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| << | < | > | >> |Indice5 Valerla e Angelo È vero, fui io 18 Elio Seduto al riparo delta grande scrivania 48 Claudia Quando aveva cominciato 59 Valeria e Angelo (2) Sì, Valeria se ne andò, all'improvviso 72 Elio (2) Al telefono hai detto che 93 Claudia (2) Passarono così diversi mesi 106 Deborah Deborah 117 Deborah (2) Passò del tempo 127 Valeria e Angelo (3) Quella notte stessa 141 Elio (3) Elio non 164 Claudia (3) Tornò ai primi di settembre 175 Valeria e Angelo (4) Come avrebbe potuto 187 Elio (4) È probabile che ora 204 Claudia (4) Uscirono. L'aria era sempre tiepida 215 Deborah (3) Mettere qualcosa nel cibo 227 Deborah (4) L'indomani 239 Valeria e Angelo (5) Mi aspettavano 249 Elio (5) Ai primi di settembre 269 Claudia (5) Non sarebbero andati in crociera 277 Valeria e Angelo (6) Restammo a casa 292 Elio (6) Intanto l'autunno 317 Claudia (6) Poco prima di Natale Claudia s'ammalò 326 Deborah (5) Fu allora che 337 Deborah (6) Restammo al mare ancora |
| << | < | > | >> |Pagina 5E' vero, fui io a presentarli, e per questo mi sono sempre sentito un po' responsabile di quanto accadde in seguito. Ogni volta che ci ripenso, per alleggerire il mìo senso di colpa mi ripeto che si trattò di un incontro fortuito, e che il mio ruolo fu secondario e strumentale. È la pura verità, del resto: mi limitai a dire i loro nomi, e i due si strinsero la mano. Resta il fatto che nel vederli l'uno accanto all'altra, in quella caldissima sera del luglio '93, ebbi come un brivido, e avvertii una strana sensazione di pericolo, un senso di minaccia incombente. Sentii forte l'impulso di prenderlo sottobraccio e allontanarlo da lei, e ancora mi rimprovero per non averlo fatto. Sono certo che non m'avrebbe seguito: era rimasto folgorato nel vederla e credo che nessuna forza al mondo avrebbe potuto staccarlo da lì, ma se ci avessi almeno provato, adesso la mia coscienza sarebbe più tranquilla. Lui l'avevo conosciuto da pochi mesi. Si chiamava Angelo. C'eravamo incontrati alla Foto Ottica, il negozio all'inizio del Corso in cui si ritrovano la sera gli appassionati per parlare di macchine fotografiche, obiettivi, filtri e d'altro ancora. Angelo entrò per comprare delle pellicole. Era la prima volta che lo vedevamo. Noi eravamo seduti nel salottino che sta accanto alla sala di posa. Vincenzo, al solito, imperversava. Grande e grosso com'è, occupava da solo uno dei divanetti e stava raccontando, a voce altissima e con mimica esuberante, alcune di quelle barzellette sbracate di cui sembra avere una scorta inesauribile. Angelo pagò le sue pellicole e poi si accostò al nostro gruppo, forse richiamato dalle risate. Rise anche lui, alla fine della storiella successiva. Restò poi ancora un poco ad ascoltare i nostri discorsi e quando andò via ci salutò, ricambiato da tutti noi. Ci chiedemmo l'uno con l'altro se qualcuno sapeva chi fosse, ma per tutti era un perfetto sconosciuto. «È la prima volta che lo vedo» disse Antonio, il proprietario del negozio. «Dev'essere un forestiero» aggiunse Benito, «non l'ho mai visto in giro». In effetti, la nostra è una piccola città, e, almeno di vista, ci si conosce tutti. «È simpatico, però» fece Claudia, la moglie di Antonio. Assentimmo tutti: il ragazzo ci aveva fatto una buona impressione. Quando si fece rivedere, alcune sere dopo, Beniamino e Guido si strinsero un poco per fargli posto sul piccolo divano. Era diventato uno di noi. Sapemmo che era in città solo da poco. Si occupava di informatica. Una banca della nostra città s'era fusa con quella dove Angelo lavorava, su in Romagna, e lui era stato mandato quaggiù, al centro elettronico, per collaborare alle necessarie modifiche e integrazioni delle procedure automatizzate. Angelo di fotografia ne capiva, e come, ma più che per la sua indubbia competenza a me, e credo anche agli altri, era piaciuto subito per il suo sorriso aperto, l'aspetto scanzonato e quel particolare accento che faceva subito simpatia. Era sui trent'anni, un pezzo di marcantonio sul metro e