Copertina
Autore Henri Michaux
Titolo Altrove
SottotitoloViaggio in Gran Garabagna - Nel paese della Magia - Qui Poddema
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2005, In ottavo 8 , pag. 256, cop.fle., dim. 145x210x19 mm , Isbn 978-88-7462-033-3
OriginaleAilleurs [1948] - Voyage en Grande Garabagne - Au pays de la Magie - Ici,Poddema
CuratoreGianni Celati, Jean Talon
TraduttoreGianni Celati, Jean Talon
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe narrativa francese , viaggi
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Indice


    Altrove

  9 Prefazione

    Viaggio in Gran Garabagna

 13 Tra gli Hac
 21 Gli Emangloni
 21 Usanze e costumi
 28 La lebbra cornea degli Emangloni
 28 Gli Ecarassini
 43 L'uglabo
 45 La tribù degli Aravi
 46 Gli Omobolli
 46 Sulla piazza d'Orpdorp
 48 Gli Orbusi
 51 In Langhedina
 51 A Kivni
 54 A Kadnir
 56 Gli Omanvusi
 57 Le Ecoravette
 58 I Rocodi e i Nijidui
 59 Gli Arnadisi
 60 I Garinaveti
 61 I Bordeti
 62 I Mirni

[...]


    Nel paese della Magia

107 Il cadavere nella boa
107 La gabbia vuota
108 La goccia d'acqua sensibile
108 Un'onda separata dall'oceano
108 La camminata sulle due rive
108 Vestito per pronunciare la lettera "R"
109 Falò nella campagna
109 L'acqua che si trattiene dallo scorrere
110 Delle porte che sbattono sott'acqua
110 Pizzicargli la corda
111 L'armadio con gli impiccati
111 Le ventidue pieghe della vita umana
112 Rodere il proprio doppio
112 La paternità dei gobbi
113 Un moribondo ha sempre due dita
113 La medusa d'aria
113 Il fegato di vitello senza vitello

[...]

    Qui Poddema

159 Poddema-Ama
169 Poddema-Nara

    Appendice. In margine ad Altrove


[...]

215 Presentazione di Henri Michaux

    di Gianni Celati e Jean Talon

 

 

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Pagina 13

Viaggio in Gran Garabagna



Tra gli Hac


Mentre entravo in quel villaggio, fui attirato dal rumore verso una piazza piena di gente, tra la quale, su un palco, due uomini quasi nudi, con pesanti zoccoli di legno saldamente fissati ai piedi, si affrontavano in un combattimento mortale.

Benché non fosse affatto la prima volta che assistevo a uno spettacolo selvaggio, mi veniva lo sgomento al sentire certi colpi di zoccolo portati al corpo, così sordi, così sotterranei.

Il pubblico non parlava, non gridava, ma non smetteva mai di fare: "Uuh uuh!". Rantoli nati da complesse passioni, quei lamenti inumani s'innalzavano come immensi paramenti funebri, attorno a un combattimento "da carogne", dove un uomo stava per morire senza alcuna grandezza.

E accadde quello che accade sempre: uno zoccolo duro e ottuso colpì una testa. I nobili tratti, come lo sono anche i più ignobili, i tratti di quel volto venivano pestati come bietole di scarto. La lingua destinata alla parola ricade, mentre il cervello all'interno non cova più alcun pensiero, e il cuore (debole martello) riceve a sua volta dei colpi, ma che colpi!

Andiamo, adesso quello è morto del tutto! All'altro va la borsa e la soddisfazione.

"Allora, - mi chiede il mio vicino - cosa ne pensa?"

"E voi?" gli rispondo, perché in quel paese bisogna essere prudenti.

"Ebbene, — riprende quello — è uno spettacolo, uno spettacolo come tanti altri. Nella tradizione porta il numero 24".

E su queste parole, mi salutò cordialmente.

*

Fui consigliato di recarmi nella provincia di Van. Da quelle parti si pratica una lotta, che è alla base di tutte le altre. Nel novero degli spettacoli porta il numero 3, e gli uomini combattono in una palude.

Tale combattimento di solito avviene tra parenti stretti, in modo che la combattività sia maggiore.

Si indovina subito quali siano gli incontri più apprezzati. La differenza d'età tra una generazione e l'altra non conta, posto che le forze fisiche siano equilibrate.

