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| << | < | > | >> |IndiceNOVE SETTIMANE E BASTA. LOUISE MICHEL E LA COMUNE DI PARIGI DI CHIARA DI DOMENICO 7 PREFAZIONE 19 PRIMA PARTE. L'AGONIA DELL'IMPERO 23 Capitolo 1 - Il risveglio 25 Capitolo 2 - La letteratura alla fine dell'impero. Manifestazioni di pace 31 Capitolo 3 - L'Internazionale. Fondazione e processi. Proteste degli internazionalisti contro la guerra 37 Capitolo 4 - L'assassinio di Victoir Noir raccontato da Rochefort 48 Capitolo 5 - I] processo di Blois 67 Capitolo 6 - La guerra. Dispacci ufficiali 71 Capitolo 7 - L'affaire della Villette. Sedan 78 SECONDA PARTE. LA REPUBBLICA DEL 4 SETTEMBRE 85 Capitolo 1 - Il 4 settembre 87 Capitolo 2 - La riforma nazionale 92 Capitolo 3 - Il 31 ottobre 103 Capitolo 4 - Dal 31 ottobre al 22 gennaio 110 Capitolo 5 - Il 22 gennaio 117 Capitolo 6 - Qualche repubblicano nell'esercito e nella flotta. Piani di Rossel e Lullier 126 Capitolo 7 - L'assemblea di Bordeaux. Entrata dei prussiani a Parigi 130 Capitolo 8 - Rivolte nel mondo per la libertà 135 Capitolo 9 - Le donne del '70 139 TERZA PARTE. LA COMUNE 145 Capitolo 1 - Il 18 marzo 147 Capitolo 2 - Le bugie di Versailles 155 Capitolo 3 - L'affaire del 22 marzo 167 Capitolo 4 - Proclamazione della Comune 172 Capitolo 5 - I primi giorni della Comune. Le misure. La vita a Parigi 177 Capitolo 6 - L'attacco di Versailles. Racconto inedito della fine di Flourens narrata da Hector France e Cipriani 182 Capitolo 7 - Ricordi 194 Capitolo 8 - La marea sale 202 Capitolo 9 - Le Comuni di provincia 206 Capitolo 10 - L'armata della Comune. Le donne del '71 218 Capitolo 11 - Ultimi giorni di libertà 225 Capitolo 12 - I massoni 229 Capitolo 13 - Lo scambio di Blanqui con l'arcivescovo di Parigi e altri ostaggi 233 Capitolo 14 - La fine 241 QUARTA PARTE. L'ECATOMBE 255 Capitolo 1 - La lotta di Parigi. Il massacro 257 Capitolo 2 - La curée fredda 277 Capitolo 3 - Dai bastioni a Satory e Versailles 288 Capitolo 4 - Le prigioni di Versailles, i pali di Satory. Processi 302 QUINTA PARTE. DOPO 319 Capitolo 1 - Prigioni e pontoni. Verso la Nuova Caledonia. L'evasione di Rochefort. La vita penale. Il ritorno 321 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Quelli, donna, davanti alla tua indomita maestà Meditavano, e malgrado la piega amara della tua bocca Malgrado il maldicente che accanendosi su di te Ti gettava addosso tutte le grida indignate della legge Malgrado la tua voce fatale e alta che ti accusa Vedevano risplendere l'angelo attraverso la medusa. Victor Hugo Parigi, 2021. Là dove c'erano le barricate, oggi c'è la città. A Saint-Sulpice, per esempio, al posto di un negozio di saponette e souvenir c'era forse quella bottega di articoli sacri da cui la pallida signora Richoux esortò a prendere le statue dei santi per farne i basamenti di una delle ultime barricate della Comune. C'è la collina del Sacro Cuore dove la gioventù di tutto il mondo viene a prendere il sole nelle ore calde della giornata. La basilica del Sacro Cuore che, seduta sopra Montmartre, sorveglia la città nell'esatto punto da cui il popolo per la prima volta poté ribellarsi ai padroni. Ci vorrebbe un cartello che, assieme al pregio dei marmi ridondanti, illustrasse a tutto il mondo che furono quegli stessi padroni a erigerla, come ex voto, dopo aver ammazzato trentamila concittadini. Non sanno, i giovani di tutto il mondo, mentre bevono una birra al bistrot Aux Folies a pochi metri dalla metropolitana di Belleville, o forse qualcuno sa. Forse lo sa chi da quella stessa strada sale verso Père-Lachaise, al cimitero, non tutti per Oscar Wilde o Jim Morrison. Forse qualcuno sa che lì è stata combattuta una delle ultime battaglie della Comune, quella in cui la Vergine Rossa, Louise Michel, sparava insieme ai suoi compagni in mezzo alle tombe. Fino all'ultimo colpo. Libertà o morte. Ma andiamo per ordine. Parigi, 1870. La città dei boulevard, delle strade grandi fatte per il progresso: basta col pavé, buono al massimo per qualche barricata o sassaiola estemporanea, e viva il moderno bitume adatto allo scorrimento veloce dei mezzi. Basta con l'angustia delle vie strette del Quartiere Latino, o peggio, delle latrine a cielo aperto dei quartieri periferici, specialmente quelli a Est come Belleville, Montmartre o Neuilly. È la Parigi delle luci, questa di Napoleone III, il piccolo imperatore che con malcelato fastidio tollera gli epiteti del popolo che lo chiama Badingue, come un famoso nano dell'epoca. Lo stesso Napoleone che ha tradito e trucidato la Repubblica romana vent'anni prima. È la città di Haussmann, urbanista che guarda avanti, e pensa (in grande) alle capitali d'Europa come centro di grandi scambi, di ottimi affari, del benessere per tutti, a patto che siano disposti a tutto per averlo. I cittadini devono abituarsi a vedere ciò che non possono permettersi, per abituarsi a desiderarlo: vetrine scintillanti, bellissime donne, mezzi sempre più veloci. La città della Grandeur, la Parigi di quell'ultimo impero che per tenersi giovane prepara la solita guerra ai cugini tedeschi, quella che poi finirà con la disfatta di Sedan, l'assedio prussiano di Parigi, la nascita della Comune il 18 marzo, il crollo dell'impero, la nascita di una Repubblica reazionaria che sgozzerà la Comune nella settimana di sangue. Ma intanto, nei quartieri popolari dove meno di una casa su dieci è collegata alle fogne e otto su dieci sono illuminate a candela, una signorina minuta dai tratti mascolini, gli occhi grandissimi e l'espressione seria cammina di buon passo come ogni giorno verso la sua scuola. Una scuola per ragazze, per insegnar loro un lavoro, a scrivere due righe, a far di conto. Quanto basta, insomma, per non farsi fregare. La scuola è a Montmartre e la gestisce, insieme a sua madre, Louise Michel, la signorina minuta che in queste righe abbiamo già visto imbracciare una carabina a Père-Lachaise e camminare svelta verso le sue alunne. Sono venute a Parigi dall'Alta Marna, da un castello diroccato dove la madre era a servizio e dove Louise è cresciuta serena: è figlia di un amore illegittimo, ma anche sincero, così sincero da darle forza per una vita intera. Ora abitano in una piccola casa contigua alla scuola che Louise ha fondato coi soldi della sua dote: ha deciso che, coi tempi che corrono, meglio insegnare come stare al mondo a centinaia di ragazzini del popolo, anziché a due o tre soli tutti suoi. Insegna geografia antica, lettere, disegno, ma è facile che le maestre si scambino le materie tra loro. A proposito, Louise è maestra perché, all'epoca, quello di insegnante è l'unico diploma che la società riconosce alle donne. E se Louise apre una scuola laica e privata è perché ha avuto il capriccio di non giurare fedeltà a Badingue: niente giuramento, niente posto alla scuola statale. Ma per fortuna ha una dote e decide di fondarla da sola, libera e aperta a tutte e a tutti. Per capire la tempra della donna di cui stiamo parlando basta guardare il suo ritratto più noto, una fotografia a mezzobusto. Seduta, le braccia conserte, si intravede lo schienale di una seggiola, si vede un vestito austero e decoroso, senza fronzoli. Come i suoi capelli tirati indietro e disordinati, la bocca che non cede a un sorriso da fotografia, gli occhi vivi che ci fissano intensamente. Come a dire: «Via, 'sta foto falla bene e falla alla svelta, che c'è un mondo da cambiare e non ho tempo da perdere con queste frivolezze da cocotte e Napoleoni». Soffermandosi a guardarlo, quel ritratto, si ha la sensazione che sia vivo. Come certi crocifissi in certe vecchie chiese, che ti seguono tra le navate con lo sguardo. Tanto animo non se ne va in quattr'e quattr'otto da questo mondo, e poi lei aspetta ancora, perché il suo lavoro non è finito. «La folla oggi è muta, ma