ottanta abbondante, con spalle da lottatore e vita stretta. Bruno, abbronzato, capelli ricci e occhi nerissimi, Angelo sfoggiava una barba nera tagliata molto corta che gli regalava un'aria da pirata saracino. Quando sorrideva, e sorrideva spesso, metteva in mostra una chiostra di denti perfetti e bianchissimi. Al sorriso partecipava tutto il viso, che gli si illuminava a partire dagli occhi, dai quali sembrava sprizzassero scintille. Valeria, invece, la conoscevo da una vita. Avevamo anche avuto una mezza storia, anni addietro. Una relazione breve e incruenta, se cosi mi posso esprimere. Una reciproca simpatia ci aveva avvicinati; annusandoci un po' più da vicino, però, c'eravamo accorti che esisteva un'incompatibilità di fondo fra noi. Era di tutta evidenza che un camioncino con motore diesel - il sottoscritto - e una Ferrari Testarossa - lei - non potevano procedere per lungo tempo affiancati. Con la migliore buona volontà, la velocità di crociera dei due veicoli era troppo diversa perché uno dei due motori non fondesse, prima o poi. Così avevamo lasciato cadere la cosa, senza drammi e restando buoni amici. Tra noi c'erano state pertanto solo caste effusioni, qualche bacio o poco più. In una sola - peraltro indimenticabile - occasione, m'era stato concesso di avventurarmi in carezze più intime, che mi avevano fatto constatare di quale prezioso velluto vivente fosse fatta la sua pelle e resa più difficile la rinuncia. Difficile, ma necessaria: Valeria mi avrebbe bruciato in una stagione. Ero comunque rimasto un suo fervido ammiratore..... | << | < | > | >> |Pagina 18Seduto al riparo della grande scrivania dal piano sgombro, con la testa appoggiata all'alto schienale della comoda poltrona e le mani intrecciate sullo stomaco, il dottor Elio Santi seguiva con lo sguardo le piccole nubi paffute di un candore abbagliante che a intervalli regolari attraversavano pigre lo spazio azzurro incorniciato dalla finestra aperta. Le spingeva verso oriente una brezza leggera e fresca, che a tratti riusciva a intrufolarsi anche nella stanza e muoveva le tende bianche tirate da un lato. Il dottor Santi continuò ancora per qualche minuto ad accompagnare le nuvole nel loro lento trasmigrare da uno stipite all'altro, poi fece forza sui piedi e la poltrona ruotò. Quando nel suo campo visivo apparve il calendario appeso alla parete di fronte, bloccò la rotazione. Lesse il nome del mese e l'anno: maggio 1988; poi fece scorrere lo sguardo lungo la fila verticale dei giorni fino a incontrare il numero otto. Era scritto in rosso. Cadeva di domenica, quell'anno, cosa che del resto sapeva benissimo, avendo già consultato a più riprese il calendario, quella mattina. Rifece ad ogni modo il conto e ottenne lo stesso risultato delle altre volte: mancavano soltanto sei giorni al suo cinquantesimo compleanno. Era, questo, un avvenimento che Elio aspettava con una certa inquietudine. In preda da qualche tempo a una malinconia accidiosa che lo rendeva inerte e cupo, temeva che il giro di boa del mezzo secolo potesse acuire il suo stato di malessere. Sarebbero state inevitabili, pensava, meste considerazioni sul tempo che fuggiva e sulla vecchiaia ormai prossima, e certo non avrebbero giovato al suo umore. Non c'era davvero bisogno di aggiungere altro peso, al fardello che già sentiva gravargli sulle spalle. Erano mesi che si limitava a lasciarsi galleggiare sul mare dell'esistenza, simile a una zattera che va alla deriva. Si sentiva vuoto, privo di stimoli e di obiettivi. Era una condizione insolita e sgradevole per lui, che fino allora era stato pieno di curiosità e interessi. Li aveva coltivati al riparo dell'argine sicuro costituito dall'impiego tranquillo, dall'esistenza quieta che permetteva la cittadina di provincia in cui viveva, dalla serenità della sua vita familiare. Poi s'era ritrovato con quella scimmia sulla schiena. Se gli avessero chiesto di indicare la causa di tale cambiamento, non sarebbe stato in grado di rispondere. In apparenza, infatti, nulla era mutato nella sua vita. Ringraziando