erano latine, non era detto che fossero germaniche. Il risultato di questo immenso lavoro, il Prontuario dei nomi locali dell'Alto-Adige, apparve la prima volta nel 1916, in piena guerra. Tuttavia, inizialmente Tolomei non riuscì a diffondere la sua idea, e inorridì nel constatare che le carte geografiche utilizzate dai militari italiani riportavano ancora la toponomastica tedesca. Dopo la vittoria le cose cominciarono a cambiare, dapprima lentamente; con il fascismo Tolomei riscosse sempre più ascolto. Nel gennaio 1921 il Prontuario divenne nomenclatura ufficiale dell'Alto Adige, sancita dalla Gazzetta Ufficiale il 27 aprile 1923: "Dopo trentatré anni dal 1890, inizio della mia lotta, la rivendicazione del nome era un fatto compiuto". In seguito Tolomei lasciò al linguista Carlo Battisti il compito di proseguire l'opera, e il Prontuario divenne il Dizionario toponomastico atesino (DTA), che oggi conta 45 volumi. Il CAI, di cui Tolomei era socio onorario, lo ospitò sulle pagine della Rivista, e mentre gli austro-tedeschi vilipendevano i trattati, Tolomei dissertava "Sulla partizione e sulla nomenclatura delle Alpi", dimostrando, con altrettanta buona fede degli avversari germanofoni, che le frontiere volute da lui erano le sole giuste. Così, contro ogni politica di avvicinamento e contro l'immagine dell'alpinismo come scuola di cameratismo e fair-play e della montagna come fattore di superamento delle differenza, compresa quella del paese di appartenenza, i rappresentanti dei club alpini austro-tedeschi e italiani non esitavano a professare idee nazionaliste, rispettivamente antiitaliane o antitedesche: "Sovente si vorrebbe isolare l'alpinismo dal contesto storico, sociale e culturale di ogni Paese in cui si è manifestato, in nome di un'attività sacra e superiore che dovrebbe veder tutti gli uomini uniti da un sentimento fratello e comunitario. Questa mistificazione ha dure radici e assai profonde. Si dimentica che è l'uomo che fa l'alpinismo e non l'alpinismo che fa l'uomo. L'uomo ha tutto un suo bagaglio storico che lo porta ad agire in modi diversi e ben determinati a seconda del 'seme' che è stato gettato nel suo campo". | << | < | > | >> |Pagina 137Il predominio dell'elemento völkisch Nel DÖAV proseguivano le discussioni sulla pratica dell'alpinismo, iniziate ancor prima della guerra con scalatori come Hans Dülfer e Paul Preuss, in opposizione alla concezione tradizionale e meno sportiva ereditata dall'escursionismo scientifico. Negli anni Venti i giovani scalatori delle scuole di Monaco e Vienna, allenati ad arrampicate d'alto livello e padroni delle nuove tecniche (manovre di corda, chiodatura, uso dei chiodi da ghiaccio), furono gli unici ad aprire vie particolarmente impegnative. Nel Karwendel, nel Kaisergebirge e nelle Dolomiti, sui ghiacciai del Monte Bianco, del Monte Rosa e delle Alpi austriache affrontarono pareti e problemi sempre più ardui, e inaugurarono ciò che gli storici dell'alpinismo hanno chiamato "l'era del sesto grado", espressione che deriva dall'introduzione intorno al 1925, da parte del monacense Willo Welzenbach, di una scala di valutazione delle difficoltà articolata in sei livelli, di cui l'ultimo, il sesto appunto, rappresentava il limite delle possibilità umane. Quegli anni preludevano a una tendenza profondamente nichilista per la quale Amstädter ha proposto, con altri, una spiegazione di tipi psicopatologico. | << | < | > | >> |Pagina 142Il predominio delle sezioni austriacheLe neonate Repubbliche di Weimar e di Austria, esiti di movimenti rivoluzionari intrapresi sia dalle forze di destra sia da quelle di sinistra, così come della volontà dei vincitori e della decadenza dei regimi assolutistici, ai quali la prima guerra mondiale aveva inferto il colpo di grazia, presentavano tratti comuni. Se si stabilisce un parallelismo tra la letteratura dominante nel DÖAV, specchio della sua azione "culturale", e gli avvenimenti politici della Repubblica di Weimar, ci si accorge che esiste una stretta parentela con quanto Kurt Sontheimer ha chiamato "pensiero