Copertina
Autore Andrea Miconi
Titolo Una scienza normale
SottotitoloProposte di metodo per la ricerca sui media
EdizioneMeltemi, Roma, 2005, Nautilus 24 , pag. 192, cop.fle., dim. 120x190x16 mm , Isbn 978-88-8353-388-4
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe comunicazione , media , sociologia
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Indice

  7 Introduzione
    Storia materiale, scienza normale

 19 Capitolo primo
    Un modello per la storia dei media: le onde lunghe

 19 Apertura del problema: "una scienza che non esiste"
 23 A passeggio sui boulevard
 35 Le onde lunghe

 53 Capitolo secondo
    Un modello per la nascita dei media:
    i gruppi sociali pertinenti

 53 Difesa del determinismo
 64 "Dopo la chiusura, si riscrive la storia"

 79 Capitolo terzo
    Un modello per la diffusione dei media:
    le tecnologie caratterizzanti

 79 L'ipotesi teorica
 91 Televisione normale
106 "Ad ogni analisi più profonda del materiale storico..."

115 Capitolo quarto
    La lunga durata

115 "La più ingannevole e la più capricciosa..."
124 Le divisioni dello spazio e del tempo
140 "Un'espressione culturale dell'egemonia"
168 Comunicazione-mondo

183 Bibliografia

 

 

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Pagina 7

Introduzione

Storia materiale, scienza normale


I

Questo è un libro di metodo. Non strettamente di sociologia dei media, che pure ne costituisce l'oggetto; e nemmeno di metodologia, perché non ne ha l'estensione, né l'ampiezza epistemologica. Un libro di metodo, perché propone alle scienze della comunicazione alcuni modelli astratti per la storia dei media — e lo fa, diciamolo subito, in nome dell' oggettività della ricerca scientifica. Un tema un po' fuori moda, lo so bene: ma cercherò di renderne conto. Di fronte all'uniforme e "non controversa" oggettività dei fenomeni, scrive Adorno nei Minima moralia, l'unica possibilità di essere "oggettivi" è di affidarsi al giudizio soggettivo, che "spezza la facciata" della datità, e contesta la legittimità del "cliché accettato senza discutere" (Adorno 1951, p. 52). Un gran bell'azzardo, va detto; eppure, a giudicarlo oggi, profondamente sbagliato. Se esiste una retorica dominante degli ultimi trent'anni è infatti, con buona pace di Adorno, proprio quella della soggettività di ogni sapere; del peccato originale di ogni forma di conoscenza. La retorica del postmoderno, e la grande apertura di orizzonte delle scienze della comunicazione: mettete insieme le due cose, e avrete una misura della deriva epistemologica in corso — salvo che la critica dell'oggettività è sì indiscutibile sul piano filosofico, ma assume valore ben diverso, e più misero, sul piano metodologico.

In un divertito libretto di qualche tempo fa, Maurizio Ferraris ha sostenuto che i corsi di Scienze della Comunicazione hanno svilito la qualità del sapere accademico, importando competenze "di servizio" nei luoghi dove "si dovrebbe insegnare Hume, Tasso e il greco" (Ferraris 2001, p. 15). Ora, la premessa è che qui non mi occuperò di tutte le scienze della comunicazione, ma più propriamente di sociologia dei media; più in generale, e senza ipocrisie, credo però che in questa critica ci sia del vero, perché la proliferazione di questi corsi non ha sempre prodotto un sufficiente livello di riflessione, e quanto meno sospetto, poi, è un certo appiattimento sulle ideologie vincenti del mercato. E tuttavia Ferraris sbaglia di grosso, secondo me: perché il problema delle scienze della comunicazione non è certo nel basso profilo dei contenuti (l'industria culturale; i consumi di massa; le nuove tecnologie), quanto nell'instabilità dei metodi di analisi – nel come, e non certo nel cosa si studia. E con questo – altro che Tasso e Hume, siamo seri – entriamo nel pieno della questione. Una prima digressione teorica, e ci torneremo.