Dio, né lui né altri della famiglia avevano seri problemi di salute; non ne aveva nemmeno di economici; i rapporti con la moglie e i figli erano sereni come sempre; in ufficio non aveva nulla da temere; ciò nonostante era triste, avvilito, malinconico. Non sarebbe stato nemmeno in grado di precisare quando quello stato di cose aveva avuto inizio. Forse perché un inizio netto e ben individuabile non esisteva, ma s'era verificato piuttosto un lento accumularsi di scorie grigie sulla sua anima, e insieme un progressivo esaurirsi della sua carica vitale, dovuto alla semplice e terribile fatica di esistere. Quale che ne fosse la causa e in qualunque momento avesse avuto inizio, fatto sta che il malessere peggiorava di giorno in giorno, con una accelerazione che faceva temere il peggio. A volte, per infondersi coraggio, Elio si diceva che se era in grado di accorgersi di quanto gli stava accadendo, forse il male non era arrivato all'ultimo stadio. Magari era ancora possibile instaurare una terapia capace di restituirgli la perduta gioia di vivere. Il problema era trovarla, questa cura. Arrivò il giorno del suo compleanno. Si dice che ai pessimisti la vita non riserva mai brutte sorprese. A volte, anzi, proprio a quanti non si aspettano mai niente di buono da lei, si diverte a regalarne addirittura una piacevole. E' proprio ciò che avvenne a Elio in questa occasione: al contrario di quanto aveva temuto, infatti, la ricorrenza ebbe su di lui un insperato effetto benefico. Già al risveglio, la mattina dell'otto maggio, si scoprì in uno stato d'animo diverso da quello abituale. Si sentiva un po' più sereno; quella scimmia sulla schiena l'aveva sempre, ma sembrava essersi fatta più leggera. I pensieri stessi erano meno angosciosi, e prendevano direzioni diverse da quelle battute negli ultimi tempi. Elio si sentì rinfrancato. Il raggiungimento del mezzo secolo, di quello che è senza dubbio un traguardo importante nella vita di un uomo, si stava rivelando un evento positivo. Avvertiva un confortante stimolo a reagire. .... | << | < | > | >> |Pagina 277Restammo a casa dei miei ancora per una settimana. Quando ripartimmo, Valeria sembrava tornata quella di un tempo. Tornammo a casa nostra, ma ci restammo poco. Avevo proposto a Valeria di andarcene in vacanza in quell'albergo delle Seychelles in cui eravamo stati così felici all'inizio della nostra storia, e lei aveva accettato con gioia. Partimmo il 29 di ottobre. Furono altre due settimane di gioia pura, amico mio. Quel posto aveva una magia che funzionava sempre, almeno per noi. Avevo di nuovo Valeria fra le mie braccia, e mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo, all'epoca in cui il futuro sapeva di miele. Non parlammo mai di quanto era accaduto: non volevo rovinare quei momenti incantati. Al ritorno proposi a Valeria di cambiare città. La banca aveva stretto nuove alleanze, espandendosi dalla Romagna fino alla Puglia e aprendo filiali anche a Roma e Milano. Più di una volta mi avevano offerto di lasciare il centro elettronico e di assumere la direzione di una sede, ma io avevo sempre rifiutato. Il mio lavoro mi piaceva e non avevo particolari ambizioni di carriera, ma se lei avesse voluto allontanarsi, l'avrei assecondata. Valeria, però, disse che non ce n'era bisogno. Le piaceva la nostra città, ci si trovava bene e poi non voleva fuggire. Quanto accaduto, disse, era ormai alle sue spalle, dimenticato per sempre. Voleva vivere lì, e tornare alla sua vita di un tempo. Riprese a insegnare e a governare la casa, infatti, e la nostra vita sembrò davvero tornare quella dei primi mesi di matrimonio. Avevo quasi paura a crederci. Godevo di quella nuova felicità, ma ero anche inquieto e guardingo. Spiavo il comportamento di Valeria e le espressioni del suo viso nel timore di cogliervi i segni di una nuova assenza, ma non trovavo niente che alimentasse le mie preoccupazioni. Vigilavo sui dintorni di casa nostra per scoprire presenze insolite e guardavo sempre nello specchietto quando ero in macchina, ma non notai mai