antidemocratico": "La debolezza interna e la morte della democrazia sotto la Repubblica di Weimar sono indissolubilmente legate alla forza del pensiero antidemocratico". Il ricorso costante all'irrazionalismo per spiegare le motivazioni dell'alpinista, la tendenza a fare dello scalatore un eroe, analogamente al soldato, il rifiuto di qualsiasi principio socialista negli obiettivi di socializzazione, l'infeudazione progressiva del DÖAV da parte dei movimenti völkisch, sono tutti elementi da cui traspare il ruolo determinante del club nell'affermarsi di quella tendenza antidemocratica, non foss'altro per l'elevato numero dei suoi soci. Secondo Müller e Amstädter sono tre le cause principali di tale preminenza: la politica verso i giovani, il richiamo entusiastico alla natura contro l'urbanizzazione indotta dall'industrializzazione e dal capitalismo, le facilitazioni offerte dal club per viaggiare e soggiornare nei rifugi. Si aggiunga poi l'attivismo dei gruppi nazionalisti e völkisch. | << | < | > | >> |Pagina 147Tutto fa pensare che nel DÖAV ci sia stato, prima dell' Anschluss dell'Austria da parte del Reich, un Anschluss in senso inverso, senza che nessuno se ne accorgesse. Il percorso è chiaro: con Guido Lammer aveva avuto inizio l'alpinismo eroico sul piano della pratica della montagna; alla fine della Grande Guerra si erano delineati atteggiamenti bellicosi rivolti a uno scopo ben preciso, la vendetta e la riconquista dei territori perduti; era seguita una classificazione dei valori alpinistici in funzione della razza, sostenuta da una retorica già da Terzo Reich. Mancava l'ultima fase, quella in cui la politica avrebbe trasformato l'alpinismo in una componente determinante dell'ideologia: i fascisti italiani batterono la strada, i nazisti la perfezionarono, altri li imitarono.| << | < | > | >> |Pagina 161Mussolini e lo stato fascista Al centro di un regime totalitario vi è in primo luogo un uomo: colui che incarna il movimento, accentra la maggior parte delle decisioni e costruisce intorno alla propria figura l'organigramma del movimento e la mitologia del capo. In Italia fu Benito Mussolini. All'inizio della sua carriera politica, egli apparteneva alla corrente anarchico-sindacalista, ma già si mostrava fervente nazionalista. La sua attenzione fu richiamata dall'impresa di Fiume, sostenuta dall'arditismo, attraverso la quale nel settembre 1919 Gabriele D'Annunzio si impossessò della città con una truppa composta da soldati regolari e "ufficiali umiliati da una popolazione che li ignorava e li insultava, soldati delle truppe d'assalto (...) giovani smobilitati con grandi difficoltà a reinserirsi nella vita civile. Detto altrimenti, una clientela che è già quella del primo fascismo". Tra i giovani era presente un elevato numero di Alpini. L'episodio, in sé marginale, rappresentò per Mussolini spunto di riflessione, prova che "anarchismo e nazionalismo affondavano entrambi le radici nell'irrazionalismo e nella contestazione dei valori borghesi tradizionali che avevano caratterizzato la fine del XIX secolo in risposta agli effetti della seconda rivoluzione industriale". L'occupazione della città, alla quale comunque Mussolini non partecipò direttamente, lo confermò nell'immagine da dare al suo movimento, riprendendo di D'Annunzio "il rituale, i lunghi colloqui con la folla, l'uniforme fascista ereditata dalla divisa degli arditi. In sostanza lezioni politiche: la debolezza dello stato liberale (...) l'attrazione esercitata sulle masse da una formula politica capace di legare sentimento nazionale e preoccupazioni sociali, la necessità di avere a disposizione un'organizzazione politica disciplinata". La guerra appena trascorsa, di cui "il fascismo italiano era figlio (...) più di qualsiasi altro regime dittatoriale di quegli anni", l'esempio degli arditi, l'influenza della dottrina di Georges Sorel sulla violenza rivoluzionaria spinsero Mussolini a fondare le squadre d'azione fasciste e a servirsene come truppe d'assalto al servizio dei grandi proprietari terrieri e degli industriali del