domani ruggirà come l'Oceano. Torneremo, fiumana senza numero, spettri vendicatori, verremo tenendoci per mano». Louise sa che c'è ancora tanto lavoro da fare, forse non finirà mai. In effetti, per tutta la vita, non si è fermata mai. Dal 1830, anno della sua nascita, al 1873, anno della sua deportazione in Nuova Caledonia, vede appena il piccolo paese natale di Vroncourt-la-Côte e Parigi, e poi, nel maremoto degli eventi, la Comune, la prigione e la condanna alla deportazione e in seguito l'amnistia nel 1880: l'Oceania, Sidney, il Capo di Buona Speranza, il Canale di Suez, Londra. Quell'Internazionale a cui aderì già negli anni Sessanta dell'Ottocento la prende in parola scaraventandola nella storia e nel mondo, e lei è davvero la Vergine Rossa, dedita anima e corpo all'Idea. A vent'anni intraprende una corrispondenza con Victor Hugo, a cui seguirà qualche incontro di persona su cui i più maliziosi non hanno mancato di piazzare l'immancabile pettegolezzo, arrivando ad attribuirle una figlia frutto dell'infallibile caccia dello scrittore. Anche Paul Verlaine le dedicherà una ballata. Sarà al centro delle cronache della Comune, proprio grazie al suo carattere indomito, alla parlantina sciolta che la porta a mettersi in mostra - suo malgrado - al processo, dove chiede per se stessa la pena di morte visto che, dichiara, appena libera la prima cosa che farà sarà vendicare i suoi compagni e proseguire la lotta per la rivoluzione sociale. Lupa assetata di sangue per i giornali della reazione, «Bonne Louise» per quelli della rivoluzione. È tra le poche donne, forse l'unica che, dalla prigione, riesce a scrivere lettere di fuoco ai suoi stessi carnefici esigendo e ottenendo ascolto. Lettere come questa: Alla Commissione di Grazia
Prigione di Auberive, 28 luglio 1872, 7 del mattino
Signori, Finalmente arrivano le vacanze, andate a far buona villeggiatura nelle vostre proprietà, il grano dovrebbe essere bello quest'anno, ben concimato com'è stato dal sangue umano. Fate buona caccia, Signori, la polvere per voi è a buon mercato, poi la caccia, lo sapete, è un gioco da signori. Selvaggina e figli del popolo, in ogni caso un bel bottino. Divertitevi! Ma non dimenticate che noi non dimentichiamo.
Andate, andate! Non lasciateveli scappare!
Louise Michel
Ma che cos'è questa rivoluzione sociale, questa Comune i cui centocinquant'anni cadono in un ventunesimo secolo che ha visto l'Internazionale trasformarsi in globalizzazione e il capitalismo cambiare forma come fosse un mostro imbattibile? Marx definisce la Comune il primo governo del popolo operaio, Bakunin la prima rivoluzione della città operaia contro lo Stato dei proprietari nobili e dei borghesi. Di certo, è la prima vera guerra civile operaia, proletaria: a nemmeno cent'anni dalla Rivoluzione francese, Parigi è la capitale di quel «socialismo del sentimento» che non fa strategie, come invece succederà più tardi in Russia, ma assalta il cielo, annega nel sangue, resta nella storia come un mito, una leggenda, e continua ad accendere gli animi come solo chi muore giovane sa fare. Invece di fare uno Stato, la Comune fa letteratura. O il successo, o la gloria: questo è il dilemma. La Comune è, prima di tutto, una tragedia. Intesa come messa in scena di un dramma umano che ancora oggi ci parla. A differenza della tragedia greca, dura non un giorno, ma nove settimane. Nove settimane in cui una città messa sotto assedio dall'ennesima guerra decide, anziché recitare la parte del solito coro di vittime, di diventare protagonista corale di una rivoluzione. Tante cose succedono per la prima volta a Parigi tra il 18 marzo e il 28 maggio 1871. Per la prima volta sono gli operai a insorgere, per la prima volta almeno una parte di loro gode dell'istruzione minima che gli permette di scegliere il proprio destino e non vedere il padrone come un semidio a cui obbedire o rubare. Per la prima volta sono le donne ad aprire le danze, impedendo ai soldati governativi di portar via i cannoni di Montmartre che il popolo di Parigi ha comprato con una sottoscrizione cittadina per difendersi dai prussiani. E questa prima battaglia la vinceranno loro, «convertendo» molti soldati alla rivoluzione. Donne, e insieme a loro tanti ragazzini, come i Ragazzi perduti, leggendaria milizia di adolescenti che scelsero di morire combattendo piuttosto che crescere servi. Per la prima volta si vede l'importanza delle grandi città, più importanti degli imperi ormai boccheggianti. L'importanza delle grandi città è nei quartieri dove la gente ha in Comune la vita: la povertà come l'amore, la rabbia come la solidarietà, le miserie e la speranza in un avvenire migliore. Non a caso il racconto di Louise Michel sui giorni della Comune inizia proprio con l'agonia dell'impero di Napoleone III, la farsa di un impero già morto che non vuole morire, una farsa che ricorda la fine di ogni potere, le stesse menzogne. E anche la prima volta di uno sterminio fratricida nel cuore della moderna Europa, in cui i soldati di leva delle province, non tutti convertiti alla causa, anzi ostili, si accaniscono sui parigini vedendoli come parigini e non come francesi; è la prima volta dei rastrellamenti di massa, delle esecuzioni sommarie, degli errori di Stato mai ammessi, delle fosse comuni. È la prima e ultima volta della buona fede: forse la Comune è l'unica rivoluzione di gentiluomini, che hanno riguardo dei culti, che non uccidono quasi mai, che rispettano persino la Banca Nazionale che li sbeffeggia non aprendogli le porte e passando i soldi al governo per schiacciarli. È anche la prima volta delle immagini che fanno la storia: insieme alla lotta contro il brigantaggio in Italia, la Comune è forse il primo caso europeo in cui giornali e fotografie hanno un ruolo di primo piano. In Italia si fotografano i briganti per propaganda, agghindandoli come criminali da baraccone a uso e consumo del consenso savoiardo; in Francia si fotografano i «briganti comunardi» al muro, o già nelle bare, mentre reazionari e rivoluzionari si contendono l'opinione pubblica a colpi di affissioni pubbliche e, soprattutto, di articoli di giornale. Tutto il libro di Louise Miche] è venato di questi resoconti, di una parte e dell'altra. Un'avvertenza per chi si appresta a leggere queste pagine. Non aspettatevi una scrittrice. Louise Michel non aveva tempo, e credo nemmeno un'eccessiva simpatia, per gli intellettuali e gli intellettualismi. Per lei le Lettere dovevano essere utili, non necessariamente belle. In più, non aveva una grande opinione degli artisti coevi: tranne Hugo e Courbet, altri come Zola si guardarono bene dallo sporcarsi le ghette nell'affare della Comune e dal lottare al fianco di chi sapeva di andare a morire. Se sui moti del '48 è un florilegio di contributi, sulla Comune regna un silenzio degli scrittori quasi imbarazzante. Perché per la prima volta non sono loro i protagonisti, e chi gli ha rubato la scena sono operai, piccoli artigiani, carrettieri e vinai semianalfabeti, troppo diversi da loro e che non amano che si venga a far poesia su miserie che di poetico non hanno niente. Loro non amano la bohème, invenzione da borghesi. Un miserabile che si veste bene è progresso, un ricco che si veste da miserabile o è un santo o gioca. Per la prima volta, i miserabili hanno deciso di prendersi insieme al potere anche la parola. Louise Michel non si fida troppo degli artisti. Parlano, parlano, ma che lavoro fanno? È il lavoro che garantisce la libertà a tutti, indipendentemente dal ceto. Dunque, se non lavori, o sei ricco o, peggio, sei cortigiano. E se sei cortigiano, non puoi essere libero. Anche per questo, La Comune di Louise Michel è un testo quasi dimenticato. Perché non è bello, e a dirla tutta, nemmeno lei lo è. E nemmeno la storia che stiamo per raccontare, così piena