Copertina
Autore Sami Michael
Titolo Victoria
EdizioneGiuntina, Firenze, 2007, Israeliana , pag. 368, cop.fle., dim. 13,3x20,9x2 cm , Isbn 978-88-8057-277-0
OriginaleVictoria
EdizioneAm Oved, Tel Aviv, 1993
TraduttoreAntonio di Gesù
LettoreElisabetta Cavalli, 2007
Classe narrativa israeliana , narrativa irachena
PrimaPagina


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Mai aveva osato allontanarsi tanto da casa senza essere accompagnata da un uomo. I flutti del fiume in tumulto scuotevano così forte il ponte di zattere sotto i suoi piedi che le sembrava che si sarebbe sganciato dai cavi e sarebbe stato trascinato via dalla corrente torbida. Quando la bandiera verde sventolò in cima alla torre sull'altra riva, il flusso delle automobili che procedevano nel suo stesso senso si interruppe lasciando la carreggiata vuota per un poco. Come per una improvvisa euforia di libertà, quasi di anarchia, la folla dei pedoni che si accalcavano sul marciapiede dilagò, e tornò ad ammassarsi ai lati solo quando si udì il suono imperioso del clacson della prima automobile che proveniva in senso inverso.

Victoria non aveva osato scendere dal marciapiede. Gli autisti delle automobili avevano fretta di lasciarsi alle spalle il ponte brulicante e sospingevano le carrozze e i carri che li precedevano a far trottare i cavalli impauriti, tanto che il traffico finiva col sembrare un fuggifuggi. I carrettieri erano costretti a smontare, prendere i cavalli per le redini e correre accanto a loro. Victoria sentiva i colpi degli zoccoli, il calpestio dei piedi scalzi, il respiro pesante dei carrettieri vigorosi. Vedeva le teste dei cavalli recalcitranti e la schiuma bianca che usciva dalle loro bocche, e avrebbe voluto mettersi a correre come loro. Fu presa di nuovo da vertigini e sotto il mantello di seta nera era madida di sudore.

Il fiume tumultuoso continuava a infrangersi contro le zattere. Erano pochi quelli che attraversavano il ponte perché avevano davvero bisogno di raggiungere l'altra riva; la maggior parte dei pedoni erano lì per provare l'emozione. Nell'aria si sentiva la tensione di una disgrazia incombente. Quel ponte provvisorio e fragile non avrebbe resistito alla collera del fiume.

Victoria pensava di essere l'unica donna ad attraversare il ponte da sola. Lei non intendeva arrivare fino all'altro capo. Prima di uscire di casa aveva indossato il mantello e si era coperta il viso con un velo nero, su cui ne aveva messo un altro, perché nessuno vedesse le sue lacrime. In realtà non aveva immaginato che avrebbe trovato tutta quella gente. Aveva pensato che il ponte sarebbe stato vuoto come una corda da bucato tesa su un tetto deserto. La sua fantasia era sempre stata colpita dagli uccelli solitari che appoggiati sulle corde del bucato ritiravano le testoline, come incerti se aprire le ali e volare via, o irrigidire le piume e piombare a terra. Non aveva mai visto un uccello cadere di propria volontà. Però aveva sentito dire che gli esseri umani lo fanno.

Alcuni uomini si erano già accorti che era da sola e, complice la calca, avevano allungato le mani sulla sua carne. Uno le aveva conficcato tra le natiche dita esperte, curve come uncini, e con voce rauca lo aveva sentito dire al suo compagno: «L'ho acchiappata». Il dolore era acuto, ma in quella calca non poteva sottrarsi a quelle mani lunghe.

Più di tutto aveva paura del fiume che era la sua meta.

