Copertina
Autore Lia Migale
Titolo La donna del diavolo
EdizioneVoland, Roma, 2009, Amazzoni 50 , pag. 232, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1,5 cm , Isbn 978-88-6243-034-0
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa italiana , thriller
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Pagina 36

19/6 lunedì

C'era un dossier politico che la riguardava e Gorretta fieramente glielo poggiò sulla scrivania. Ci aveva lavorato parecchio per completarlo, pure durante il fine settimana, adesso le lacune le lasciava tutte al suo commissario.

Movimento studentesco, femminista, militante di un gruppo extraparlamentare. Antea Z. era lo specchio di una generazione. Aveva un senso guardare quelle foto, quei ritagli di giornale? quelle vecchie carte?

Aveva per caso bisogno di ricordare un clima?

Anche lui nel '68 frequentava l'università. Ultimo anno di giurisprudenza, per seguire la volontà e la carriera del padre, celebre giurista. Era stato uno studente brillante, ma solo per concludere prima possibile una strada non sua. E benché Legge fosse ai suoi tempi una facoltà "di destra", le assemblee lui le aveva frequentate e in gran parte si era trovato d'accordo. Oggi avrebbe difficoltà a ricordare i discorsi che si facevano nelle aule affollate dell'università occupata, sapeva che si parlava molto di Marx, di Engels, dell'autoritarismo e della libertà. Sapeva, ma non ricordava. D'altra parte forse i discorsi non erano importanti in sé, ma solo perché rappresentavano lo stato di necessità di un desiderio di quei giovani, che li avevano inconsapevolmente usati per riempire gli spazi dell'attenzione, della scoperta degli altri, del plurale, del molteplice che doveva vivere. Contro la scuola dei padroni, contro il fascismo vecchio e nuovo, c'erano dei corpi giovani, i lunghi capelli delle ragazze, gli occhi scuri e intensi dei ragazzi che si presentavano alla storia. I dettagli diventavano proclami, cambiare il mondo una conseguenza. I vestiti stazzonati, i colletti slacciati, le barbe lunghe, i capelli spettinati non erano uno stile. Erano un clima, più di ogni altra cosa. "La Sapienza" occupata era una città nuova, dove si respirava il senso della libertà. Devila ricordava il livello dello scontro e della violenza che aveva fatto seguito alla carica della polizia a Valle Giulia. Ricordava l'assemblea ad Architettura. Ricordava la paura dei docenti, e quella di suo padre, ignaro di quel suo simpatizzare per la rivolta. Poi però si era laureato, centodieci e lode nella sessione di luglio e, a quel punto, l'università era immediatamente diventata per lui un ricordo.

Il percorso obbligato era finito e avrebbe voluto farla finita pure con le idee che suo padre aveva per lui. Per prendere tempo aveva chiesto e ottenuto di andare un po' all'estero. Prima un lungo viaggio, poi una borsa di studio negli Stati Uniti. Quando ritornò erano passati quattro anni e non sapeva cosa fare. Fu così che capitolò al padre ed entrò nello studio di un celebre avvocato. Ma non lo sopportava proprio quel lavoro. Non ce la faceva a doversi sentire sicuro di sé, brillante e mondano come la professione avrebbe richiesto. Un'anima oscura, un'ottusità profonda, un rifiuto primordiale gli rendevano impossibile la via tracciata. Fu così che quando gli capitò tra le mani il bando di concorso per vicecommissario di pubblica sicurezza gli sembrò di avere trovato la salvezza.

Ma non era stato un caso? Se nel '68, invece di essere in procinto di laurearsi, fosse stato una giovane matricola, non avrebbe seguito il percorso raccontato nel dossier? Certo gli sarebbe mancato il femminismo, sorrise tra sé. Antea invece all'università ci era entrata nel '69 e alla rivoluzione aveva avuto tutto il tempo di affezionarsi. "Ti perdono" sussurrò il commissario all'immagine della donna che sfilava in una manifestazione, poi un po' più duramente precisò "ti perdono se mi dici dove sei."

Il padre, invece, a lui non lo aveva perdonato. Trovava ridicolo che uno della sua famiglia facesse quel mestiere. Avrebbe potuto fare il magistrato, oppure l'avvocato se proprio non voleva essere un accademico. Ma il commissario! Gli aveva lasciato fare quei dieci anni di piccole province senza intervenire in alcun modo per dimostrarglielo, e sperando sempre che ritornasse sui suoi passi, che confessasse "è vero ho sbagliato". Ma lui, il commissario Devila, era rimasto della sua idea, non perché ne fosse certo o si ritenesse immune all'errore. Tutt'altro. Ma aveva almeno la speranza di divertirsi un po', prima o poi.