di sangue e di dolore, di rabbia e di addii. Questo libro vuole testimoniare. Nella letteratura dell'epoca è considerato un ibrido tra un diario, un racconto corale, un saggio e una cronaca. I fatti riportati vengono raccolti dalla Michel al ritorno dalla colonia penale in Nuova Caledonia, nel 1898, e dopo un'ulteriore reclusione di qualche anno. Molti dei suoi scritti sono andati persi, come ammette lei stessa. Resta un ricco epistolario, alcune opere poetiche, alcune opere teatrali. Ecco il teatro che torna. Leggete questo lungo racconto come la mise en éspace di un immenso coro di protagonisti. Non lasciatevi impressionare dalla mole capillare di fatti raccontati, dalla pletora di nomi: lo fa perché è l'unico modo per permettere di vivere in eterno a chi è morto per l'eternità dell'Idea. Tutti devono essere ricordati, tutti sono importanti. L'edizione che avete tra le mani nasce sulla traccia di quella italiana più popolare, pubblicata da Editori Riuniti e allegata in omaggio agli abbonati di «Rinascita», nel 1959. Alcune parti sono state espunte per non appesantire le cronache con eccessivi appunti militari, politici ed economici e mostrare al lettore, quanto più possibile, l'umanità che respira ancora in queste pagine, con qualche recupero dal testo francese originale. Quell'umanità, che senza pensarci troppo centocinquant'anni fa ha preferito nove settimane di vita vera a una vita intera di sopravvivenza, è ancora con noi. Ci invita a imparare dai suoi errori, senza dimenticarci mai che vivere non è sopravvivere, e che non bastano un intellettuale e un aperitivo per fare la rivoluzione, né un artista milionario senza volto e senza nome e la sua barca in mezzo al mare, anche se la barca in questione si chiama per ironia del destino «Louise Michel». La rivoluzione si fa in città, nelle strade e nelle scuole, nelle case e nei giorni anonimi della gente con un nome e un cognome; la gente, appunto, Comune. Infine, voglio dedicare il ritorno di questo libro, e di Louise Michel in Italia, a quelle donne che, in mezzo al chiasso delle battaglie cosiddette «di genere» e «di orgoglio», ogni giorno in silenzio lavorano armate di grazia e pazienza per recuperare pezzetto per pezzetto una civiltà vecchia e scricchiolante e consegnarla a chi verrà dopo. Civiltà del lavoro, dell'istruzione, dell'amore. La lotta di queste donne non ha niente a che fare col potere, ha a che fare con la pazienza e con l'attenzione, con la fatica e con l'intelligenza. Questo libro è per chi non brandisce la sua femminilità come un'arma per il potere, per chi non usa i mezzi del potere per combattere il potere. È per chi preferisce gli eroi alle vittime, l'azione ai piagnistei, il coraggio all'indignazione. Louise Michel diceva che dove c'è rivoluzione non c'è potere, e dove c'è potere non c'è rivoluzione. «Le donne non si chiedevano se qualcosa fosse possibile o impossibile: se ce n'era bisogno, riuscivano a farlo. Hanno voluto far delle donne una casta, e sotto la pressa degli eventi che le schiacciava, la divisione si è compiuta. Di certo non ci hanno consultato al riguardo, e noi non dobbiamo consultare nessuno. Non valiamo più degli uomini, ma a differenza di loro, il potere non ci ha ancora corrotte». Lo scriveva alla fine dell'Ottocento.
Quindi non fate di Louise Michel un'icona per bambine
ribelli. Lei le bambine le istruiva. Piuttosto, statela a sentire
come si fa con le maestre, quelle brave.
Chiara Di Domenico, Milano, 1° dicembre 2020 | << | < | > | >> |Pagina 19Se la folla oggi tace, domani ruggirà come l'Oceano Sarà pronta a morire. La Comune risorgerà. Torneremo, folla senza nome. Fiumana in ogni strada Spettri vendicatori sbucati dall'ombra Verremo tenendoci per mano. La morte porterà la bandiera nera grondante di sangue E la terra fiorirà di porpora Libera sotto il cielo fiammeggiante. (L. M., Chanson des prisons, maggio '71) Oggi, la Comune è pronta per la storia. A distanza di venticinque anni i fatti si delineano nettamente, si scoprono nel loro aspetto più autentico. Visti da lontano, gli avvenimenti si presentano come allora, con la differenza che ieri era insorta solo la Francia, mentre oggi tutto il mondo si è risvegliato. Qualche anno prima della sua fine l'impero rantolante si aggrappava a tutto, al ciuffo d'erba come alla roccia, tutto gli sfuggiva e ciononostante si aggrappava sempre, con gli artigli sporchi di sangue e i piedi sospesi nel baratro. Ma venne la disfatta. La montagna, franando, lo schiacciò. Tra i giorni di Sedan e i nostri le cose appaiono spettrali, e anche noi siamo spettri ancora vivi in mezzo ai nostri morti. Quest'epoca è il prologo del dramma che cambierà le basi delle società umane. Le nostre lingue imperfette non possono rendere esattamente l'impressione magnifica e terribile del passato che si dissolve confondendosi con l'avvenire che sorge. In questo libro ho tentato di far rivivere il dramma del '71. Un mondo che nasce sulle macerie di un altro mondo che sta finendo. Sì, il nostro tempo è simile a quello della fine dell'impero, con una repressione ancor più selvaggia e con più feroci, terribili, sanguinosi orrori, esumati da un passato senza pietà. Come se si potesse impedire l'eterna spinta del progresso! Non si può uccidere un'idea a colpi di cannone, come non le si possono mettere le manette. La fine si affretta quanto più l'ideale appare chiaro all'orizzonte: potente, bello e superiore a tutte le finzioni che lo hanno preceduto. E più questo presente grava, schiacciando le masse, più abbiamo fretta di uscirne. Scrivere questo libro vuol dire rivivere i giorni terribili nei quali l'ala della libertà ci carezzò librandosi sopra il mattatoio. Vuoi dire riaprire la fossa sanguinante sotto la cui cupola tragica si addormentò la Comune, bella per le sue nozze con la morte, le nozze rosse del martirio. E in questa sua grandezza terribile, per il suo coraggio nell'ora suprema, le saranno perdonati gli scrupoli, le esitazioni della sua profonda onestà. Nelle lotte future non si ritroveranno quei generosi scrupoli, perché per ogni sconfitta subita la folla rimane segnata come le bestie destinate al macello. Ciò che ne resterà sarà l'implacabile dovere. I morti dalla parte di Versailles furono pochi, un infimo pugno; ma ciascuno di essi fece migliaia di vittime, immolate ai loro Mani. Dalla parte della Comune le vittime furono senza numero e senza nome. Non si possono calcolare i cadaveri, le liste ufficiali ne hanno dichiarati trentamila, ma oltre centomila è la cifra più vicina alla verità. Si facevano sparire i morti a carrettate, se ne avevano sempre nuovi mucchi, e come fossero manciate di grano pronto per la semina venivano interrati in fretta. Soltanto i pazzi voli delle mosche sopra i carnai spaventavano i massacratori. Per un istante avevamo sperato nella pace della liberazione. La Marianna dei nostri padri, la bella che la terra attendeva, come dicevano loro, e che attende ancora, noi la immaginavamo persino più bella, essendosi fatta tanto desiderare. Le tappe sono faticose ma non eterne, ciò che è eterno è il progresso che pone sull'orizzonte un ideale nuovo e mostra prossimo ad avverarsi ciò che ieri sembrava utopia. Perfino la nostra epoca crudele sarebbe apparsa paradisiaca a coloro che contendevano alle belve la preda e il riparo. Ma come il tempo delle caverne è passato, anche il nostro sparirà; anzi, l'uno e l'altro sono già morti. Alla vigilia delle nostre battaglie amavamo parlare delle lotte per la libertà. In queste ore in attesa di un nuovo germinale, parleremo dei giorni della Comune e dei venticinque anni che sembrano più di un secolo, dall'ecatombe del '71 all'alba che sorge. Cominciano tempi eroici: le folle si uniscono come sciami di api a primavera, i bardi si levano cantando la nuova epopea.