II

Quanto all' oggettività, la questione è tremendamente impegnativa; ma non bisogna farsi spaventare dalle parole. Era il programma stesso della sociologia, d'altronde, quello di "passare dallo stadio soggettivo, che finora non ha ancora varcato, alla fase oggettiva" (Durkheim 1895, p. 45) – e allora, proviamo a ripartire da qui. Ma l' oggettività, al punto in cui siamo arrivati, è davvero possibile? "Sta lentamente maturando", ha scritto uno studioso della fama di Francisco Varela, la convinzione che la conoscenza "oggettivista" sia stata superata da una conoscenza "concreta, incarnata, incorporata, vissuta", che non nasce da un procedimento di "astrazione, (ma dal) modo in cui operiamo e (dal) luogo in cui siamo" (Varela 1994, pp. 143-144). Opinione rivelatasi perfino troppo cauta, alla fin fine: perché una convinzione del genere è già maturata da tempo, e ormai piuttosto diffusa. La conoscenza "post-cartesiana" di Varela; la crisi delle metanarrazioni di Lyotard; le mille rivoluzioni della visual culture; l'assioma della "riflessività" del sapere; le forme dionisiache di Balandier e Maffesoli; su tutto, le trame "sincretiche" del postmoderno: lo ammetto, sostenere un'ambizione di oggettività non è davvero un modo di rendersi popolari. E tuttavia, anche qui, siamo sicuri che quanto vale sul piano epistemologico valga anche sul piano metodologico?

Chiudere il circolo dell'argomentazione, e riportare la ricerca sui media sul terreno dell'oggettività: perché, dopo i fuochi d'artificio del post-strutturalismo e dei tardi cultural studies, che hanno concesso pieno mandato interpretativo a tutte le soggettività, credo sia un salutare ridimensionamento, tornare a porsi dei limiti di coerenza metodologica. E questo, sia chiaro, non significa recuperare l'accezione di "oggettività" sostenuta da Durkheim, per cui il vantaggio competitivo della sociologia sarebbe precisamente quello di trattare temi più evidentemente "oggettivi", sottratti alla sfera di condizionamento del soggetto (Durkheim 1895, p. 45). Su Durkheim, anzi, ha certamente ragione Boudon, nel tirare una linea di distinzione tra le sue analisi storico-sociali, da un lato, e le sue "considerazioni dottrinarie", dall'altro – perché l'oggettività non negoziabile delle "cose sociali" era un'ipoteca davvero troppo pesante, su cui il nuovo corso della sociologia ha fatto giustizia da tempo. Ma era davvero tutta qui, l'oggettività delle scienze sociali – o ne rimane qualcosa di ben più sostanzioso?

Da Durkheim, a Weber – un confronto che è un classico delle storie del pensiero sociologico. Fatto sta che quel paradigma di oggettività che in Durkheim aveva ancora un vago attributo ontologico viene invece derubricato, con Weber, a problema di tipo strettamente metodologico, procedurale. Che, come tale, non ha più nulla a che vedere con la definizione della realtà – la "fissità" delle forme oggettivate di Durkheim – ma piuttosto con il modo di analizzarla. Quanto alla realtà, scrive poi Weber (1922, p. 85),

ogni (sua) conoscenza concettuale (...) da parte dello spirito umano finito poggia infatti sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa debba formare l'oggetto della considerazione scientifica, e perciò risultare "essenziale" nel senso di essere "degna di venir conosciuta".

Nessuna analisi dei fatti sociali, prosegue Weber, può darsi "indipendentemente dai punti di vista specifici e unilaterali (...) secondo cui essi (...) sono scelti come oggetti di ricerca" (p. 84). Qui non si parla della realtà, si faccia attenzione: ma di una porzione di realtà, "resa interessante" dai presupposti teorici che la mettono in relazione ad altri elementi (p. 90). Presupposti arbitrari, ammette Weber: e, proprio per questo, da dichiarare apertamente, prima di escluderli dal corso dell'analisi, in nome della "avalutatività" della ricerca scientifica. Per oggettività, allora, non si intende qui uno stato del reale, ma una proprietà dell'analisi scientifica, di cui la riduzione del reale a un oggetto finito è, semmai, una condizione necessaria. Più Durkheim, sul piano teorico; più Weber, su quello epistemologico – un po' il dilemma di tutta la sociologia della cultura. Una porzione di realtà, isolata da un modello teorico – questo è il punto. La scienza avrà pure qualche parentela remota con il pensiero mitico, scrive Franηois Jacob, ma le analogie si fermano lì, perché la ricerca "a ogni tappa deve esporsi alla critica e all'esperienza" – sottomettersi all'impersonalità degli strumenti analitici, e alla falsificabilità dei risultati ottenuti (Jacob 1978, p. 7). E dato che in gioco c'è proprio questo – fare delle discipline della comunicazione una scienza normale – vale la pena di togliere le ragnatele da qualche vecchio concetto.