Altre dita rapaci si misero a brancicare la sua carne. Aveva paura di reagire. Se avesse voltato la testa, avrebbe incitato i suoi aggressori. Uno le strusciò il ventre contro le natiche, ma altri, terrorizzati da un cavallo imbizzarrito, lo spinsero lontano da lei. Con la coda dell'occhio vide il ghigno sul viso dell'uomo. Era un ebreo, il maledetto. Anche Rafael aveva mani così lunghe? La risposta era ovvia. Perché avrebbe dovuto tenersi le mani in tasca, visto che gli piaceva darle pacche sul sedere - il suono allegro lo faceva impazzire – e visto che le donne con lui non avevano ritegno e a volte tornava al cortile pieno di lividi e graffi, come se si fosse strofinato contro un roveto?

Versando nuove lacrime lo maledisse in cuor suo. La sua carne dolorante per i pizzicotti di estranei aveva nostalgia per la fiamma che Rafael sapeva accendere in lei. È moribondo, si disse, non è giusto maledirlo. Forse è già morto. Se non ieri, oggi di certo. Di sicuro domani. Uomini più forti di lui hanno sputato i polmoni fino a ridursi alla morte. Rafael, così magro, è una preda facile per la malattia vorace.

Si sentiva persa. Sì, era uscita di casa per annegarsi nel fiume ma ora i suoi sensi spasimavano per il desiderio di essere toccata da quel puttaniere morto. Il fiume di gente che scorreva sul ponte non la lasciava appoggiarsi al parapetto a pensare per un istante. Si chiese che cosa avrebbe fatto alla fine del ponte.

Dal momento in cui la macchina che portava Rafael verso i monti del Libano era stata inghiottita dalla polvere del deserto, era assillata da interrogativi. Le risposte datele da sua madre, Najiyah, erano tutte crudeli. Lei era stata sempre ostile a Rafael, sin da quando era giovane, e lui l'aveva sempre ignorata.

Sua madre si teneva in disparte da tutti gli abitanti del cortile e li disprezzava. Del marito, Izuri, aveva paura, come uno scolaro negligente ha paura del maestro severo. Quel gigante altero, a cui piaceva lo status di capo clan, amministrava con onestà e capacità la ditta di famiglia. Il fratello maggiore, Yehudah, che era osservante e si era fatto crescere la barba, era sempre troppo malato per assumersi l'onere di mantenere la famiglia ed Eliyahu, il minore dei figli di Mikhal, e padre di Rafael, non era stato capace di adattarsi al grigiore della vita quotidiana. Dopo che aveva sottratto denaro dalla cassa della ditta, gli altri due fratelli lo avevano estromesso dalla società e lo avevano aiutato ad aprire una modesta legatoria. Ogni volta che riusciva a mettere assieme due soldi, affittava un capanno in uno dei giardini del piacere e vi si rinchiudeva con Dahud, il suonatore di qanun, ed entrambi passavano lì giornate intere tra le braccia di prostitute, dissipando fino all'ultima moneta. Dopo alcune settimane tornava al cortile, mortificato e con gli occhi arrossati. Alla vigilia di Pesach, a volte attorno a Shavuot, dichiarava bancarotta e scappava dai suoi creditori.

Quando i fratelli scoprirono l'ammanco di cassa, accettò la punizione e rinunziò alla comoda stanza attigua a quella con le vetrate in cui abitava la famiglia di Victoria. Lui, la moglie e i figli, furono relegati in una stanzina senza finestre del pianterreno, dove invece della porta c'era una tenda fatta di sacchi di iuta. Per anni quella stanza aveva fatto da magazzino per le stoffe, ai tempi in cui Mikhal, la madre dei tre fratelli, gestiva una fiorente sartoria per uniformi dell'esercito turco. Eliyahu in seguito fece anche di peggio, ma Izuri e Yehudah ancora una volta furono magnanimi con lui quando scoprirono che aveva fatto combutta con il custode del magazzino per rubare alcune balle di seta pregiata.

Anche quella volta accettò la punizione senza protestare, e scese con la famiglia nell'interrato. Lì i figli morivano di fame in compagnia dei topi, gelavano per il freddo in inverno e in estate cercavano rifugio dalla mancanza d'aria nel sole cocente del cortile. I figli e le figlie accettarono il segno della vergogna e si trasferirono nella loro nuova dimora, come esuli in una terra ostile.