È la vigilia della battaglia, e parlerà lo spettro di maggio.
Londra, 20 mmaggio 1898 | << | < | > | >> |Pagina 25L'impero era all'apice, uccideva a piacimento. Comandava nelle sue stanze odorose di sangue. Ma fuori la Marsigliese soffiava nell'aria, Rossa era l'alba che sorgeva. (L. M., Chansons des geôles) Nella notte di paura che aleggiava sul terzo impero già da dicembre, la Francia pareva morta. Ma proprio quando le nazioni si assopiscono come dentro i sepolcri, la vita in silenzio cresce e si espande; gli eventi si chiamano tra loro, rispondendo l'uno all'altro come eco a eco, nello stesso modo in cui una corda vibrando ne fa vibrare un'altra. Grandiosi risvegli allora seguono a queste morti apparenti, e le trasformazioni che si compiono dopo lente evoluzioni deflagrano. Allora come un turbine quel risveglio trascina gli uomini, li unisce, li trasporta con una tale rapidità che l'azione sembra precedere il pensiero. Il momento nel quale si temprano i cuori è quello in cui gli avvenimenti precipitano, come alla vampa si tempra l'acciaio delle spade. Laggiù, in mezzo al turbinio, quando il cielo e la terra sono immersi nella medesima notte e le onde rompono furiosamente sulle scogliere i loro artigli bianchi di schiuma sotto il ruggito dei venti, allora ci si sente rivivere come nei tempi atavici, in mezzo agli elementi scatenati. Ma nelle tormente rivoluzionarie, invece, la spinta è sempre in avanti. L'epigrafe di questo capitolo rende l'idea di cosa potessero provare, sul finire dell'impero, coloro che scelsero la lotta per la libertà. La libertà passava sul mondo, l'Internazionale era la sua voce che gridava di frontiera in frontiera le rivendicazioni degli ultimi. I complotti polizieschi mostravano le trame ordite da Bonaparte: la repubblica romana soffocata e sgozzata, le spedizioni in Cina e Messico coi loro loschi retroscena, il ricordo dei caduti durante il colpo di Stato; questa la cornice funesta intorno a colui che Victor Hugo chiamava Napoleone il piccolo, col sangue che arrivava fino al ventre del suo cavallo. Dappertutto la miseria montava minacciosa, e non erano certo i sacerdoti della società del principe imperiale a poter porre rimedio. Parigi, era Parigi che pagava pegno per questa società, e forse è ancora in credito di due milioni. Il terrore che circondava l'Eliseo in festa, la leggenda del primo impero, i famosi sette milioni di voti strappati con la paura e la corruzione, formavano intorno a Napoleone III una fortezza considerata inaccessibile. L'uomo dagli occhi torbidi sperava di durar così per tutta la vita, ma la fortezza si copriva di brecce, e dalla breccia di Sedan finalmente la rivoluzione entrò. Nessuno di noi allora avrebbe immaginato che si potessero eguagliare i delitti dell'impero. Quel tempo e il nostro si somigliano, per dirla con Rochefort, come due gocce di sangue. In quell'inferno, come oggi, i poeti cantavano l'epopea in cui ci apprestavamo a vivere e a morire, gli uni nelle strofe ardenti, gli altri in un riso amaro.
Come sono ancora attuali le nostre canzoni!
Non avevamo paura di scagliare in faccia al potere le parole per denunciare la sua ignominia.
La canzone della Badinguette fece andare su tutte le furie le turbe
imperiali.
La Badinguette, cantata una sera a tutta voce da quella folla di prigionieri che eravamo, nei sotterranei e nei cortili di Versailles, tra le due torce fumose che rischiaravano i nostri corpi stesi a terra contro i muri, è uno dei ricordi felici dei nostri giorni di prigionia. I soldati che ci sorvegliavano, per i quali l'impero esisteva ancora, erano insieme atterriti e infuriati. Ci gridavano che avremmo avuto una punizione esemplare per aver recato offesa a S. M. l' imperatore!
Un altro ritornello, gridato dalla folla mentre scuoteva gli
stracci coi colori imperiali, aveva parimenti il potere di fare
stizzire i nostri vincitori:
La convinzione che l'impero sarebbe sopravvissuto era così radicata nell'armata di Versailles, e certamente anche in altri corpi d'armata, che io stessa potei trovarne conferma nel provvedimento che mi fu letto nel carcere correzionale di Versailles: «Visto il rapporto e il parere del Relatore, e sentite le conclusioni di S. E. il Commissario Imperiale, che intende rinviarvi davanti al 6° Consiglio di guerra, eccetera». Il governo non aveva neanche pensato che valesse la pena aggiornare la formula. La rassegnazione della folla a sopportare, a soffrire durante gli ultimi duri anni di Napoleone III, ci riempì di sdegno. Noi, entusiasti della sognata liberazione, tanto prima la vedemmo quanto più grande era la nostra impazienza. | << | < | > | >> |Pagina 37I polacchi soffrono, ma esiste al mondo una grande nazione ancora più oppressa, è il proletariato. (Comizio del 28 settembre 1864) Il 28 settembre 1864 a Saint-Martin-Hall, a Londra, ci fu un grande comizio di protesta per la Polonia: talmente straziante fu il ritratto delle misere condizioni dei lavoratori fatto dai delegati di tutte le nazioni presenti, che fu presa la decisione di considerare i dolori dell'umanità intera come causa comune di tutti i proletari. Così nacque l'Internazionale, e grazie ai processi intentati negli ultimi anni dell'impero, si sviluppò espandendosi rapidamente. Già nel '71, salendo la scala polverosa della Corderie du Temple, dove si riunivano le sessioni dell'Internazionale, pareva di percorrere la scalinata di un tempio. Ed era davvero un tempio: quello della pace e della libertà. L'Internazionale aveva pubblicato i suoi manifesti su tutti i giornali europei e americani. L'impero inquieto, con la coscienza sporca, deliberò di classificarla come società segreta. Era così poco segreta che le sue adunanze erano pubblicamente organizzate; ciò nonostante fu dichiarata associazione clandestina. Gli internazionalisti, indicati come malfattori, nemici dello Stato, fecero la loro prima comparsa davanti al tribunale correzionale della VI Sezione il 26 marzo 1868, sotto la presidenza di Delesveaux. Gli accusati erano in tutto quindici: Chémalé, Tolain, Héligon, Murat, Camélinat, Perrachon, Fournaise, Dantier, Gautier, Bellamy, Gérardin, Bastier, Guyard, Delahaye, Delorme.
Gli atti d'accusa erano stati scelti a bella posta per sostenere davanti
all'opinione pubblica una supposta minaccia alla
sicurezza dello Stato. Ma non ci riuscirono. Tolain presentò
così le conclusioni generali degli accusati:
Ciò che avete udito dal Pubblico Ministero è la prova inconfutabile del pericolo che corrono gli operai quando si sforzano di studiare le questioni che toccano più da vicino i loro interessi, di consigliarsi a vicenda; di conoscere, insomma, le vie nelle quali hanno camminato finora alla cieca.