Un tentativo anacronistico, si dirà, e perfino un po' reazionario – riportare indietro di trent'anni il dibattito teorico... Obiezione accolta, c'è poco da dire; e tuttavia, l'oggettività del lavoro scientifico; il materialismo storico; il pensiero forte – ancorché fuori moda, tutto questo, in corso d'opera, mi è sembrato sempre più necessario. Almeno per una volta, insomma, nella locuzione "scienze della comunicazione", il sostantivo qui conta più della specificazione – il metodo, più dell' oggetto. Ambizione perdente, lo riconosco, in un'epoca di aggressione verso tutti i saperi forti: ma la sfida è davvero tutta qui, per le scienze della comunicazione. E per raccoglierla credo che, dopo decenni di "ironia postmoderna", sia tempo di tornare a prendersi sul serio, recuperando il senso della differenza tra il discorso scientifico e ogni altra forma di narrazione: perché se qualcosa resta, della dottrina epistemologica di Durkheim, è proprio l'idea che la ricerca scientifica ha bisogno di concetti propri, diversi da quelli della conoscenza pratica e del senso comune (Durkheim 1895, p. 55). Un "positivismo morbido", come lo definisce Raymond Boudon: perché quasi tutto del positivismo è andato perduto – quasi tutto, appunto, tranne l'idea che "una spiegazione scientifica è distinta da altri tipi di spiegazione", e rimane, fino a prova contraria, la spiegazione più efficace tra tutte (Boudon 1999, p. 230). Così stanno le cose, a dirla come la penso: e ormai delle due l'una, o un'apertura definitiva al mercato – o un ritorno, fosse pure massimalista, al metodo della ricerca scientifica.

Una spiegazione scientifica, oggi... La cultura contemporanea, scrive Arjun Appadurai, può essere rappresentata con una "metafora frattale", dato che nessun modello di analisi può renderne conto, se non ispirandosi a quella che "alcuni scienziati chiamano teoria del caos" (Appadurai 1996, p. 69). Sarà pure: ma l'allergia ai modelli teorici è davvero un attributo proprio della realtà contemporanea, o magari la deriva prodotta da un certo minimalismo scientifico? In altre parole: il mondo di oggi sfugge davvero a ogni categoria teorica – o non sarà che le maglie della rete, col tempo, si sono allentate un po' troppo? Istintivamente, sono più vicino alla seconda risposta; ma in termini tanto generali, devo ammettere che la questione è davvero troppo complessa, almeno per me. Quanto al caso che qui mi interessa, però, almeno una considerazione è possibile: perché le scienze della comunicazione, da parte loro, hanno trovato spazio proprio a metà strada tra la critica delle discipline tradizionali, e la retorica postmodernista sulla fallibilità dei saperi; un po' scoperta di nuovi oggetti teorici, insomma, e un po' affermazione di nuove soggettività – ma siamo sicuri che le due cose vadano insieme davvero? Θ un fatto, scrivono Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi, che ogni disciplina si evolve elaborando "tecniche e metodologie che (...) discendono da una concezione positivistica della 'correttezza' della ricerca"; "e d'altra parte" – e questo è un passaggio essenziale – "solo la padronanza di tali tecniche consente eventualmente di criticarle o innovarle" (Dal Lago, De Biasi 2002, p. vili). Θ solo la padronanza di un metodo, che permette di innovarlo – è solo lungo la continuità della procedura scientifica, che i media studies possono affermare la competitività delle proprie strategie di ricerca... E senza accorgercene, siamo così entrati nella logica delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, con la sua netta scansione tra le fasi di scienza "rivoluzionaria" – in cui una disciplina si afferma, anche a prezzo di una certa spregiudicatezza – e le fasi di scienza "normale" – in cui il consolidamento di una disciplina richiede qualche riflessione critica in più, e qualche azzardo teorico in meno. Le comunicazioni di massa, ha scritto quarant'anni fa Wilbur Schramm, sono un "crocevia accademico" che molti hanno percorso, ma in cui quasi nessuno ha deciso di fermarsi (Schramm 1964). Ed era certamente vero, a suo tempo: ma adesso le cose stanno diversamente, perché i corsi universitari, le collane editoriali, il clima intellettuale in genere – tutto questo è la spia di una istituzionalizzazione ormai avvenuta. Ecco, il problema, alla fin fine, è tutto qui: perché i media studies hanno saputo ben comportarsi da scienza rivoluzionaria, ma adesso che il loro mutamento di paradigma è riuscito, un po' come un'avanguardia politica che ha sovvertito l'ordine, devono confrontarsi con il peso del quotidiano, e con tutti i problemi di una gestione ordinaria – la legittimazione metodologica; la precisione degli strumenti di analisi; la coerenza del progetto teorico. Temi davvero prosaici, non c'è dubbio: molto meno affascinanti, rispetto a tante invenzioni retoriche al confine tra saggistica e fiction; un po' aridi, e lontani dal confortevole compromesso delle "storie sociali"; ma un po' più vicini, in compenso, alle consuetudini delle altre scienze. Ecco, proprio a questo – a una ricerca sui media come scienza normale – i capitoli che seguono vogliono dare un primo contributo, pur nella consapevolezza che ogni modello di analisi coglie sempre un aspetto della realtà, e che un lavoro di sintesi teorica è cosa da cui siamo piuttosto lontani. "Prosa del mondo", con le parole di Hegel: la modesta applicazione del quotidiano, come nella "scienza normale" di Kuhn; la presa di coscienza che la realtà, nel suo insieme, è cosa troppo vasta e complessa, e la teoria, come scrive ancora Jacob, deve rinunciare a ogni "visione unitaria", perché questo è il "prezzo da pagare", altissimo e doloroso, per ogni rappresentazione scientifica (Jacob 1978, pp. 8-9).