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La casa, costruita decenni prima, ospitava un gran numero di ospiti invisibili: formiche, pulci, vermi, scarafaggi, scorpioni, topi e serpenti. A causa dell'indigenza, delle malattie stagionali e delle pestilenze periodiche, gli abitanti umani della casa sapevano di essere creature effimere. Per questo i loro sforzi per mantenere la casa in buono stato erano minimi: passavano mesi prima che il vetro rotto di una finestra fosse sostituito e spesso era sostituito con un pezzo di legno o di cartone; i pozzi neri erano svuotati solo quando straripavano; le mattonelle del pavimento che si staccavano rimanevano a sbriciolarsi. Gli abitanti del cortile non amavano usare martelli e picconi.

La linea tra il naturale e il soprannaturale era sottile e fragile e pochi osavano toccarla o superarla. Gli abitanti del cortile, piccoli e grandi, credevano che sotto al pavimento brulicassero demoni e spiriti maligni. Era meglio dunque ignorare una mattonella che si era spaccata che turbare la tranquillità di forze infernali vendicative.

Al contrario degli inquilini umani, gli abitanti invisibili del cortile, una generazione dopo l'altra, si davano da fare a migliorare le proprie abitazioni: buchini si trasformavano in piccole grotte, minuscole crepe, dove solo le formiche potevano vivere, col tempo erano diventate gallerie abitate da topi. E come quegli abitanti nascosti, anche Najiyah si preoccupava dei giorni di carestia durante i giorni di abbondanza. Dalla somma settimanale che Izuri le dava metteva da parte qualche soldo, in segreto, e di tanto in tanto, di nascosto, si incontrava con Salman, che anche nella canicola estiva portava il suo pesante caffettano stracciato pieno di toppe. Da un buco nel cappotto tirava fuori una moneta d'oro che le cedeva a un prezzo di cambio esagerato.

Najiyah tornava a casa eccitata per il piccolo tesoro, lo nascondeva nelle crepe e nei buchi dei muri dove rimpiattava anche i gioielli comprati con quelle monete d'oro. E diffidente e sospettosa era così attenta a tenere nascosto il segreto che non c'era nessuno che potesse aiutarla a ricordare, e neanche lei ricordava più quanti tesori avesse e in quali buchi fossero nascosti. Una volta videro una gallina che beccava un anello d'oro con un diamante che aveva trovato in un buco, e un'altra volta un corvo volò in picchiata e riprese il volo tenendo un bracciale d'oro nel becco. Nessuna donna dichiarò di aver perduto il bracciale, neppure Najiyah, che aveva dimenticato di avere quel gioiello. Mikhal disse che l'anello col diamante salvato dal becco della gallina era suo, lo vendette e con il ricavato comprò alcuni gioielli per Victoria.

Quando Izuri capì dalle parole di Victoria perché la moglie aveva paura di Rafael, guardò la moglie con sguardo severo, poi chiamò gli altri abitanti del cortile e disse loro di affrettarsi ad andare via. Non c'era tempo per occuparsi della pazzia della moglie. Le vedette sui tetti avevano annunciato che l'acqua del fiume continuava a salire e a distruggere le case.

Victoria non ricordava molto di quel giorno. Eventi fondamentali si erano sbiaditi e immagini di cose di poca importanza invece erano sopravvissute al setaccio del tempo. L'immagine dei cugini che afferravano cibo dalle pentole era sfocata come quella della madre sospesa in aria dalle braccia del padre. Invece ricordava perfettamente la nonna Mikhal che era stata sollevata, come una regina, su una poltrona di broccato blu da due uomini forti, Shaul l'ambulante e Kadduri il guercio. I tre procedevano in mezzo al corteo.

La vecchia donna aleggiava in aria, al di sopra del vocio degli altri membri della famiglia che camminavano nelle pozzanghere lasciate dalla pioggia, salutava gli uomini e le donne che si radunavano sulle porte delle case e non avevano un posto dove rifugiarsi. Tutti rispondevano con rispetto al saluto di quella donna che aveva acquistato fama di santità e speravano che portasse la salvezza a quanti le rendevano omaggio.