Per quanto facciano, per quante precauzioni prendano, per quanto grande
siano la loro prudenza e la loro buona fede, vengono continuamente minacciati,
perseguitati, e cadono nella morsa della legge.
E ci caddero anche questa volta, ma la condanna loro inflitta fu lieve in confronto a quelle subite in seguito. Ogni accusato fu condannato a cento franchi d'ammenda, e l'Internazionale fu dichiarata sciolta: il mezzo migliore, questo, per farla moltiplicare. | << | < | > | >> |Pagina 45Già sotto l'impero la Francia era la nazione meno libera d'Europa. Tolain, delegato nel '68 al congresso di Bruxelles, diceva a ragione che ci voleva un po' più di prudenza in un paese dove non esisteva «né libertà di riunione, né libertà di associazione; ma se l'Internazionale non esiste più ufficialmente a Parigi, tutti noi restiamo membri della grande associazione, dovessimo pur essere affiliati separatamente a Londra, a Bruxelles o a Ginevra; e noi speriamo che dal congresso di Bruxelles esca una federazione grandiosa dei lavoratori di tutti i paesi contro la guerra, che è sempre stata fatta a vantaggio dei tiranni contro la libertà dei popoli».
Dappertutto, infatti, si manifestava contro la guerra. Gli
internazionalisti francesi indirizzavano ai lavoratori tedeschi
questo proclama:
Fratelli di Germania, in nome della pace non ascoltate la voce prezzolata o servile di coloro che tentano di ingannarvi sulla vera opinione della Francia. Non date ascolto a provocazioni insensate perché la guerra fra di noi sarebbe guerra fratricida. Siate tranquilli come può esserlo un grande popolo coraggioso senza compromettere la propria dignità. I nostri reggimenti non farebbero che completare da una parte e dall'altra del Reno il trionfo del dispotismo. L'indipendenza che avete conquistato col vostro sangue è il più grande dei beni; la sua perdita, credeteci, è per i popoli la causa dei rimpianti più grandi. Lavoratori di tutti i paesi, qualunque sia l'esito dei nostri sforzi comuni, noi, membri dell'Internazionale dei lavoratori, noi che non conosciamo frontiere, noi vi indirizziamo come pegno di solidarietà indissolubile i voti ed i saluti dei lavoratori di Francia.
Gli internazionalisti francesi
Gli internazionalisti tedeschi risposero:
Fratelli francesi, anche noi come voi vogliamo la pace, il lavoro e la libertà, ed è per questo che ci associamo con tutto il cuore alla vostra protesta ispirata da un ardente entusiasmo contro ogni ostacolo al nostro sviluppo pacifico, contro le guerre spietate. Animati da sentimenti fraterni, stringiamo le vostre mani e vi dichiariamo la lealtà di uomini d'onore che non sanno mentire, perché nei nostri cuori non cova l'odio nazionalista ma ne subiamo la prepotenza ed entriamo recalcitranti e costretti nelle orde guerriere che vogliono ancora una volta spargere miseria e rovine nei placidi campi dei nostri paesi. Anche noi siamo guerrieri, ma vogliamo combattere lavorando pacificamente e con tutte le nostre forze per il bene dell'umanità; vogliamo combattere per la libertà, l'uguaglianza e la fratellanza, combattere contro il dispotismo dei tiranni che opprimono la santa libertà, contro la menzogna e la crudeltà, da qualsiasi direzione provengano. Vi promettiamo solennemente che nessun rullo di tamburi ne' cannonata ne' vittoria né disfatta ci distrarranno dal nostro lavoro per l'unione dei proletari di tutto il mondo. Come voi, non conosciamo più frontiera perché sappiamo che sulle due rive del Reno, nella vecchia Europa, nella giovane America vivono i nostri fratelli e con loro siamo pronti ad affrontare la morte per il trionfo dei nostri sforzi: la Repubblica sociale. Viva la pace, il lavoro, la libertà! A nome dei membri dell'Associazione internazionale dei lavoratori di Berlino.
Gustav Kwasniewski
Al manifesto dei lavoratori francesi si aggiungeva quest'altro:
Ai lavoratori di tutti i paesi Lavoratori! Noi protestiamo contro la sistematica distruzione della razza umana, contro lo sperpero dell'oro del popolo che non deve servire che a fecondare la terra e l'industria; contro il sangue sparso per la soddisfazione odiosa della vanità, dell'egoismo, delle ambizioni di monarchi avidi e insaziabili. Sì, con tutte le nostre forze noi protestiamo contro la guerra come uomini, come cittadini, come lavoratori. La guerra è il risveglio di istinti selvaggi e di rancori nazionali. La guerra è il mezzo adoperato dai governanti per soffocare la libertà di tutti.
Gli internazionalisti francesi
Queste giuste rivendicazioni furono sopraffatte dagli inni bellicosi delle orde imperiali delle due nazioni, che spingevano verso il comune macello il gregge francese e il gregge tedesco. Possa il sangue dei proletari dei due paesi cementare l'alleanza dei popoli contro i loro oppressori! | << | < | > | >> |Pagina 83Il primo settembre i francesi furono accerchiati e disintegrati come in un crogiolo dall'artiglieria nemica che occupava le alture.Caddero due generali, Treillard ucciso e Margueritte mortalmente ferito. Baufremont allora, per ordine di Ducrot, scagliò tutte le divisioni contro l'armata prussiana. Aveva con sé il 1° ussari e il 6° cacciatori, Brigata Treillard; il 1°, 2° e 4° cacciatori d'Africa, Brigata Margueritte. Fu orribile e magnifico: fu questa la famosa carica di Sedan. Fu talmente impressionante che il vecchio Guglielmo esclamò: «Oh, che bravi soldati!». La carneficina fu così smisurata che la città e le campagne circostanti erano coperte di cadaveri. In questo lago di sangue gli imperatori di Francia e di Germania avrebbero ben potuto estinguere la loro sete. Il 2 settembre, nella foschia della sera, l'armata vittoriosa in alto sui colli innalzava un canto di ringraziamento al dio degli eserciti, invocato anche da Bonaparte e Trochu. Le voci melodiose e irreali dei tedeschi, come in un sogno, si librarono incoscienti sopra il sangue versato. Napoleone III, esasperato, non volle ritentare la sorte: si arrese, e con lui si arresero più di ottantamila uomini, le armi, le bandiere, centomila cavalli, seicentocinquanta pezzi di artiglieria. L'impero era finito, sprofondato così in basso da non potersi più risollevare. L'Uomo di dicembre franava con quello di Sedan, trascinando con sé tutta la dinastia. Così è: ormai non si potrà agitare che la cenere della leggenda imperiale. E nella valle di Sedan sembra di veder passare la gazzarra imperiale, come in un volo di fantasmi, trascinata insieme agli dei di Offenbach dall'orchestra beffarda della Bella Elena mentre avanza l'oceano spettrale dei morti. Più tardi la carica comandata da Baufremont fu attribuita a Galliffet, per attenuare l'indimenticabile orrore della carneficina di Parigi: sappiamo che Galliffet si trovava a Sedan, dove raccolse il cappello da generale di Margueritte, ma ciò non diminuisce la sua responsabilità per il sangue versato, che non si cancellerà mai più. I prigionieri di Sedan furono portati in Germania. Sei mesi dopo, la commissione per la disinfezione dei campi di battaglia fece sterrare le fosse nelle quali erano stati gettati in fretta i cadaveri. Si versò sopra la resina e con del legno di larice si accese un falò. Sui resti si gettò la calce viva, affinché ogni residuo sparisse. Calce viva: in quegli anni, instancabile mangiatrice di uomini. | << | < | > | >> |Pagina 172Stavano lì in piedi, pronti al sacrificio. (Bardi Galli) La proclamazione della Comune fu magnifica. Non era la festa del potere, era la cerimonia del sacrificio: sentivamo di essere gli eletti pronti alla morte. Il pomeriggio del 28 marzo, sotto un sole splendente che ricordava