Nord Italia contro i movimenti di sinistra e i sindacati. Nell'ottobre 1922, dopo la marcia su Roma, venne chiamato dal re a formare un nuovo governo. Il fascismo si impadroniva dell'Italia: "Figli della guerra, bolscevismo e fascismo ne conservarono traccia nel loro intimo, trasportando nella politica l'addestramento ricevuto nelle trincee: la consuetudine della violenza, la semplicità delle passioni estreme, la sottomissione dell'individuo al collettivo, infine l'amarezza dei sacrifici inutili o traditi". [...] In terzo luogo, Mussolini controllava completamente la stampa e l'informazione: "Funzione primaria del partito, considerato una milizia ideologica al servizio del regime, rigido inquadramento della popolazione, richiamo all'ordine di giornalisti e intellettuali, controllo dell'opinione pubblica, questi gli elementi che fecero del regime fascista il regime totalitario in grado di offrire una dimensione al sistema autoritario istituito da Mussolini con la dittatura". Altrettanto fondamentale fu la fascistizzazione delle attività fisiche e sportive. Lo sport rientrava ormai nelle attività di formazione, sempre più orientato verso una preparazione paramilitare. Eroismo, senso dell'onore, vittoria su di sé e sugli altri, sforzo, resistenza a qualsiasi prova, ma soprattutto al dolore, disciplina: queste le parole-chiave di tali attività. Tutto ciò culminò nel culto della razza, nella pubblicazione nel 1938 delle leggi razziali, anche se "Mussolini non era essenzialmente un razzista". In stretta connessione con l'insegnamento, la pratica sportiva servì a Mussolini per diffondere le sue tesi sul nuovo uomo italiano, comprendendo tra i primi i benefici che gli sarebbero derivati da questo nuovo "oppio del popolo". | << | < | > | >> |Pagina 194Gli ultimi tre grandi problemi delle AlpiSi trattava delle pareti nord del Cervino, delle Grandes Jorasses e dell'Eiger, sulle quali si affrontarono i migliori alpinisti dell'epoca. Austro-tedeschi e italiani fecero la parte del leone in questa corsa accanita e spesso mortale verso la cima, dalla quale però i francesi non furono completamente assenti, pur ottenendo risultati minori. Le tre pareti offrirono ai movimenti alpini dei regimi totalitari l'occasione di mettersi in luce, ma decretarono anche la fine di un periodo dell'alpinismo, rappresentando un po' una sintesi di tutte le difficoltà incontrate fino allora: i problemi tecnici, l'estensione delle pareti da conquistare, l'esposizione a un rischio continuo. "Un certo numero di fattori comuni contribuirono a questa classificazione: l'altitudine, con un notevole sviluppo verticale delle pareti, tutte alte più di mille metri [1600 l'Eiger!]; i rischi d'intemperie, molto più elevati sopra i quattromila metri; poi l'esposizione: poco esposte al sole, le pareti nord sono particolarmente fredde e inospitali. (...) Infine, nei tre casi considerati, i pericoli oggettivi, molto realistici, talvolta estremi, riservavano l'impresa ad alpinisti non solo di grande tempra fisica, ma anche di volontà indomita. I fatti sono noti e obbediscono a una certa logica dell'alpinismo e della scalata: si era cominciato con lo scalare le vie normali, all'inizio le più facili, poi le creste, poi le pareti, sempre più ripide e più grandi. In seguito si aggiunsero altri gradi di difficoltà con i tentativi invernali. "Però non bisogna dimenticare il fattore nazionalistico e competitivo che fu essenziale in questo preciso periodo". Delle tre pareti, due, il Cervino e le Grandes Jorasses, cedettero senza grossi problemi, a parte alcuni tentativi a vuoto, qualche ferita fisica o all'amor proprio. Un giorno, quando ormai si conosceva bene la via, una squadra un po' più forte e motivata, beneficiando di condizioni migliori in parete, raggiunse per prima la vetta. La parete dell'Eiger rappresenta invece un caso particolare. Essa è ricordata come una di quelle che hanno mietuto più vittime, e la cui scalata ha suscitato più accese polemiche: è questo il motivo per cui disponiamo di più fonti. La prima parete Nord conquistata fu