III

Fin qui, per l'intenzione generale del libro; adesso, qualche nota più tecnica. I temi dell'introduzione sono ripresi all'inizio del primo capitolo; da lì in avanti, vengono proposti quattro modelli teorici, con cui guardare in modo un po' diverso alla storia dei media. I cicli della produzione capitalista; il determinismo sociale; il determinismo tecnologico; infine il sistema centro-periferia: come in uno specchio stregato, i modelli di cui difenderò le ragioni sono proprio quelli che i media studies hanno contestato con più convinzione – ma tant'è: questo libro, per quello che conta, è il prodotto di un cambiamento radicale nel mio modo di lavorare, e quanto si propone è proprio un mutamento di rotta, rispetto allo stato attuale della ricerca sui media.

[...]


IV

Un'ultima considerazione. Se questo libro propone quattro modelli di ricerca, è nella convinzione che la realtà è fatta di livelli diversi, e un modello unico non è sufficiente a darne conto – né tanto meno lo sono, sia chiaro, le grandi categorie di sintesi da cui sono infestate le scienze della cultura. Le onde lunghe spiegano quando si diffondono i media; il sistema centro-periferia, dove si diffondono; e il modello a due fasi sull'origine e diffusione dei media – prima il determinismo sociale, e poi il determinismo tecnologico – spiega il come, e il perché.

A ogni piano della realtà, insomma, il suo sistema di spiegazione; e c'è di più: tutto questo vale per le tecnologie dei media, ma non per il campo della cultura; e chiarire i limiti di applicazione di un modello, è parte stessa della sua forza di spiegazione. Livelli diversi, si è detto: tre grandi scatole, una dentro l'altra – economia; tecnologia; cultura – ma con relazioni e gerarchie che sono ancora tutte da stabilire, per la ricerca sui media. Per quanto mi riguarda, gli sviluppi delle analisi che sto proponendo – non sempre previsti, devo ammettere: ma è il bello di questo lavoro – hanno attratto la mia attenzione sempre più verso alcuni modelli di storia e di storia economica; ma è un tentativo per molti aspetti ancora da verificare, e spero di renderne conto in futuro. Per adesso, verso l'obiettivo che mi interessa davvero – una storia materialista della cultura – questo libro non muove che qualche passo, e ancora con una certa timidezza. Ma almeno ho iniziato.