In questi spettacoli, a malapena si sente qualche sussurro. Soltanto la melma viscosa anima il combattimento, imparziale ma perfida, a volte esagerando uno schiocco che sembra un tuono, a volte annullando un colpo tragico al basso ventre, sempre vile, strisciante, aperta all'uomo che vi si abbandoni. Quei bufali lucenti con membra d'uomo, con la testa gocciolante di melma, soffiano, lottano, a metà asfissiati, ciechi, assordati dal fango traditore che entra dappertutto e ostruisce tutto.

*

Vidi il combattimento di due fratelli. Da quattro anni si evitavano, sviluppando le loro forze e perfezionandosi. Si fecero incontro senza capire cosa succedeva, si sarebbe detto. Iniziarono a palparsi sognando, sporcandosi tutti di melma, come per rendere irriconoscibili i tratti di famiglia che stavano per rendere stravolti, eccome!

Il vecchio odio nato nell'infanzia prese a crescere in loro a poco a poco, mentre si cospargevano l'un con l'altro di quella viscosa lebbra terrestre, e il pericolo montava loro al naso, agli occhi, alle orecchie, in cupi avvertimenti. E d'un tratto divennero due demoni. Ma ci fu solo una presa. Trasportato dallo slancio, il maggiore cadde con l'altro nel fango. Che frenesia là sotto! Immensi secondi! Né l'uno né l'altro si rialzò. La schiena del maggiore apparve per un attimo, ma il suo capo non poté sottrarsi alla palude e ci sprofondò irresistibilmente.

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Pagina 51

In Langhedina


A KIVNI


Vissi a lungo alla corte di Kivni, e sebbene sicuro che vi ordissero intrighi, e in continuazione per giunta, non sono mai riuscito a sapere a qual proposito, né a rendermi conto d'un vantaggio che qualcuno avrebbe potuto ricavarne.

Eppure sì. Un giorno arrivò al palazzo qualcuno con gli stivali. Non lo notai subito, perché molti uomini venivano con stivali ai piedi. Anch'io. Ma i suoi stivali erano allacciati dal basso, mentre i nostri erano cuciti.

Come aveva ottenuto quel privilegio? Me lo sono spesso chiesto. M'informai, come si può immaginare, da ogni parte, ma non l'ho mai capito bene. Aveva cominciato a darsi da fare molto tempo prima (l'inizio dell'azione, a dir poco, sedici anni fa), aveva intrigato incessantemente, senza mai prendersi una vacanza, seguendo il principe dappertutto, o se questo era impossibile, il "capo del protocollo". E fortuna a parte, l'affare fu condotto con mano da maestro, poiché, sebbene lo tenessero d'occhio da un pezzo, quando si trovò davanti al fatto compiuto tutta la Corte rimase sbalordita.

Tutti facevano fatica a guardarlo in faccia, tanto il loro pensiero andava agli stivali.

*

Alla corte di Kivni gli stranieri godevano di certi privilegi, proprio a causa della loro naturale ignoranza degli usi.

Ma quali che fossero i privilegi, la maggior parte degli stranieri, anche quelli introdotti in modo principesco, anche gli ambasciatori più scaltriti, evitavano la Corte, non sentendosi a loro agio per causa delle minuzie innumerevoli dell'Etichetta.

Quanto a me, sebbene i saluti all'ingresso non abbiano smesso una sola volta di farmi soffrire, con i loro minuziosi dettagli che non si riesce mai bene ad applicare al caso giusto, pure non mi stancavo d'andarci, essendo le dame di Corte e le loro riverenze, simili a una danza (poiché per loro ogni complicazione è ben più grandiosa e teatrale che per noi), uno spettacolo per me sempre nuovo, di cui non riuscivo a stancarmi, e di cui non potevo più fare a meno.

Ahimè, dato che non sapevo danzare correttamente le figure di saluto che sono dovute alle dame di rango principesco, a Corte dovetti sempre restare in quello che si chiama il Grande Salone, e potei solo intravvedere il Salone della Corte (senza alcuna qualifica, di grande o di piccolo, essendo il piccolo riservato agli ambasciatori e ministri).

Fu Ajvinia che m'introdusse a Corte e m'insegnò le usanze. Ahimè, che cattivo allievo trovò in me!