quella del Cervino, il 31 luglio e il l° agosto 1931, a opera dei fratelli monacensi Toni e Franz Schmid. La cronaca racconta che arrivarono a Zermatt in bicicletta, e che nonostante le difficoltà la scalata si svolse senza grossi incidenti. "La sera un'accoglienza trionfale li attendeva a Zermatt. Più tardi, per quella loro impresa ricevettero una medaglia d'oro olimpionica". Questa osservazione di Bonington è importante, perché mette in relazione due avvenimenti cronologicamente distanziati: l'accoglienza a Zermatt del 1931 e la consegna della medaglia sotto il Terzo Reich. Nel 1931 i nazisti non erano ancora al potere e anche se i fratelli Schmid possono essere considerati esponenti di quell'alpinismo del superuomo condannato da Amstädter, ogni loro assimilazione ai nazisti è prematura, tanto più che uno dei due, Toni, morì nel 1932. Anche la parete Nord delle Grandes Jorasses vide all'attacco, a partire dal 1931, dei tedeschi: dopo alcuni anni di tentativi infruttuosi, Rudolf Peters e Martin Meier conquistarono il pilastro centrale, punta Croz. Ma la via più prestigiosa, quella che portava alla punta Walker, era ben più difficile. I tedeschi non erano i soli ad ambirla. Parteciparono alla competizione alcuni italiani e almeno un francese, Armand Charlet. Infine fu la cordata italiana, composta da Riccardo Cassin, Ugo Tizzoni e Gino Esposito a conquistarla il 4, 5 e 6 agosto 1938. Si diceva che Cassin non aveva mai visto quella parete in vita sua, che non sapeva nemmeno scrivere correttamente il nome della vetta: Valcher invece che Walker. Per l'impresa i tre ricevettero dall'autorità fascista la medaglia Pro Valore. Con l'Eiger finiva il tempo del "ragionevole" nell'arrampicata, nel senso che il termine aveva nel mondo alpinistico, non nella vita di tutti i giorni. A partire dal 1935 gli austro-tedeschi si erano lanciati all'assalto dell'Eiger, spesso perdendoci la vita, e protagonisti e giornalisti ebbero occasione di scrivere testi spesso percorsi da una morbosità compiaciuta. Le autorità bernesi arrivarono al punto di vietare la scalata della parete, ma rimase un provvedimento teorico, ben difficile da far rispettare. Il 21, 22, 23 e 24 luglio 1938 la cordata austro-tedesca di Heinrich Harrer, Fritz Kasparek, Anderl Heckmair, Ludwig Vörg riuscì in pessime condizioni a espugnare la parete, accendendo l'entusiasmo dei regime e delle folle. Gli alpinisti raccolsero le felicitazioni del Fúhrer, che consegnò loro una foto con dedica. Gli inglesi cominciarono a parlare di "perversioni" e di "risultati inquietanti" dovuti all'"esaltazione del pericolo", anche di "orrore della storia". Eloquente è il giudizio categorico di Claire Eliane Engel circa il loro incontro con Hitler: "Fu la ricompensa più bella. Alpinisti normali l'avrebbero trovata nella vittoria stessa, ma gli alpinisti tedeschi non sono affatto normali". Questa volta il dibattito era aperto. Il movimento alpino scopriva, o fingeva di scoprire, che l'alpinismo non era neutrale e che, al di là dei grandi ideali molte volte addotti per giustificare una pratica spesso incomprensibile, c'era ormai un'altra spiegazione, meno nobile, molto più pratica; l'impegno in montagna poteva essere altamente pericoloso e reclamava una durezza che poteva sconfinare nel fanatismo, e tale condizione di spirito poteva essere sfruttata politicamente. "Gli assalti alla Nord dell'Eiger furono condotti con una violenza e una aggressività veramente inconsueta, caratteristica di un alpinismo che ormai cercava ad ogni costo un'affermazione e una vittoria su se stessi e sulla Natura". Se ci si attiene strettamente alla storia alpina, all'epoca la novità maggiore non era rappresentata dall'attribuzione di medaglie agli alpinisti, bensì dall'eco che una prima di alto livello suscitava nel pubblico, grazie alla stampa e alla propaganda. L'attenzione di cui questi eventi sportivi erano oggetto porta anche a interrogarsi sulla responsabilità individuale degli alpinisti nel contesto degli stati totalitari. |
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