In cima al corteo camminava Yehudah, che si era ripreso un po' dalla pressione al petto, e faceva luce con una lanterna. L'oscurità non era ancora scesa completamente e la vista di quello spreco – la lanterna accesa al crepuscolo – dava al cuore di chi lo seguiva un senso di disgrazia incombente. Gli adulti del corteo procedevano in silenzio con le facce tese e i bambini, che parlavano sottovoce, si tenevano ai lati della poltrona di broccato dai braccioli intarsiati d'avorio.

Eliyahu non aveva dato retta alle suppliche ed era sprofondato di nuovo nel sonno. Rafael uscì per ultimo e chiuse il portone con l'enorme chiave. Najiyah di tanto in tanto si voltava indietro e osservava la sua faccia e le tasche della sua giacca per vedere se vi erano rigonfiamenti sospetti.

Anche la famiglia Nunu usciva di casa in quell'ora del crepuscolo. Mossi da un lieve vento, i rami della palma si muoveveno sopra al tetto con tristezza, come anime in pena. Ora che era fuori, visibile a tutti, il bel volto di Nuna, che commuoveva per il suo delicato biancore, non tradiva la paura. Portava un mantello di seta sulle spalle. Era la sola donna del vicolo che si truccava anche nei giorni feriali, e sembrava una bambola di porcellana, di quelle che provengono da di là del mare. Aveva già due figli, ma la purezza dei suoi occhi pieni di stupore la facevano sembrare una bambina. Victoria non aveva mai visto uno sguardo colmo di tanta innocenza e serenità. Nuna sorrideva al corteo della famiglia di Mikhal, ai muri delle case del vicolo corrosi dal tempo, a quanti non avevano rifugio e rimanevano immobili davanti alle porte delle case, alla sottile striscia di cielo che si muoveva a serpentina tra i tetti, e sembrava che tutti ricambiassero il suo sorriso, perché loro rispettavano anche il sorriso dell'abbondanza, come se avesse gli stessi poteri del sorriso dei santi.

Solo Najiyah osò biasimare la piccola bella, mentre tutti gli altri l'accolsero affettuosamente quando con il padre, il marito e i servitori si unì al corteo della casa di Mikhal. Abdallah non si fidava del genero e portava in braccio il nipote più piccolo e sulle spalle il primogenito dai capelli rossi che con le braccine cingevano la testa dell'uomo e se la stringeva al petto. Dietro, con i servitori, marciava il marito con la faccia cupa e portava alcuni fagotti legati con cura.

La piccola Toyah si distaccò da Dahud che portava il qanun sulle spalle e affrettando il passo raggiunse Nuna Nunu. La guardò con gli occhi di un animale domestico, poi, incantata, le toccò il mantello, il bordo del vestito elegante, e facendosi coraggio le sfiorò la mano e con la punta delle dita le carezzò il bel volto. I risolini di Nuna trillarono nello stretto vicolo.

In quei giorni, i giorni dell'adolescenza di Victoria, i poveri ammiravano senza rancore i prescelti da Dio. Abitavano gomito a gomito nello stesso quartiere sovraffollato e tutti rispettavano l'eterno abisso che si apriva fra di loro.

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Poco dopo aver attraversato il ponte si era accorta di lui senza neanche voltarsi. Un uomo la seguiva. Un predatore che bracca la preda. Di nuovo non sapeva come trarsi d'impaccio perché se si allontanava dalla folla per evitare che nella calca l'uomo le si stringesse addosso sarebbe rimasta isolata e lui avrebbe pensato che lo invitava ad avvicinarsi. Nonostante la tensione non fu presa dal panico. Dalla propria esperienza e dai racconti delle altre donne sapeva che in genere il corteggiamento è una cosa innocente. Protette dal mantello, nell'anonimato del velo, non poche donne traevano piacere da quelle avventure. Ancora settimane dopo l'accaduto, non si stancavano di raccontare con eccitazione i dettagli di un ostinato inseguimento. Una volta Azizah raccontò con un briciolo di orgoglio che non era piaciuto né a Yehudah né a Izuri: «Non mi ha lasciato andare, il maledetto, fino a che non sono arrivata alla soglia di casa. Avevo la pelle d'oca. Ora sa dove abito. E se mi aspettasse in agguato nel vicolo?».