Per un favore eccezionale fui invitato a casa di Ajvinia, al grande pranzo ch'essa dà alla fine dell'inverno, a trenta o trentacinque persone. Era la prima volta ch'ero invitato da una dama della Corte appartenente al primo rango dopo le principesse.

Come tutto era diverso dai ricevimenti di palazzo, con un'intimità così imitata a meraviglia, che malgrado la mia diffidenza mi lascia catturare! Ovunque erano bisbigli, grandi segreti finalmente svelati, confessioni messe a nudo, gente che si apriva del tutto!

In questa atmosfera per me nuova e alquanto strana, il volto di Clivelina, riposato e perfetto, luminoso come una perla, esisteva solo per me.

Il pranzo non durò a lungo. Si alzarono di tavola all'improvviso ma non tutti insieme; ci disperdemmo e non osai neppure salutarla.

Ignoravo quale fosse la regola per salutare una fanciulla di rango sconosciuto, la cui madre si sia già alzata di tavola.

Come, in qual modo potevo mai ritrovare Clivelina?

S'avvicinava l'epoca in cui i soldati di ventura dovevano tornare dalla spedizione vittoriosa contro i Clavà, e nessuna ragazza sarebbe più uscita. Venne il momento. Non l'avrei dunque incontrata mai più!

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Pagina 100

Dovobo, imperatore di Gran Garabagna


Contro ogni aspettativa, Dovobo, in seguito alla morte di suo padre, di sua madre, dei suoi fratelli, dei suoi zii e dei suoi dodici cugini, fu innalzato alle funzioni, del resto più onorifiche che effettive, di imperatore di Gran Garabagna. (La maggior parte delle tribù si asteneva dal rendergli alcun tributo.)

Quel selvaggio non era mai comparso a Corte. Entrò nella capitale come un forsennato, su un cavallo pericoloso e che sembrava drogato.

Si lasciò vestire, muto e scontento. Alla fine della cerimonia, avendo ricevuto tutte le insegne, si alzò in piedi come se stesse per pronunciare un discorso, si sedette di nuovo e mandò un profondo sospiro. Corse tra i cortigiani qualche mormorio. Egli si alzò di nuovo in piedi, li guardò con uno sguardo che non diceva niente di buono, si risedette e ruttò.

Quelli si guardarono l'un con l'altro, perché non credevano alle proprie orecchie.

Dopo qualche minuto egli esplose con voce violenta ed esasperata: "Che vadano via! Che vadano via tutti subito!" e le porte del palazzo si chiusero dietro la stupefatta Corte.

Vollero guidarlo alla camera da letto imperiale. "No!" Egli percorse il palazzo insieme a due domestici, strappando di qua delle lenzuola, di là delle coperte, prendendo su dei cuscini e tendaggi che gli piacevano, con cui fece un bel mucchio sul tetto e vi si corico.

L'indomani al risveglio fece gettare i troni nell'Edoar, il trono della sala del trono, il trono del salone degli ambasciatori, il trono della sala del Consiglio, il trono del Piccolo Palazzo, tutti, tranne un tronetto in vimini che trovò nel giardino, che da allora trascinò dappertutto per le stanze e nel parco, tenendolo stretto per un piede, rifiutandosi di affidarlo a un domestico.

Si installò nel giardino, e non si mosse più. Lì mangiava, lì riceveva, lì dormiva.

Le sue udienze, in giardino (sull'erba e sul terriccio pieno di formiche). I generali, in giardino. I diplomatici, in giardino, i governatori, in giardino.

Le porte furono aperte al popolo, ai mendicanti, agli straccioni, a tutti, e così anche i cancelli del grande parco.

La nobiltà disgustata non fece più che brevi apparizioni. I funzionari venivano solo per le firme. (La firma di Dovobo era fatta con una sola lettera, ma larga come il palmo della mano.)

Del resto era difficile imbrogliarlo perché, fingendo di non capire, egli chiedeva una spiegazione più semplice, più semplice e ancora più semplice, fino a quando non gli davano la formula stessa della verità, o una pura menzogna, cosa che capiva perfettamente; allora li inchiodava con una parola da bordello.

Odiato dai Grandi, che urtava continuamente, temerario nel suo menefreghismo, senza scorta, senza guardie, dormendo con due o tre donne, raccolte a suo piacere, come è possibile che non sia stato pugnalato già l'indomani dell'incoronazione? È un miracolo.