l'alba del 18, il 7 germinale, anno 79 della Repubblica, il popolo di Parigi che il 26 aveva eletto la propria Comune fece il suo ingresso nel palazzo comunale. Un oceano umano scorreva sotto le armi, baionette alte e spesse come spighe nel campo, squillar di trombe e rulli sordi di tamburo battuti dai due inimitabili tamburini di Montmartre, gli stessi che svegliarono Parigi la notte che si introdussero i prussiani: le bacchette spettrali e i loro pugni di acciaio evocavano suoni sinistri. Questa volta, però, le campane erano mute: il rombo pesante dei cannoni, a intervalli regolari, salutava la rivoluzione. E le baionette si abbassavano davanti alle bandiere rosse che a gruppi circondavano la statua della Repubblica. In cima, un gran vessillo rosso. I battaglioni di Montmartre, Belleville, La Chapelle avevano le loro bandiere sormontate dal berretto frigio: sembravano le reclute del '93. Nelle unità militari, soldati di ogni arma rimasti a Parigi: fanteria, marina, artiglieria, zuavi. Le baionette sempre più fitte ondeggiavano ormai anche nelle vie laterali, la piazza era piena, sembrava un campo di grano. Quale sarebbe stata la mietitura? Tutta Parigi era in piedi: il cannone tuonava a intervalli. Il comitato centrale era sistemato in una tribuna: davanti i membri della Comune, tutti con la fascia rossa. Poche parole tra un colpo e l'altro dell'artiglieria. Il comitato dichiarava scaduto il proprio mandato e rimetteva il potere alla Comune. Si faceva l'appello degli eletti. Si alzò una sola voce: «Viva la Comune!». I tamburi batterono a battaglia, i cannoni fendettero i raggi del sole. «In nome del popolo» disse Ranvier, «la Comune è proclamata!». In questo prologo di Comune, tutto fu straordinario. La morte doveva segnarne l'apoteosi. Niente discorsi, solo un grido immenso: «Viva la Comune!». | << | < | > | >> |Pagina 177Tempi futuri, visione sublime. I popoli sono usciti dall'abisso! Il tetro deserto è alle spalle; dopo la sabbia l'erba verde E la terra è una sposa. E il popolo il suo sposo. (V. Hugo) Parigi respirava! Ma lo faceva come chi vede salire la marea montante che travolgerà il suo riparo. Versailles avanzava lenta ma inesorabile. I primi decreti della Comune furono la soppressione del Monte di Pietà, l'abolizione del bilancio dei culti e della coscrizione. Si credeva, forse si crede ancora adesso, di poter separare Chiesa e Stato che trascinano tanti cadaveri nelle loro malversazioni. Invece per vederli scomparire non bisogna separarli, ma annientarli insieme. Poi si passò alla confisca dei beni di manomorta ecclesiastica; furono assegnate pensioni alimentari per i federati caduti in battaglia, pagabili a mogli e figli, legittime o illegittimi che fossero le une e gli altri. Fu Versailles in persona a provvedere che quelle pensioni venissero pagate, con le sue sentenze di morte. Le donne che avessero chiesto la separazione dal marito portando prove inconfutabili avrebbero avuto diritto alla pensione alimentare. Veniva abolita la procedura ordinaria, e le parti in causa avevano diritto all'autodifesa. Divieto di perquisizione senza regolare mandato. Divieto di accumulo di denaro, con un reddito massimo di seimila franchi all'anno. Gli onorari dei membri della Comune erano di quindici franchi al giorno, ben lungi dall'essere ricchi. La Comune organizzo anche una sezione del tribunale civile a Parigi, l'elezione dei magistrati e delle giurie. Si provvide subito a ripristinare gli stabilimenti abbandonati dalle società. Lo stipendio dei maestri fu fissato a duemila franchi l'anno. Si decise inoltre di abbattere la colonna Vendôme, simbolo di prevaricazione, testimonianza del dispotismo imperiale e che avrebbe potuto con la sua memoria attentare alla fraternità dei popoli. Più tardi, per porre un freno alle esecuzioni dei prigionieri perpetrate da Versailles, venne approvato un decreto per gli ostaggi presi fra i versagliesi: fu l'unica misura in grado di rallentare gli eccidi dei prigionieri; venne attuata tardi, quando non si poté più lasciar sgozzare i federati loro ostaggi senza considerarlo tradimento. La Comune proibì le multe nelle fabbriche; abolì il giuramento politico e professionale; fece appello agli scienziati, agli inventori, agli artisti. Il tempo passava e Versailles non si trovava più in cattive acque come ai tempi dei cavalli ridotti a pelle e ossa. Thiers accarezzava e ingrassava l'esercito del quale aveva bisogno per i suoi scopi. Gli oggetti depositati al Monte di Pietà per meno di venticinque franchi furono restituiti. Si voleva abolire il lavoro notturno dei fornai perché troppo faticoso, ma furono gli stessi fornai a chiedere di continuare allo stesso modo, sia per abitudine che per distribuire il lavoro in maniera più omogenea.
Ovunque ferveva intensa la vita. Courbet in un caloroso
appello diceva: «Ora che ognuno potrà dedicarsi senza ostacoli alle proprie
imprese, Parigi raddoppierà la sua importanza, e la città internazionale
d'Europa potrà offrire alle arti, all'industria, al commercio, allo scambio di
ogni sorta, ai visitatori di ogni paese, un ordine inossidabile: l'ordine dei
cittadini che non potrà essere rotto dai pretesti di nessun abominevole
pretendente».
Addio al vecchio mondo e alla diplomazia. Parigi ebbe in effetti, quell'anno, la sua Esposizione, ma gli organizzatori furono il vecchio mondo e la diplomazia: l'Esposizione dei morti. Centomila e non trentacinquemila cadaveri furono esposti in una camera mortuaria immensa, nell'altrettanto immensa cornice delle fortificazioni. La commissione federale degli artisti era così composta: Pittori: Bouvin, Carot, Courbet, Daumier, Arnaud, Dursée, Hippolyte Dubois, Feyen, Perrin, Armand Gautier, Gluck, Jules Hereau, Lannon, Eugène Leroux, Manet, Millet, Oulevay, Picchio. Scultori: Becquet, Chapuy, Dalou, Lagrange, Lindencher, Moreau, Vauthier, Moulin, Otlin, Poitevin, Deblezer. Architetti: Boileau figlio, Delbrouck, Nicolle, Achille Oudinot, Raulin. C'erano anche alcuni incisori e altri artisti, tra cui Eugène Pottier. Versailles naturalmente andava dicendo che la Comune distruggeva le arti e le scienze, mentre i musei erano aperti al pubblico, come il giardino delle Tuileries e gli altri; aperti anche ai bambini. All'Accademia delle scienze gli scienziati discutevano tranquillamente, senza occuparsi della Comune che viveva e lasciava vivere. Thénard, i Becquerel padre e figlio, Elie de Beaumont si ritrovavano come al solito. Alla seduta del 3 aprile, per esempio, Cedillot inviò un libro sulla medicazione delle ferite sul campo di battaglia; il dottor Drouet sui diversi trattamenti del colera, argomento di stretta attualità, mentre Simon Newcombe, americano, si estraniava dai fatti della terra e degli uomini per analizzare a tavolino le fasi della luna. Delaunay rettificava gli errori di osservazione meteorologica senza preoccuparsi d'altro. Il dottor Ducaisne si occupava dell'angoscia, scoprendo che i rimedi morali potevano essere più utili dei farmaci: avrebbe potuto aggiungerci le conseguenze della paura e la sete di sangue delle potenze che crollano. Gli scienziati si occuparono di tutto in totale serenità, dalla vegetazione anormale di un bulbo di giacinto agli effetti della corrente elettrica. Il chimico Bourbouze, impiegato alla Sorbona, aveva costruito un apparecchio elettrico col quale telegrafava su brevi distanze senza fili, e l'Accademia delle scienze l'aveva autorizzato a fare degli esperimenti sui ponti della Senna, sfruttando l'acqua anziché la terra. L'esperimento riuscì e l'apparecchio fu utilizzato al viadotto di