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Pagina 53

Capitolo secondo

Un modello per la nascita dei media: i gruppi sociali pertinenti


Difesa del determinismo

Iniziamo dalla contrapposizione che ha tradizionalmente segnato la teoria dei media: determinismo tecnologico, e determinismo sociale. O l'uno o l'altro, si è detto per molti anni: da una parte le teorie che inscrivono le trasformazioni sociali nelle proprietà delle tecnologie (la scuola di Toronto, in buona sintesi); dall'altro, quelle che privilegiano il mondo sociale come portatore dei processi che i media sono destinati a incorniciare (a loro modo, le scuole dell'immaginario e quelle sociologiche). O l'uno o l'altro, si è ripetuto a lungo: finché, con la stessa insistenza, si è pensato bene di mettere insieme le due cose. Ad esempio, Patrice Flichy (1995, p. 226):

Θ importante ribadire (...) che non ci troviamo all'interno di un modello univoco di determinismo tecnologico o sociale. Le onde hertziane non creano la "musica" in famiglia e la "musica in famiglia" non inventa le onde hertziane. Sono una serie di mediazioni a produrre la lega.

Il caso qui è quello della radio, ma la questione ha valore più generale, perché la stabilizzazione di un medium si ha, prosegue Flichy, quando il quadro sociale e quello tecnologico si sono combinati, in modo "da rendere indiscernibili le componenti iniziali nel prodotto finale" (p. 225). L'esperienza dei media, conferma René Berger (1991, p. 24), è data dal "combinarsi del nostro immaginario sociale con i comportamenti che la macchina (...) ci impone"; per quanto riguarda la televisione, scrive poi Cazeneuve (1974, pp. 74-75), è vero che soddisfa alcuni bisogni presenti nella società, ma a sua volta ne inventa e ne suggerisce degli altri; e anche Dayan e Katz (1992, p. 256), nel loro bellissimo studio sui media events, si accontentano di denunciare il "troppo determinismo", a cui sfugge che la "società dà forma alla definizione e agli usi della tecnologia". In altre parole, è soltanto per via di un autore "ampiamente contestato e contestabile" come McLuhan, seguendo Philippe Breton, che ci si è abituati a considerare la tecnologia come "l'unico attore veramente decisivo del mutamento", anziché integrare il "paradigma mcluhaniano" con i "progett(i) di mutamento politico" che hanno accompagnato la storia dei media (Breton 1992, p. 93). L'altra metà della storia, conclude al proposito de Kerckhove (1995, p. 16), "è che la tecnologia migliore e più utile del mondo non si può imporre a un pubblico non preparato". Né un determinismo né l'altro, insomma: ma, semmai, una soluzione di compromesso. Raymond Williams (1974, pp. 192-193):

mentre dobbiamo respingere il determinismo tecnologico in tutte le sue forme, dobbiamo stare attenti a non sostituirlo con la nozione di una tecnologia ridotta a pura determinazione, (che) costituisce una versione similmente unilaterale del processo umano.

"Una versione unilaterale" della storia: questo, secondo Williams, il problema di ogni determinismo. Perché privilegiare la società o la tecnologia come fattore di spiegazione, in sintesi, significa trascurare il fatto che all'origine dei media si dà un processo di negoziazione; e perché, come si usa dire, è sì vero che i media influenzano la società, ma d'altro canto anche la società agisce sulla tecnologia... Trovare un equilibrio tra i due determinismi: è lo slogan stesso della ricerca sui media, e anche io, per quello che vale, riconosco di averci creduto. E tuttavia, dopo aver tanto discusso della necessità di conciliare il momento tecnologico e quello sociale, mi è sembrato evidente che il problema è, semmai, come conciliarli: e qui, l'idea di una negoziazione tra società e tecnologia, per come viene sostenuta, è una risposta decisamente generica.

L' unilateralità della spiegazione: per una felice coincidenza, la parola con cui Williams condanna ogni determinismo è la stessa usata da Weber per progettare il modello idealtipico. E il problema, io credo, è tutto qui: perché l'osservazione di Williams è fondata se si pensa alla realtà empirica – in cui società e tecnologia non sono separate, ma si combinano negli usi quotidiani di un artefatto – ma ben altra cosa, come detto, sono i modelli di conoscenza.