"Quando ti sistemerai?" gli chiedeva sempre la madre. "Va bene che con quel mestieraccio è meglio che non la metti su famiglia..." poi ripiegava avvilita.

"E tu perché non ti sei mai sposata?" sussurrò alla fotografia "tu che non avevi un mestieraccio a coprirti. Forse perché il pericolo lo correva lui? E chi potrebbe essere, a parte Mario, l'uomo clandestino?" Perché, per quanti sforzi il commissario facesse, l'unica idea che gli si rafforzava dentro aveva un antico sapore romantico: fuga d'amore con un uomo "non dichiarabile". Probabilmente un terrorista.

Se non Mario, chi? Quelle fotografie cominciarono a prendere consistenza, come se uno sguardo rubato dall'obiettivo potesse dargli quella risposta. Chi era ad esempio l'uomo biondo con i capelli corti e l'espressione rigida che le stava accanto in quell'assemblea? Di solito ci si sedeva vicino a qualcuno conosciuto; oppure no?

"Ma ci sarà un uomo nella sua vita!" esclamò infine lasciando interdetto Gorretta che non aveva avuto la possibilità di seguire il filo dei suoi pensieri.

"Commissario, di solito si dice scerscè la fem, mica scerscè l'om!"

"Gorretta, qui se non vale la storia del Mario e del traffico d'armi legato al terrorismo dobbiamo giocoforza gettarci sul romantico, magari un po' politico..."

"Secondo me, se non c'entra questo Mario, c'è stupro, casomai con tratta di bianche."

Be' perché no, pensò il commissario. D'altronde era una realtà dell'epoca, anche se a pensarci bene sembrava piuttosto una storia antica, di pirati nel Mediterraneo, califfi ingordi e sultani pronti a pagare tesori per avere nei loro harem una bella ragazza nordica. Ma forse non voleva, o non poteva credere, che quella donna si fosse fatta raggirare su cose così. Così di sesso.

"Ma cosa dici, non ha mica diciott'anni da far gola a quei mascalzoni."

"Questo è vero commissà, però gli anni suoi non li dimostra, a guardare le fotografie."

"Le fotografie... le fotografie, ma cosa dici Gorretta."

E così, allontanato da sé il sospetto di stupro con tratta, il commissario tornò a pensare a romantici idilli. D'altronde una donna doveva pur avercelo un uomo! E lui perché non aveva una donna? Con Sandra aveva immaginato per un istante di poterci vivere insieme. Accidenti se era bella! E poi nemmeno stupida. Quei suoi lunghi capelli rossi che davano l'impressione di profumare, sguardi avidi che la seguivano quando uscivano insieme, un ridere leggero e gli occhi verdi che lo fissavano. Perché non l'aveva voluta più? Perché d'un tratto aveva avuto l'impressione di stare costantemente a guardarsi allo specchio? Gli piaceva talmente vedersi accanto a lei. Fu mai amore? Ecco lo sperduto soliloquio di cui si beava.

E improvvisamente la noia. Detestabile sensazione di avere già visto. Troppo visto.

Sandra non aveva mai capito. Come spiegare una volontà di vivere sempre e solo l'incontro. Forse, anche Antea? Impossibile. Una donna vuole solo la sicurezza della ripetizione, solo da lì sa arrivare al piacere. Qualcuno vince, qualcuno paga. Antea probabilmente era una perdente. Ma Antea Z. era stata femminista.

"Ma che vuol dire femminista?" chiese ad alta voce, e Gorretta, unico altro presente nella stanza pensò di dover rispondere.

"Be', quelle che facevano le manifestazioni, che mettevano pure paura..."

Devila, uscendo di soprassalto dai suoi pensieri, si meravigliò: "...paura?"

"Eh, commissario, voi forse non ve le ricordate, ma io ero già a Roma, erano migliaia, tutte donne, solo donne... che gridavano, ballavano nelle strade... e sì, glielo dico io, non lo facevamo vedere ma avevamo più paura di quelle che degli altri."

"Gorretta, questa inchiesta per qualche motivo che non conosco ti ha dato la febbre. Ti facevo più coraggioso."

"Dottò, che c'entra il coraggio... dia retta a me; è un altro mondo, questi qua non hanno fame come noi, non pensano a divertirsi come noi, e quante volte hanno sfilato dal '68 in poi..."

Devila riprese in mano la cartella del dossier, innervosito da quel costante richiamo alla realtà da parte del suo aiutante. Però forse doveva sapere di più. C'era qualche amore sconosciuto? E il femminismo quanto spazio aveva avuto nella vita di Antea?