Ma il popolo, al quale il giardino restava aperto di notte, vegliava su di lui, guardia spontanea, entusiasta, che cresceva sempre, grazie alla liberalità di Dovobo e alla libertà del suo comportamento.

La sua indifferenza alla morte, che sembrava nascondere qualche pauroso mistero, di certo lo protesse ancora di più.

Dopo aver passato otto giorni in questo modo, Dovobo andò a Kivni, non certamente per incontrare il viceré, e la sua Corte (ancora più sofisticata e meticolosa di quella della capitale), ma per l'incredibile caccia in foresta che si può fare nei dintorni.

Appena arrivato, prese in antipatia il viceré. Al lungo discorso di benvenuto, rispose soltanto: "Bene! Bene! Bene!" con borbottio beffardo.

Il viceré, pallido e offeso, non spiccicò parola.

Si misero a tavola, e Dovobo non si serviva, guardava altrove. D'un tratto, voltandosi verso il viceré: "Mi fischiano le orecchie a forza di sentirti parlare". Il viceré non rispose.

Un'aria cattiva in Dovobo prese il posto della disinvoltura.

Mentre gli passavano un appetitoso tacchino su un grosso piatto di rame, con una mano afferrò il piatto, e lo torse e lo piegò come se fosse una pantofola, facendo schizzare la salsa sulla tavola, mentre il tacchino rotolava giù goffamente.

La sua forza fece impallidire i presenti; e lui stesso, pallido per lo sforzo fatto, e credendosi insultato dal profondo silenzio che era sopravvenuto, spinse indietro la poltrona, abbandonò la sala, chiese dell'inchiostro, e ne versò un bel po' sulla berretta d'un lacchè, con la quale scrisse sulla grande porta del palazzo a lettere grandi come pagnotte:

CASA MALADETTA!

Firmato: Dovobo.

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Pagina 107

Nel paese della Magia



A circondare il paese della Magia, dei minuscoli isolotti: sono delle boe. In ogni boa un morto. Questa cintura di boe protegge il paese della Magia, serve da ascolto agli abitanti del paese, segnala loro l'avvicinarsi degli stranieri. Poi non resta che disorientarli e ricacciarli lontano.

*

Si vede la gabbia, si sente svolazzare. Si percepisce il rumore indiscutibile del becco che si affila contro le sbarre. Ma uccelli, niente.

È in una di queste gabbie vuote che udii il più intenso schiamazzo di cocorito della mia vita. Beninteso, non se ne vedeva neanche uno.

Ma che rumore! Come se nella gabbia ce ne fossero stati tre, quattro dozzine:

"... Non stanno stretti in quella gabbietta?" chiesi macchinalmente, ma aggiungendo alla domanda, man mano che mi ascoltavo nel formularla, una sfumatura beffarda.

"Sì...," mi rispose il padrone risolutamente "e perciò strepitano tanto. Vorrebbero più posto".

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Pagina 159

Qui Poddema



Poddema-Ama


"Quant'è, le labbra?"

Ma la mia domanda restò senza risposta, ero in errore, dato che non mi trovavo a Niva, bensì a Kriva, dove il bacio, a prescindere dalla durata, è gratis, appositamente gratis.

In quel posto del resto ne ho visti soltanto di brevi, semplici e ben condivisi.

I forestieri si rallegrano di quest'usanza.

Le persone in lutto sono esentate dal servizio del bacio.

"Vede — fece — ecco un uomo ucciso dalle proprie parole".

Si tratta di una delle loro invenzioni più notevoli. Nella stanza delle bugie si deve pertanto parlare solo a ragion veduta. Qui vi vidi, introdotto di sorpresa e interrogato, una delle mie vecchie guide, di dubbia reputazione. Volli intervenire. "Disgraziato, taci, non parlare!" Ma lui, orgoglioso com'era, parlò, e le sue parole, ritornandosene a lui debitamente cariche, lo fecero cadere disteso. Era morto.

Da allora, più nessun bisogno del processo.

*

Mi trovavo a Langalore. Ero appena arrivato. Era la prima volta. C'erano molte donne, belle, di tipo magnetizzante.

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Pagina 161

A Huina, ai primi segni di vecchiaia, le persone anziane sono rieducate, in quanto divenute inadatte a sentire il Presente.