Era un gioco, un gioco e nient'altro: Victoria cercava di tranquillizzarsi. Dato il muro di rigidi divieti che separava uomini e donne, il fascino di un corteggiatore sconosciuto turbava l'animo di donne dalla fantasia fervida. Quasi sempre l'inseguimento si concludeva senza dare frutti. Se il corteggiatore non riceveva segni di incoraggiamento non osava avvicinarsi troppo, solo raramente apriva bocca e, quando lo faceva, borbottava parole spezzate con voce rotta dall'eccitazione.

Sotto molti punti di vista, il predatore era spaventato quanto la preda. I depravati e i violenti andavano nel quartiere di al-Kiladiyah. Ragazzi e uomini che infastidivano una donna nelle strade cittadine sapevano di trasgredire sacri divieti morali e sarebbe bastato che una donna inseguita gridasse che subito si sarebbero fatti avanti uomini coraggiosi che, facendo sfoggio di virtù morali, avrebbero punito l'uomo, anche se lui era mussulmano e lei ebrea. Per questo la bocca dell'uomo era non meno asciutta della sua, le gambe gli tremavano come a lei e il cuore gli batteva quanto a Victoria.

All'imboccatura di un vicolo un po' più largo si voltò rapidamente a guardare e ne scorse l'aspetto. Un ragazzo, solo un ragazzo. Ingenuo come un ragazzo, pericoloso come un ragazzo. Baffi arroganti e un volto delicato. Un arabo, senza dubbio, con un abito di foggia occidentale, e spaventato per la sua audacia. Ma Victoria, che sotto il mantello indossava il vestito di casa macchiato dai bambini, sulla faccia aveva ancora le tracce delle lacrime ed era uscita per annegarsi con quel feto indesiderato che aveva in grembo, in quel momento non aveva alcun bisogno di sentirsi addosso i sospiri di quel ragazzo in calore. Tuttavia non ne fu infastidita, anche se la turbava sapere che lui la seguiva e osservava ogni movimento del suo corpo. Malgrado il freddo sudava e camminando inciampò. Tesa nell'indecisione se tenere o meno alta la testa, alla fine le si irrigidì il collo e cominciò a dolerle.

Le sussurrò qualcosa che lei non capì, ma dal suo tono rauco le parve che si preparasse a saltarle addosso e dovette farsi forza per non mettersi a correre. Si augurava di arrivare al più presto al vicolo da cui era andata via alcune ore prima maledicendolo, e trattenne il desiderio di gridargli di non essere più una ragazza, di aprire il mantello per mostrargli il ventre gonfio e di gettare via i veli per fagli vedere il viso su cui erano incisi i segni della sconfitta.

O forse i segni della vittoria. Perché era tornata viva dal viaggio verso la morte.

Un gruppetto di uomini vocianti, diretti a una notte di divertimenti, si avvicinava verso di lei. Non si fece in disparte, come ci si aspettava dalle donne modeste, ma raddrizzò la testa e restò ferma come uno scoglio, e gli uomini furono costretti a scorrere ai suoi lati. Si udirono fischi di stupore per la maestosità di quel blocco solido avvolto di nero e Victoria sapeva che anche dopo averla superata si sarebbero voltati indietro a guardarla per la sua altezza fuori del comune che aveva preso dal padre.

Il suo inseguitore, a quanto sembrava, era stato trascinato indietro dal gruppo e si era perso, come la paura della grande guerra. Protetta dai veli, sorrise al ricordo di come il cortile ebraico aveva sfidato il potente Impero ottomano, e aveva vinto.