"Certo potrei chiedere a Ninni, magari aveva qualche storia segreta... Ma no, non posso andarci subito, non ho ancora sentito nessun altro." Ninni, meravigliosa Ninni, chissà perché questo nome da uomo? Ah già, doveva parlare con Valentina, "almeno lei ha un nome certo, un nome da vita, non da romanzo!"

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"Secondo lei, quando ha detto al suo analista che voleva finire l'analisi perché intorno a lei non c'era più intimità, che cosa poteva voler dire?"

"Ha detto proprio così?" chiese Mario quasi stupito.

Devila assentì con un cenno e rimase in silenzio, aspettava che l'altro conferisse un senso a quell'affermazione.

"Non so esattamente cosa volesse dire, ma posso provare a interpretare... Intimità. Strano l'uso di questa parola, ma forse è il termine più giusto, più consono a lei. Io credo che intendesse il termine intimità come base, come elemento fondante di una relazione. Relazione tra individui. In una società fatta di individui e non di nuclei sociali, cosa mantiene la relazione? Cosa sconfigge la solitudine se non l'intimità che può instaurarsi tra le persone, tra individui che si scelgono? Che so? Nella società patriarcale, per la famiglia l'intimità era data dai riti: i pranzi domenicali, le vacanze. Nella famiglia contemporanea composta di piccoli nuclei, il senso è nell'intimità della relazione tra l'uomo e la donna. Un'intimità nella camera da letto, tant'è che spesso, finita l'attrazione ci si separa. La nostra generazione ha conosciuto forme diverse di intimità, ma esistono ancora? C'è ancora un senso? Io credo che non sappiamo a cosa porterà questa mancanza di un nuovo cemento tra gli individui."

"Come quando si dice che c'è una perdita di senso della vita."

"Forse è di questo che parla Antea. A che pro' modificarsi se comunque l'altro non c'è?"

Devila notò con interesse che Mario usava il presente per parlare di Antea. Perché sapeva che era ancora in vita o perché non la voleva morta?

Per questo, a bruciapelo, gli chiese: "Ma se fosse morta?"

"Io sarei veramente solo." Fece una pausa. "Come lo fu lei dopo la morte di Gaia."

"Gaia? non mi sembra di..."

"Era la grande amica di Antea. Un'amicizia senza regole. Con periodi di intensa vita comune e periodi di assenza. Per lo meno così mi raccontava. Si separavano per la necessità di vivere un'esperienza; poteva essere un amore, un viaggio, una nuova amicizia, una passione politica, un lavoro. Ma per quanto le assenze potessero essere lunghe, tra loro c'era una specie di simbiosi o meglio di continuità. Ecco, questo è forse il significato più vero che lei dava alla parola intimità, ciascuna faceva anche un pezzo della vita dell'altra, ed erano in grado di entrare e uscire con grande facilità dentro quel pezzo di vita lasciata all'altra.

Gaia era certamente quella che viveva con più intensità la vita sociale, Antea era quella più riflessiva. Ma bastava una telefonata di Gaia alle tre del mattino, perché Antea si precipitasse in qualche locale notturno a raggiungerla, a divertirsi, a innamorarsi. Come bastava che Antea dicesse a Gaia di andare a una riunione e di appoggiare la sua linea, che naturalmente Gaia approvava, perché questo avvenisse. Loro due potevano essere separate o insieme, ma non erano mai sole.

Gaia si ammalò qualche mese dopo che Antea me l'aveva presentata. A quel tempo io vivevo a Milano, Gaia ci si trovava per un lavoro e Antea la raggiunse. In realtà la serata insieme fu un disastro. Gaia era troppo bella e troppo consapevole di esserlo, e io ero abituato a essere il più guardato, il più ammirato. Capisce, ci toglievamo la scena a vicenda. Fu una serata da primedonne. Orribile. La povera Antea che ci amava profondamente non riusciva a capire perché anche noi non fossimo pronti ad amarci. Penso di non essermi mai vergognato tanto di un mio comportamento. Certo me ne scusai con tutte e due. Ma Antea non tentò più di legare due parti della sua vita. Poi sopravvenne la malattia. Penso di non avere più visto Antea fino a quando non fu tutto finito. Per sette mesi non fece che portare l'amica da un medico all'altro, starle accanto, difenderla e proteggerla dall'esterno. Non ebbe un momento per sé. Non si concesse nulla. D'altra parte mi domando se qualcuno degli amici abbia tentato di aiutarla, io so di non averlo fatto. Ma erano tempi in cui per giovinezza non si sapeva essere attenti.

La rividi solo dopo i funerali, al suo rientro da Parigi dove era andata per ristabilirsi dalla grave depressione. Mi raccontò una strana storia. Vuole sentirla commissario?"