Se le si lasciasse andare, senza metodo, in breve tempo sarebbero totalmente irrieducabili.

I vecchi tentano, come si può ben immaginare, per orgoglio, di marinare la scuola. Peggio per loro. E anche se qualcuno esibisce un diploma di rieducato, ottenuto per pietà o per favore, questa protezione non lo coprirà impunemente. Provi soltanto a lasciarsi sfuggire qualche dimostrazione di vecchiaia, ad esempio dichiarando che gli si manca di rispetto, oppure che i giovani sono più superficiali che ai suoi tempi, e subito lo si chiuderà nella camera dell'oblio. Lì finisce ogni discussione.

Molti di loro, di fronte a questa minaccia, diventano alquanto prudenti e, tenendo più alla vita che al rispetto, acconsentono a tutto, ripassando fino a tre volte gli "esami di sensibilità". Quando sono bocciati è per zelo, per il loro eccesso di volontà, di cui danno prova maldestramente (questa volontà ossuta dei vecchi, fonte di durezza).

E quando il risultato è favorevole? Ebbè, questo ti fa dei vecchi proprio simpatici, accidenti! e all'occasione anche soccorrevoli, perché forse si sorvegliano un po' troppo.

*

Cinque registri di sofferenza. Me ne furono applicati tre, troppo anziano per subire il quarto e il quinto. A malapena mi fu concesso di intravvedere questi ultimi. D'altronde quello che più mi mancava, che pure credevo di conoscere, furono i malesseri, vasto insieme che qui chiamano "registro della pianura e dei pozzi". Il suo studio è preliminare a quello degli altri. Su millecentoquaranta me ne applicarono quattrocentododici. Passai dei mesi nella camera dei malesseri.

Senza quest'esperienza, si è come all'esterno dell'umanità, indifferenti ai vicini, alle loro pene, alle loro gioie anche. Si resta duri e insensibili in mezzo a loro, e insomma ridicoli.

Così una pura e semplice madre, non istruita ai malesseri, una madre "grezza", viene disprezzata da tutti e forse le toglieranno il figliolo, mentre quelle altre, che avranno ottenuto il diploma dei novecento, sono contese e tutti le vorrebbero come madri.

"Lei, arrivi almeno fino a cinquecento, mi dicevano, faccia uno sforzo. Da lì in poi avrà per chiunque una parola giusta. I suoi gesti saranno sempre a proposito. La sua gentilezza andrà dritta al cuore".

Senza immaginazione dei malesseri, niente umanità. Quando non potete aiutare il sofferente a uscire dalla sua malattia, infatti, lo tirate fuori almeno un istante sgravandolo psichicamente.

Ma non cercate troppo presto la conoscenza delle euforie. Troppe euforie tendono a chiudersi in un bozzolo, nemiche delle altre, e anche quelle apparentemente irradiate, quelle del tipo salute-bontà, sono a Poddema sospette, in quanto ingombranti per coloro che ne sono oggetto, i quali non ne traggono alcun beneficio, tutt'altro. E perché? Perché comunque e prima di tutto, pur con un po' più di ampiezza e di esteriorità, non sono altro che delle euforie in un bozzolo.

È importante che l'euforia non sia mai perseguita come fine direttamente. La si deve conoscere nella forma dell'acquietamento, della guarigione. Qualsiasi malessere, qualsiasi sofferenza che scompare, si lascia dietro un'euforia sui generis. È tramite questo aggiramento che bisogna ottenerla.

Le civiltà aumentano troppo il "saper fare". Chi non ne ha il dono, né l'abilità, che impari dunque piuttosto il "saper sentire".

Ciò è preferibile e armonizzerà l'intera società.

Dirò altrove come essi aumentarono, mediante cure e esperimenti, la mia conoscenza delle fatiche. Veramente, non avrei mai creduto che ce ne fossero tante di differenti. Temetti persino di passarci tutta la vita. Mi "piazzarono addosso" anche una ventina di soffocamenti, in verità al limite del sopportabile, parecchi umidi, e una grande quantità di freddi. Anche la loro gamma di brividi è straordinaria, base di una vita psichica più evoluta e prossima alla mistica.

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Pagina 185

Poddemani di cantina.

Li portano giù in cantina affinché loro si abbandonino ad abbracci augurabili e che loro stessi si augurano.