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Pagina 73

Conclusione paradossale: internet, come prodotto della comunicazione globale... "Contrariamente a quanto la suggestione" ci fa credere, scrive Armand Mattelart (2001, p. 40), l'ideologia delle reti è "anteriore a quella che viene convenzionalmente definita rivoluzione dell'informazione" – e qui, finalmente, ne abbiamo una misura storica un po' più precisa. Prima l'ideologia della rete, e poi la telematica: ma non era invece, internet, il più formidabile strumento di globalizzazione della cultura? Certamente sì, non c'è dubbio: e gli effetti di internet in termini di globalizzazione (o glocalizzazione, che forse è la stessa cosa) sono misurabili, secondo me, proprio in termini di determinismo tecnologico. Ma qui, lo ripeto, non parliamo della società: parliamo di alcuni gruppi sociali. Prima il determinismo sociale, ancora, e poi quello tecnologico: prima l'istituzionalizzazione di un medium, che è un fatto sociale; e poi, la sua azione sulla società, che è una conseguenza implicita nel frame tecnologico. Come nell'esempio precedente della radio, insomma, la reciprocità tra società e tecnologia torna a stringersi: però non in nome di un compromesso di senso comune, attenzione, ma nei termini più precisi della sociologia fenomenologica. Θ un gruppo sociale a istituzionalizzare una delle definizioni possibili dell'artefatto – qui la comunità scientifica, che investe con profitto sul protocollo Tcp/Ip; e poi questo stesso dispositivo tecnologico, una volta oltrepassato il momentum, si presenta al resto della società come un oggetto esterno – l'azione di internet sulla percezione dello spazio e del tempo.

[...]

Ora, quello del protocollo Tcp/Ip non è che un esempio: per "generalizzare" il modello, seguendo le indicazioni di Bijker, bisognerà metterlo di nuovo alla prova – lavorarci ancora, visto che i casi non mancano: le controverse origini della radiofonia; il conflitto tra televisione meccanica e televisione elettronica; l'affermazione del cinematografo dei Lumière sul modello di Edison... In altri termini, si tratta di praticare una storia allargata: che si sviluppi non più in profondità – l' archeologia dei media – ma in estensione, toccando tutte le possibili definizioni di un artefatto, e tutti i gruppi sociali coinvolti nei processi di innovazione. E questo, soprattutto per un motivo: perché il metodo archeologico, allungando nel tempo la storia di un medium, ne sostiene implicitamente la legittimità – in altre parole, lo fa apparire come inevitabile, in quanto già desiderato dalle culture che ne hanno preceduto l'avvento tecnico. Una gran bella apertura di campo, per la sociologia dei media; che, in effetti, ha arricchito di molto un dibattito altrimenti un po' didascalico – e tuttavia credo che nella storia dei media non ci sia davvero nulla di inevitabile, e che le cose potessero andare anche diversamente da come sono andate. E per questa ragione, bisogna pensare a un determinismo nuovo: ispirato alla parzialità dei modelli scientifici, piuttosto che alla totalità dell'immaginazione culturologica. Parzialità dei saperi, lo ripeto, e univocità dei sistemi di spiegazione: questa, in effetti, è appena metà della storia, perché il determinismo sociale spiega soltanto la fase di introduzione di un medium – e poi, quando una tecnologia oltrepassa il momentum, c'è materiale per altri modelli teorici.

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Pagina 144

Quello dei media e quello del libro sono due mercati diversi, si è detto: e la spiegazione di questa differenza, a conti fatti, è piuttosto semplice. Il fatto è che la stampa, con la sua lunghissima storia tecnologica, è un sistema di produzione a disposizione di tutti i paesi industrializzati, approssimativamente agli stessi costi di esercizio; e per la stessa ragione, nel corso dei secoli è stata messa alla prova di diverse economie-mondo. In altri termini, la stampa è stata lo strumento di diverse egemonie, e sembra portarne ancora le conseguenze; mentre i media elettronici, dal canto loro, si sono diffusi per lo più nel corso dell' ultima egemonia, quella nordamericana – la prima è passata per i recéntrage dell'economia-mondo; i secondi, non hanno avuto che un centro...

Siamo di fronte a due situazioni diverse, dunque: da un lato la geografia editoriale, che dà una misura migliore delle egemonie culturali; e dall'altro la geografia dei media, che rispetta di più la polarizzazione centro-periferia. La prima agisce più in profondità, investendo sul contatto culturale – la seconda, ha una più immediata efficacia politica. E senza dubbio, mettere insieme le due cose – la profondità della penetrazione culturale, e il vantaggio del gap tecnologico – è il sogno di tutte le forze di egemonia; diffondere il proprio sistema di simboli, sull'asse centro-periferia... Il sogno di tutte le egemonie e di tutti gli imperi, controllare il tempo e lo spazio – finché l' ultima di queste egemonie, non l'ha realizzato davvero.

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