Auteuil per comunicare con un punto di Parigi attaccato dalle truppe tedesche. Il rapporto terminava col resoconto di un esperimento fatto su un aerostato, per ricevere i messaggi trasmessi da Auteuil dal Bourbouze: il pallone fu trascinato via dal vento, un po' meno lontano di quanto accaduto al pallone di Andrée ai nostri tempi. Chevreul, con voce chioccia, pur dichiarandosi sostenitore categorico della classificazione radiale, riconosceva l'importanza degli studi embriologici. Ovunque si aprivano corsi che assecondavano la sete di sapere di quella gioventù. Si volevano tutte insieme arti, scienza, letteratura, scoperte. La vita bruciava, tutti volevamo andarcene più in fretta possibile dal vecchio mondo decrepito. | << | < | > | >> |Pagina 182Invasati dalla grandezza degli eventi Esortano il mondo a combattere l'estrema battaglia, Mostrandogli attraverso la mitraglia Gli alti alberi della pace. (V. Hugo) Come si era deciso di legalizzare con le elezioni la nomina dei membri della Comune, allo stesso modo si attese l'attacco di Versailles, col pretesto di non prestare il fianco al nemico nell'accusa di aver scatenato la guerra civile, come se il nemico fosse la guerra civile e non i tiranni! Quando i generali, ripreso vigore, constatarono che ogni sciabola era a filo e ogni bottone attaccato alla sua ghetta, Versailles attaccò. Tutte le mute di schiavi urlanti vennero legate alle slitte dei loro padroni. Tale è ancora nel branco umano l'abitudine a obbedire agli ordini, che quelli che avevano gridato a Versailles, a Montmartre e a Belleville e che insieme avrebbero composto un esercito temibile, non ebbero l'estro di armarsi in qualche modo, unirsi e partire. Chissà se, dovesse ripetersi l'occasione, la storia cambierà mai? Il 2 aprile, verso le sei del mattino, Parigi fu svegliata dal cannone. All'inizio si pensò a qualche festa dei prussiani che circondavano Parigi, ma ben presto la verità fu chiara: era Versailles che attaccava. Le prime vittime furono le allieve di un pensionato di Neuilly, dietro la porta di una chiesa dove senza dubbio erano andate a pregare per Thiers e l'assemblea nazionale. Il cannone colpiva a caso: il dio degli assassini ha l'abitudine di sacrificare i suoi, specialmente quando va di fretta. Due corpi d'armata in marcia verso Parigi, uno per Montretout e Vaucresson, l'altro per Rueil e Nanterre, si riunirono alla rotonda dei Bergers, sorpresero e massacrarono i federati a Courbevoie. Dopo essersi ritirati, i federati superstiti, affiancati dai tiratori garibaldini, ripresero l'offensiva. La sera stessa Courbevoie era stata ripresa. Trovarono, entrando, i cadaveri dei prigionieri allineati sul corso. [...] Il corpo d'armata di Duval combatteva fin dal mattino contro i distaccamenti dell'esercito regolare, uniti a dei poliziotti: piegò in ritirata su Châtillon solo dopo il massacro. Duval, due suoi ufficiali e parecchi federati fatti prigionieri furono quasi tutti fucilati la mattina dopo, insieme ad alcuni soldati passati alla Comune, i galloni strappati prima dell'esecuzione. La mattina del 4 aprile la brigata Déroja e il generale Pellé occupavano l'altura di Châtillon. I federati accerchiati si arresero, fidandosi della promessa del generale di aver salva la vita. I regolari riconosciuti furono fucilati sul posto, gli altri deportati a Versailles sotto un coro di insulti. Vinoy li vide in cammino, e non osando fucilarli tutti dopo la promessa di Pellé, chiese se tra loro ci fossero dei comandanti. Duval si fece avanti. Il suo capo di stato maggiore e il comandante dei volontari di Montrouge uscirono dai ranghi e andarono a mettersi al fianco di Duval. «Siete delle schifose canaglie!» gridò Vinoy, e ordinò che fossero fucilati. Gli eroi si allinearono addossati al muro, si strinsero la mano e morirono gridando: «Viva la Comune!». Un soldato rubò le scarpe di Duval e se le mise: era diffusa nell'armata di Versailles l'usanza di scalzare i morti della Comune. Il giorno dopo Vinoy commentava: «I federati si sono arresi a discrezione: il loro capo, un certo Duval, è stato ucciso nella mischia!». E un altro aggiungeva: «Questi briganti muoiono con una certa spavalderia!». Donne orrende, ubriache di ferocia, vestite lussuosamente e arrivate da chissà dove al seguito dell'armata di Versailles, insultavano i prigionieri e con la punta dei loro ombrelli pesticciavano gli occhi dei cadaveri. Avide di sangue come vampiri, erano in preda a una rabbia micidiale. Ce n'era di ogni razza, calate con immondi appetiti, pervertite di tutta la filiera sociale, mostruose e stupide come iene. Fra gli assassini di Parigi fatti prigionieri, che Versailles salutò con urla di morte, c'era il geografo Elisée Reclus. Fu mandato con alcuni compagni a Satory e spedito ai pontoni su carri bestiame. Ma nessuno era stato ingannato quanto i soldati, carne da menzogne quanto da cannone. Tutti quelli che erano stanziati a Versailles, che avrebbero contribuito alle peggiori atrocità, erano stati convinti che la Comune fosse un nido di briganti in combutta coi prussiani. | << | < | > | >> |Pagina 221Alla barricata di Neuilly, crivellata di proiettili, c'erano feriti raccapriccianti: alcuni avevano le braccia strappate fin sopra le spalle, le ossa scoperte; altri il petto squarciato, altri le mascelle divelte. Venivano disperatamente medicati. Chi aveva ancora un filo di voce non smetteva di dirlo fino alla morte: «Viva la Comune!». Non ho più visto dei corpi così martoriati.A Neuilly, qualche volta eravamo talmente vicini ai versagliesi che li sentivamo chiacchierare. Fernandez, madame Danguet, Mariani, vennero e organizzarono un'infermeria mobile vicino alla barricata Peyronnet, di fronte allo stato maggiore. I feriti meno gravi restavano lì, i più gravi venivano spostati alle grandi infermerie secondo il parere dei medici; in ogni caso spesso quelle cure svelte ed efficaci gli salvarono la vita. Come sempre in mezzo alle cose più tragiche spuntavano quelle più grottesche. Un contadino di Neuilly aveva seminato dei meloni che custodiva gelosamente appena germogliati, difendendoli dagli obici: dovemmo strapparlo di lì con la forza e distruggere la serra, che aveva già tutti i vetri rotti, per impedirgli di tornarci. Chi aveva voglia di ridere raccontava che a Parigi alcuni agenti di Versailles, mandati da Thiers per organizzare sabotaggi, avrebbero dovuto introdursi in città dalle fogne, ma non avevano fatto bene i conti ed erano rimasti incastrati; per non crepare lì sotto chiesero aiuto ai nemici, così furono salvati e i sabotaggi sventati. Altri agenti, mentre tentavano di seminar zizzania tra il comitato centrale e la Comune, erano stati talmente esagerati da smascherarsi da soli. Si rideva in mezzo ai fischi degli obici e delle esplosioni, sotto il rombo dei cannoni. La porta di Maillot resisteva sempre, coi suoi leggendari artiglieri, pochi e coraggiosi, vecchi e giovani. La mattina del 9 aprile un soldato di marina di nome Fériloque restò attaccato al proprio pezzo, che gli squarciò l'addome. Ci rimase caro quel nome. Come quello di Craon; altri invece sono rimasti sconosciuti, ma che importa sapere i loro nomi? È la Comune, e sotto questo nome saranno vendicati. I battaglioni della Comune passano lievi come figure sognate, fieri nella loro libera marcia di ribelli, i vendicatori di Flourens, gli zuavi della Comune, gli esploratori federati simili ai guerrieri spagnoli, pronti alle imprese più audaci. E i Ragazzi perduti che con indimenticabile slancio si spingevano di trincea in trincea, sempre avanti! I «turcos» della Comune, i «lascars» di Montmartre insieme a Gensoule ed altri ancora. Tutti arditi dal cuore buono che a Versailles venivano chiamati delinquenti. La loro cenere è sparsa al vento, le loro ossa consumate dalla calce viva. Sono la Comune, sono lo spettro di maggio. E le armate della Comune contarono nelle loro fila donne della mensa, infermiere, soldatesse, ovunque, senza distinzione. Solo qualcuna è rimasta nella storia: Lachaise, la signora della mensa del 66°; Victorine Rouchy dei «turcos» della Comune; la signora della mensa dei Ragazzi perduti; le ambulanziere della Comune: Mariani, Danguet, Fernandez, Malvina Poulain, Cartier. Le donne dei Comitati di vigilanza: Poirier, Excoffons, Blin. Quelle della Corderie e delle scuole: Lemel, Dmitrieff, Leloup. Quelle che organizzavano l'istruzione aspettando la lotta di Parigi in cui combatterono eroicamente: le signore Andrée Leo, Jaclar, Périer, Reclus, Sapia. Tutte facevano parte dell'esercito comunardo e anche loro erano soldatesse. | << | < | > | >> |Pagina 229Mentre il bombardamento demoliva le Ternes, gli Champs-Elysées, Neuilly, Levallois, Thiers con la sua consueta buona fede assicurava che si sarebbe accontentato di attaccare gli avamposti, e che se Parigi avesse aperto le porte e consegnato i membri della Comune non sarebbe stata bombardata. L'alito del pericolo soffiò sulle ultime discordie stringendo gli uni agli altri. Si andava a morire insieme, era passato il tempo delle divisioni politiche. Erano tutti uguali ora, tutti semplicemente combattenti per la libertà. Gli stessi che prima erano spaventati dai sospetti alimentati dalle lunghe lotte sotto le perfidie imperiali, ora sentivano avvicinarsi il momento in cui la Comune non sarebbe stata solo un unico nome a firma dei manifesti, ma anche un unico petto da offrire alla morte. Era ormai un solo movimento, delle leghe dei dipartimenti e di Parigi. La Comune stava per morire: a cosa era servito allora l'entusiasmo universale? Avevano avuto luogo tante manifestazioni, ma Versailles col suo cuore di pietra si era preoccupata solo per la sua banca. Il 26 aprile i massoni avevano invitato una delegazione dei venerabili e dei deputati delle logge per aderire alla rivoluzione; si era deciso che il 29 sarebbero andati in corteo sui bastioni fra Point-du-Jour e Clichy e che lì avrebbero piantato la bandiera della pace, ma se Versailles l'avesse rifiutata si sarebbero schierati con la Comune. Il mattino del 29, infatti, si recarono al palazzo comunale dove Félix Pyat pronunciò un discorso commovente a nome della Comune e consegnò loro una bandiera. Quell'insolita cerimonia fu uno spettacolo da sogno. Ancora oggi, parlandone, mi sembra di rivedere quella fila di fantasmi vestiti all'antica diretti a pronunciare parole di libertà e pace destinate a realizzarsi solo più tardi. Faceva impressione: fu magnifico ammirare quell'immenso corteo incedere al ritmo della mitraglia. C'erano i cavalieri Kasoches con la sciarpa nera bordata d'argento, gli ufficiali rosacroce col cordone rosso al collo e tante insegne simboliche da confondere la realtà con un sogno. In testa marciava una delegazione della Comune col vecchio Beslay, Ranvier e Thirifocq, delegato dei massoni. Passavano bandiere straniere; la fucileria, i cannoni, i proiettili facevano rabbia. C'erano seimila rappresentanti di logge. Il corteo spettrale percorse rue Saint-Antoine, la Bastiglia, boulevard de la Madeleine e passando per l'Arco di Trionfo e avenue Dauphine, salì sulle fortificazioni, tra l'esercito di Versailles e quello della Comune. Da porta Maillot a porta Bineau, un corridoio di bandiere. Sul frontone della porta sventolava la bandiera bianca della pace con su scritto in lettere rosse: «Amatevi l'un l'altro». Fu forata dalla mitraglia. Erano intercorsi dei segnali tra lo schieramento dei federali e quello di Versailles, ma il fuoco cessò solo dopo le cinque. Si trattò; tre delegati massoni si recarono a Versailles dove non ottennero che ventiquattr'ore di tregua.
Al ritorno, i massoni pubblicarono un manifesto col racconto degli
avvenimenti e la loro protesta per la profanazione
della bandiera della pace, diretto alla federazione dei massoni
e ai compagni di Parigi.
I massoni sono uomini amanti della pace, della concordia, della fraternità, dello studio, del lavoro. Hanno sempre lottato contro la tirannia, il dispotismo, l'ipocrisia, l'ignoranza. I loro affiliati abbracciano il mondo: sono filosofi che hanno per precetto la morale, la giustizia, il diritto. Anche i compagni sono uomini che pensano, riflettono ed agiscono per il progresso e la liberazione dell'umanità. Massoni e compagni sono venuti dai loro santuari tendendo con la mano destra il ramo d'ulivo, simbolo di pace, e con la sinistra la scure della rivendicazione. Dato che gli sforzi dei massoni sono stati respinti per ben tre volte da coloro che hanno la pretesa di voler rappresentare l'ordine, e visto che ormai la loro lunga esperienza è fiaccata, tutti i massoni e i compagni devono brandire l'arma vendicatrice e gridare: «Fratelli, avanti! Traditori e ipocriti non restino impuniti!». [...] | << | < | > | >> |Pagina 259Parigi, questa città maledetta che sognava il bene comune, in cui i banditi del comitato centrale e della Comune, gli orchi del comitato di salute pubblica e di sicurezza non aspiravano ad altro che a dare la propria vita per il bene comune, questa Parigi non era la stessa Parigi dell'egoismo borghese, più feroce ancora dell'egoismo feudale: la razza borghese fu grande per appena mezzo secolo, dopo l'89. Delescluze, Dijon furono gli ultimi borghesi a somigliare a quelli lì.Gli uomini coraggiosi della Comune, ognuno al suo posto, col fardello del potere levatogli dalle spalle, col rispetto della legalità annientato dal dovere di vincere o morire, col sospetto eterno svanito nella grandezza della libertà riconquistata, tornarono se stessi. Il carattere riluceva senza falsa modestia. Parigi poteva farcela? Chi lo sa? I dieci cannoni di porta Maillot tuonavano sempre, e appena cadeva ferito un artigliere subito un altro si precipitava a sostituirlo. Anche se non ci furono mai più di due soldati per cannone. Un marinaio di nome Craon stringeva una miccia per mano mentre moriva, due mani per due cannoni. Quasi tutti gli eroi di questa storia sono rimasti sconosciuti. Saranno vendicati nella grande rivolta il giorno in cui su un fronte grande come il mondo si alzerà la rivoluzione. | << | < | > | >> |Pagina 349Oggi, 2 agosto 1898, giorno in cui termino questo libro, la fotografia apre una nuova strada. I raggi X permettono di vedere attraverso la carne detronizzando la vivisezione. La barbarie va scomparendo dalla terra. Ecco, non vogliamo credere che la volontà, l'intelligenza umana non sarà a sua volta più libera? Ricordo, sei anni or sono, nella sala dei Cappuccini, una sera in cui i miei pensieri volavano in libertà cercando di spiare nel futuro. Mi ero azzardata a formulare questa idea: che, essendo fatto d'elettricità, sia possibile fotografare il pensiero, e che siccome non ha lingua, resti tracciato in segni simili a solchi di luce, uguali per tutti i dialetti. Una specie di stenografia. E adesso possiamo vedere attraverso i corpi: cosa può impedirci di arrivare fino alla luce?
Grazie alla scienza, i mondi sveleranno i loro segreti: sarà
la fine degli dèi. L'eternità sarà prima e dopo di noi nell'infinito
delle sfere: e queste compiranno le loro trasformazioni eterne,
come gli esseri viventi. Coraggio, ecco il germinale dei secoli.
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