Altrimenti non ci sarebbero i polloni, e d'altronde questi sono rari. Piuttosto che veri e propri polloni, formano una sorta di nuova materia prima per l'inseminamento dei futuri Poddemani nel vaso.

Generazione del sonno. I Poddemani non si formano interi ed indipendenti, ma restano nel liquido generatore, vivendo una vita di ceppo o piuttosto di stagno. Dopo otto anni questa spugna muore e una nuova vita d'individuo poddemano spunta, vispa e intelligente.

Abitualmente silenziosi, apparentemente privi per natura del dono della parola, i Poddemani di cantina non sono muti. Lungi dall'esserlo.

Le urla che il lattante, in preda ai tormenti della fame, dei bruciori per le prime coliche, dei denti che nelle tenere gengive crescono come rocce, quelle urla che il lattante getta in un disperato appello verso le persone intorno, le quali sembrano non capire, il Poddemano di cantina, di colpo anch'esso seriamente esasperato, le lancia, con la bocca aperta come un cratere, smerciando come può il troppo-pieno della propria irrimediabile pena, che deve essere proclamata, per finirla infine con la cattiveria dei suoi proprietari. Lungo, lugubre grido, che lui fa risuonare e che passando dall'uno all'altro conquista intere file, intere cantine.

A quel tragico suono, i Poddemani di razza padrona fremono d'un non so qual turbamento nei recessi della loro anima. Però si controllano e riprendondono il loro attegiamento naturale, aspettando pazientemente che le urla cessino: cosa che non può mancare i accadere, per stanchezza e impotenza.

*

Tuttavia persino nelle cantine vi sono state delle rivolte. Delle rivolte senza speranza. Pur sempre delle rivolte.

Alcuni Poddemani nel vaso sono riusciti ad impadronirsi dei guardiani, della famiglia dei guardiani, e su di loro, in qualche minuto, si sono vendicati di un'interminabile vita d'orrori.

Ma la controffensiva delle forze dell'ordine arriva puntuale e li colpisce con armi superiori, studiate a tale scopo.

Li si annienta con esplosivi puzzolenti. Non certo uccidendoli; però il fetore estremo che si diffonde demoralizza i rivoluzionari, toglie loro lo slancio, se non la fede, dando loro il disgusto di tutto e portandoli a sbrogliare mediante il suicidio le matasse appiccicose e decisamente insopportabili di questa vita tremenda. Per mancanze meno gravi, la pena ordinaria è l'ulcera. Gli si inietta dell'Iggeal, che in qualche ora provoca un'ulcera netta e rotonda. Oppure gli si applica sul palmo della mano una foglia di Oggun. Per una colpa, una foglia. Per più colpe, più ulcere, e la dimensione della foglia è a discrezione del gendarme, salvo che il giudice non la determini (ma in proposito egli è generalmente evasivo).

Altra pena, la lebbra delle gambe. Guai se scappano, una volta inoculata. Sopratutto le femmine. Non sognano altro che di contaminare gli altri, di trascinare nella lebbra assieme a loro, se possibile, tutto il popolo dei Poddemani.

*

In generale, i Poddemani nel vaso e residenti nel vaso debbono essere costantemente difesi. Innanzitutto dalle pulci e dai parassiti che abbondano come il muschio su un albero sdraiato.

I Poddemani vanno inoltre difesi dai polli, i quali adorano beccarli, sopratutto quando gli è capitato di assaggiarli una prima volta.

Quei poveri Poddemani che non sono tanto vivaci nei movimenti, sono anche (malgrado le braccia e i denti) in balia delle pantegane.

Quanto ai gatti, li adorano e restano per intere giornate a guardarli, affascinati, senza che un uccello alla portata delle loro rapide grinfie, o persino un topolino che gli passi sulla coda, possa distrarli.

Non sognano altro che di strappare dei brandelli ai Poddemani nel vaso, malgrado il pericolo mortale di essere afferrati da un braccio possente, capace di annegarli nel liquido o di strangolarli.

Anche se forti, anche se ben difesi, i Poddemani soffrono la presenza del gatto, loro nemico, e diventano nevrastenici.

Gatto e Poddemano nel vaso, bisogna scegliere o l'uno o l'altro.

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Pagina 215

Prensentazione di Henri Michaux


di Gianni Celati e Jean Talon



1.