Gli abitanti del cortile erano insetti al cospetto del colosso ottomano onnipotente. Nessuno sapeva se i turchi vincevano, o accumulavano sconfitte in quella guerra lontana. Gli uomini venivano presi, condotti verso nord e cadevano come mosche sulla via verso il campo di battaglia, al confine con la Russia. Era giunta la notizia che gli inglesi avevano conquistato Bassora e gli ebrei di quella città si erano salvati, ma il colosso continuava a inghiottire altri uomini nella sua guerra, e il misero cortile ebraico si era ribellato all'Impero. Tutti capirono la gravità della situazione e, per una specie di solidarietà tra combattenti, si coalizzarono, vecchi e giovani, donne e uomini, suocere e nuore.

Najiyah strinse le labbra, vedendo le cose chiaramente e senza illusioni. Non aveva alcuna fiducia in quella solidarietà. Sarebbe servita soltanto a chi era già forte e si trovava in difficoltà temporanea. Alla fine, quando la situazione di emergenza sarebbe passata, i forti sarebbero tornati e avrebbero imposto il proprio potere sul cortile.

Nessuno le diede ascolto. Gli anziani si rimboccarono le maniche e si misero a mantenere anche le famiglie di quelli che si nascondevano. I piccoli stavano in ascolto anche in mezzo ai loro giochi rumorosi e osservavano ogni movimento insolito fuori di casa, per avvistare gli emissari dell'esercito. Azizah e Miryam soprintendevano alla cucina, preparando per tutti, e facevano lavorare duramente Victoria e le due sorelle di Rafael. Anche Toyah fu aggiogata e faceva la sua parte.

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Victoria sventolò il vestitino che aveva appena finito di cucire, e al suo richiamo Clémentine accorse e ci infilò la testa che sbucò fuori dal piccolo scollo. Una faccina triste su un lungo collo. La primogenita aveva occhi grandi come quelli del padre. «Lo devo indossare ora?» quella domanda esprimeva un desiderio. Dai modi della piccola si capiva che la sua posizione nel cortile era instabile. Due o tre volte aveva fatto l'errore di cercare l'affetto di Izuri, come la figlia di Miryam cercava l'affetto del padre. Il nonno l'aveva allontanata afferrandola per il vestito sulle spalle magre, come se fosse stata una ragnatela. Allo stesso modo si scrollava di dosso anche il figlio Fuad, il quale, al contrario di Clémentine, rifiutava di capire l'antifona e continuava a cercare un contatto con il padre.

Nissan, Nazimah e Salimah avevano capito sin da piccoli che dovevano sparire quando si trovavano in sua presenza, ma dovevano affrettarsi a correre da lui ogni volta che voleva qualcosa. Quando Izuri prese in braccio il figlio appena nato, dapprima sembrò che ne valutasse il peso, come osservando un oggetto sospetto. Poi disse a Salimah di toglierglielo di mano e si strofinò una mano contro l'altra, e quello fu il primo e l'ultimo contatto con il figlio della sua vecchiaia.

Victoria si chiedeva se suo padre avesse mai amato qualcuno in vita sua. Le due donne che avevano turbato la sua giovinezza ora se ne stavano a letto indifferenti nella loggia: Azizah una massa di adipe che emanava un odore sgradevole, e la madre che allattava Alberjiyah agitando la testa avanti e indietro, come fanno le prefiche nei momenti di riposo. Ora era raro che il padre la notte chiamasse «Najiyah! Najiyah!» ma, sentendosi chiamare, lei ancora si trascinava al suo materasso con obbedienza silenziosa. Najiyah aveva perso persino la cattiveria e lui aveva smesso di picchiarla sulla testa, rassegnato alla sua stupidità. Aveva una cinquantina d'anni, era ancora un uomo attraente e nel pieno del vigore, ma aveva smesso di sorridere. A volte si fermava stupito accanto a Victoria e fissava Albertoriah con uno sguardo giovanile, muovendo le labbra sotto i baffi. Un giorno, non visto dagli altri, aveva infilato una moneta d'oro nella culla del nipote e aveva sussurrato: «Non scoprirgli troppo la faccia. Qui è pieno di malocchio». Victoria era arrossita fino alla radice dei capelli per la felicità.