niente di sospetto. Pian piano mi tranquillizzai. Lo feci a tal punto che una sera parlai di nuovo a Valeria della possibilità di adottare un bambino. Fu un errore, me ne accorsi subito. Lei si irrigidì, e un'espressione dolorosa le si dipinse in viso. Disse solo: «Magari più in là» e io mi pentii d'aver parlato... | << | < | > | >> |Pagina 292Intanto l'autunno stava lasciando posto all'inverno. Adesso faceva freddo e spesso pioveva. Nei fine settimana, però, il tempo era quasi sempre bello, così Elio potè continuare le sue lezioni. S'era comprato un bel paio di stivali di cuoio, e poi pantaloni da cavallerizzo, frustino, guanti e cap. La sua incerata verde andava benissimo come giacca da cavallo e bisogna riconoscere che in sella faceva la sua figura. Usciva sempre a passeggio con Irma, adesso. In albergo non c'erano ospiti e la ragazza doveva seguire solo alcuni allievi, già bravi, che si allenavano per le gare. Aveva molto tempo libero, pertanto, e ne dedicava una bella fetta ad Elio. Qualche giorno più tardi, in città si cominciò a respirare aria di Natale. Avvenne quando per la prima volta, la sera, lungo il corso principale e le altre strade del centro si accesero mille luci colorate e i negozi cominciarono a riempirsi di gente a caccia di regali. Elio era felice: la figlia aveva scritto che sarebbe tornata per le feste. Era quasi un anno che non la vedevano. Anche il figlio aveva fatto sapere che avrebbe trascorso il Natale a casa e così, dopo tanto tempo, la famiglia si sarebbe di nuovo riunita. Elio aveva proposto alla moglie di trascorrere il Natale alla villa, ma la signora Elsa l'aveva dissuaso ricordandogli che lei sarebbe stata impegnata in negozio fino alla sera della vigilia. «Ci andremo ad aspettare l'anno nuovo» gli promise, «sempre che i ragazzi siano d'accordo». A Elio l'idea piacque molto. Lo disse anche a Irma, quando la vide il sabato. Lei, allora, gli fece un'altra proposta: «Perché invece di starvene da soli non venite da noi?» Gli spiegò che, come già in occasione del san Martino, anche la sera di san Silvestro i vicini e gli amici avevano preso l'abitudine di ritrovarsi nella sua fattoria. «Potete anche restare qui a dormire, se volete» aggiunse. Elio ne parlò alla moglie e lei si mostrò entusiasta. Aveva accettato l'idea di andare alla villa per far contento il marito, ma in effetti la prospettiva di starsene da soli con i ragazzi in quella grande casa deserta non è che l'attirasse molto. Ogni tanto viene a pranzo alla villa il dottor Gozzi. Siccome l'anziano professionista non guida più da tempo, Elio lo va a prendere in paese e poi lo riaccompagna. Dopo mangiato, i due uomini si trattengono a chiacchierare sotto il porticato. Del vecchio Vittorio, però, non parlano mai. Da quando il dottor Santi e la sua famiglia vivono alla villa, niente e nessuno ha mai disturbato la loro pace. A volte, ma di rado, molto di rado, il dottor Santi si sveglia di soprassalto nel cuore della notte. È a causa di quei benedetti peperoni arrosto che ha mangiato la sera, a cena. Gli piacciono da morire, ma se li concede solo ad ogni morte di papa perché gli causano immancabilmente un rigurgito del suo vecchio disturbo: un terribile bruciore di stomaco che gli sale su su lungo l'esofago e che avverte sino in gola. In questi casi estremi, la cura del dottor Gozzi nulla può, e così Elio è costretto a ricorrere al vecchio Maalox. Due pastiglie in rapida successione, la prima masticata, la seconda invece succhiata piano piano, sistemano senza fallo le cose, e in pochi minuti il nostro amico può rimettersi a dormire.
Ancora una cosa: il dottor Santi scende raramente nelle cantine. Giù nella
cripta, poi, non ci va mai. Fa male, perché il muro che ha fatto costruire per
sbarrare il cunicolo è crollato, e anche il cemento che tiene la grata ancorata
al muro si sta sgretolando. Sembra quasi che qualcuno dotato di una forza
erculea si diverta a scuoterla, di tanto in tanto, e di questo passo non ci
vorrà molto perché cada.
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