Ora che Henri Michaux (1899-1984) si è fatto strada tra i massimi autori di lingua francese, con la pubblicazione delle sue opere nella Bibliothèque de la Pléiade, si potrà vedere meglio una lunga elaborazione e uno sviluppo nella massa enorme dei suoi scritti. In ogni caso, tra resoconti di viaggi, prose visionarie, litanie esorcistiche, studi di allucinogeni, riflessioni sorprendenti, e disegni, inchiostri, acquarelli, Michaux ci porta verso un territorio che resta ancora largamente ignoto. Certamente un territorio fuori e lontano dalle mitologie d'un "io cosciente", in cui si è arroccata la letteratura occidentale.

Tutto è sparpagliato in estri di breve durata, sulle punte dei momenti. Davanti all'insieme dei suoi scritti si è spaesati, spiazzati da una specie di "scrittura a perdere". Frammenti sparsi, moti senza continuità, e poi nessuno di quegli sforzi letterari per "fare l'opera", per "scrivere il libro". Nessuna idea del libro come costruzione volontaria e autosufficiente. Tutto diffuso come la pioggia, ma anche esposto al flusso dei momenti, agli umori, alle distrazioni. "Bisogna lasciare che venga", diceva Michaux. Bisogna lasciare che ogni frase prenda forma per germinazione spontanea, come nei disegni fatti per passatempo, schizzando dei segni senza intenzione. I disegni e i quadri di Michaux seguono lo stesso principio, ha osservato Jean Starobinsky: simili a figure che emergono dalle macchie su un muro o da tracce su un foglio, attraverso un lavoro di fantasticazione.

Altro suo motto: "La volontà, morte dell'Arte" (Peintures et dessins, 1946). La volontà ambisce alla padronanza dell'espressione, e così cancella debolezze, incertezze, inquietudini: ci riporta continuamente all'idea di scrivere o creare immagini come un potere per dominare il mondo attraverso la sua rappresentazione. Michaux va puntigliosamente in direzione opposta: "Niente a che fare con l'immaginazione volontaria dei professionisti. Né temi, né sviluppi, né costruzioni, né metodo. Ma soltanto l'immaginazione dell'impotenza ad adeguarsi... giorno per giorno, seguendo i miei bisogni, come veniva, senza spingere, seguendo l'onda, più alla svelta ogni giorno, in un leggero traballamento della verità, mai per costruire, semplicemente per preservare" (Postface a Mes propriétés, in La nuit remue 1935). Quello che Michaux insegue è un rilassamento senza programmi, senza strategie, per lasciarsi prendere di sorpresa dalle frasi che spuntano sulla pagina. Ed ecco questa speciale fragilità, questa labilità della sua prosa, dove appaiono anche "i pensieri bianchi, i singhiozzi, i brividi, tutte le mancanze e i passi falsi della mente" (Masérable miracle, 1956).


2.

In tutti i libri di Michaux la scrittura sembra qualcosa che viene fuori come la bava delle lumache, come la tela del ragno, come un porro sulla pelle, o come gli escrementi che ogni giorno evacuiamo. Si sente che non c'è mai il problema di dimostrare qualcosa, ma solo di far fluire una secrezione che lascia tracce sulla pagina. Perciò a momenti quello che scrive è così rasserenante, perché non c'è niente dell'artista "creatore": niente di quelle pretese di serietà artificiale che gravano sulla letteratura. Lui lascia andare le frasi per vedere cosa si inventano. Allora ogni frase diventa un'acrobazia immaginativa, una specie di volteggio sul trapezio delle virgole. E tutte queste acrobazie sono invenzioni comiche, o enigmatiche, o paradossali, fatte per moti istantanei, per improvvisi conati naturali: "Naturali come le piante, gli insetti, naturali come la fame, l'abitudine, l'età, gli usi, le consuetudini..." (Préface ad Ailleurs del 1967).

In una conferenza su Michaux, André Gide ha illustrato per primo questo modo di scrivere, come un abbandono al filo delle parole che si dipanano: "Sensazione o pensiero, lui lo segue, senza preoccuparsi che appaia strano, bizzarro o strampalato. Lo prolunga e, come il ragno, si sospende a un filo di seta, lasciandosi portare dal soffio poetico, senza saper neanche lui dove, con un abbandono di tutto il suo essere" (Decouvrons Henri Michaux, 1941).

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