«Allora posso mettermelo solo un poco» disse Clémentine con gli occhi che erano due laghi di speranza. «Ci faccio solo un giro nel cortile».

«Fra poco sarà Pesach e questo è l'unico vestito nuovo che avrai per la festa» spiegò Victoria. La piccola accettò il verdetto e nascondendo la delusione tornò a giocare con Layla. Il cuore di Victoria si strinse. Per i sensi di colpa le sembrava che la propria infanzia fosse stata felice se paragonata a quella della figlia. Erano passati mesi e da Rafael non era arrivata alcuna risposta. Il padre le suggeriva di ammettere i fatti e di accettare la sorte. Bisognava circoncidere Albertoriah, perché se fosse successo qualcosa, Dio ci scampi... lui era ancora incirconciso. Ma Victoria decise di aspettare ancora un poco.

«Qualcuno si degna di portarmi la colazione?» disse Najiyah cullando Alberjiyah nelle sue braccia ossute. «Salimah, muoio di fame!».

«La colazione ora?» chiese la figlia «È quasi l'ora di pranzo».

«Io ho fame, e non mi ricordo se ho fatto colazione».

La montagna di grasso sull'ottomana si mosse. «Lo fai apposta a dimenticare» brontolò la cognata Azizah. «Hai sempre accusato me di tutto. Ma non era colpa mia se Izuri ti picchiava per i vestiti che sparivano quando erano stesi sulla corda del bucato».

Najiyah fece una smorfia. «Che mi importa ora dei vestiti spariti venti anni fa?». E di nuovo, rivolta al cortile inondato dal sole: «Almeno un bicchiere di tè e una fetta di pane». Salimah la ignorò come si fa di solito con i vecchi fastidiosi. Voleva convincere Victoria a lasciarle svestire Albertoriah e fargli il bagno.

«Non ti importa?» urlò Azizah verso Najiyah con una rabbia antica. «Ti dico che era lei che vi rubava i vestiti dal tetto e li colorava di nero o di marrone. Per anni si sono vestiti a spese vostre, e il venerdì tu le prendevi da Izuri. E se mi chiedi dell'oro che nascondevi nelle fessure delle pareti...».

Najiyah si turò le orecchie con evidente tristezza. «Miryam, vieni a zittire tua madre. Le è marcito il cervello».

«Non ho tempo da perdere con voi» rispose Miryam dalla stanza con le vetrate. «State tutto il giorno a rigirarvi sui vostri tappetini e parlate a vanvera».

Nissan, che quel giorno non era andato al laboratorio, interpretò tutto questo come un segno che era possibile infierire su Azizah. Si avvicinò in silenzio ai piedi dell'ottomana, seguito dal fratello Fuad. Naim, il primogenito di Miryam, gli porse la scatola dei fiammiferi, e guardava incantato il cugino che infilava un fiammifero tra due dita del piede scoperto della nonna. I sospetti di Azizah si destarono: «Che state facendo lì, cani?».

Il nipote conosceva la ghiottoneria della nonna. «Ti abbiamo portato un po' di halva».

I piedi le facevano male per i reumatismi quando dormiva e le si intorpidivano quando era sveglia. La grande pancia le impediva di vedere che cosa facessero i tre ragazzi affacendati attorno al suo piede. Nissan accese un fiammifero e lo avvicinò all'altro che aveva infilato tra le dita, mentre Fuad e Naim lo coprivano.

«Uno scorpione!» urlò la vecchia. «Mi ha punto uno scorpione! Come uno spiedo rovente».

«Carogne» Salimah sgridò i piccoli delinquenti. «Sprecare così i fiammiferi, e poi la notte non ce ne sono per accendere i lumi».

«Uno scorpione!». L'urlo di Azizah zittì il trambusto del cortile. Il rumore dei passi di Miryam che si affrettava a scendere dal piano di sopra risuonò come un tuono che rotolava, e i tre teppistelli scapparono nel vicolo. Quando una figura magra ed esitante entrò nel cortile un minuto dopo, pensando che uno di loro fosse tornato a tormentarla, lo afferrò per la tunica e stava per prenderlo a schiaffi.

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