Devila finalmente comprendeva il senso di quella lettera che aveva trovato nel suo primo frugare indiscreto nella casa di una ragazza scomparsa, quella lettera in cui una certa G. parlava della sua fatica a tenere in mano la penna. E in qualche modo capiva ancora meno il silenzio di quegli ultimi giorni. Perché una donna capace di vivere amori per persone tanto differenti, come al suo animo tanto ritroso appariva quell'intrigo di relazioni, perché questa donna si era infine circondata di silenzio? Certo poteva non avere nulla a che fare con un rapimento, un traffico d'armi, un malvagio e una vittima, eppure... Incuriosito disse: "Prego racconti."

"Aveva passato quei mesi di malattia da lucida organizzatrice, da perfetta manager della cura, come solo una persona estremamente razionale poteva fare, senza mai cadere nel panico, nel dolore, nella fatica. Purché Gaia avesse il massimo, purché Gaia non fosse oppressa dal terrore di morire... Ebbene, questa stessa mente razionale ritornò da Parigi dicendomi di avere avuto un incontro, un messaggio. Mi confidò che molto prima della malattia di Gaia loro due si erano giurate che quando una fosse venuta a mancare, se effettivamente c'era un aldilà, avrebbe dovuto cercare il modo di comunicarlo all'altra. E comunque doveva farlo senza spaventare la sopravvissuta. Anzi, Antea le aveva precisato che non voleva avere un'apparizione o un ectoplasma che le girava intorno, perché altrimenti sarebbe morta anche lei di paura. E mentre un giorno vagava senza meta per le strade di Parigi, si era trovata ad attraversare la Senna all'altezza dell'Ile Saint Louis. Era rimasta stupefatta del silenzio che c'era su quel pezzo di lungofiume alberato e senza macchine, in quel momento la strada era completamente deserta, nemmeno dalle finestre arrivavano rumori o gesti. Come in trance per quell'improvvisa sospensione del tempo, aveva preso uno dei vicoli dell'isolotto e girando a caso si era trovata di fronte all'ingresso posteriore di una grande chiesa gotica. Si era avvicinata e aveva capito che il tempio faceva sicuramente parte di un convento, incuriosita era entrata.

L'interno l'aveva affascinata. C'era qualcosa di strano, fin troppe erano le statue e i dipinti, quasi ad allontanarsi dal rigore ogivale delle strutture e a mostrare una magnificenza più mediterranea. Ma nulla di quell'insieme esprimeva né ricchezza barocca, né sensualità rinascimentale. C'era una grande rigidità. Mentre osservava si accorse che da una porta laterale entravano alcune suore. Per il modo in cui erano vestite, con un mantello bianco sulle spalle, più che monache sembravano cavalieri del Santo Sepolcro, sbarcate da Malta o da Rodi. Più ancora le richiamavano alla mente i misteri dei possenti cavalieri dell'ordine dei Templari. Le vide dirigersi nella cappella dell'abside e senza pensarci le seguì. La cappella era protetta da una grande cancellata. Fuori c'era una fila di panche, dentro le suore-cavalieri di qualcosa pregavano in modi molto strani. Orientali. Qualcuna prona al suolo, qualcun'altra in posizione inginocchiata si poggiava su un bassissimo sgabellino. La cappella era intitolata alla Vergine Maria e le pareti ne illustravano le scene della vita. Antea si era seduta in una panca all'esterno, da cui poteva vedere tutte quelle rappresentazioni, esclusa la prima sul lato destro. Effettivamente in quella cappella c'era più colore e più fascino che nel resto della chiesa. Incominciò a osservare le suore e le immagini. Poi d'un tratto fu presa da un ricordo violento della sua amica e capì che era la prima volta che riusciva veramente a pensarla dopo la sua malattia e dopo la sua morte, dopo quello che era stato solo stress e fatica fisica. Per la prima volta si mise a piangere. Un inarrestabile flusso di lacrime calde. Poi, improvvisamente, si scosse. Avvertì imperioso un obbligo a spostarsi, a spingersi verso il centro delle panche. Era un pensiero inutile ed estraneo che però lei seguì. Che cosa cambiava? Nulla, lei era sempre di fronte alla cappella, le suore pregavano o chissà cosa, lei piangeva. Però da quel breve spostamento era scaturita una nuova ottica, un altro punto di vista, poteva ora osservare quell'unica rappresentazione della Madonna che prima non vedeva. Era la scena dell'Annunciazione. L'Angelo Gabriele va e le dice... Ave Maria, piena di grazia...

Era arrivato anche a lei un messaggio. Ma non era l'Angelo Gabriele. Era la sua amica. Che senza farla spaventare le ricordava un episodio della loro vita, quando avevano accettato di essere le voci in un presepio vivente in un paesino di alta montagna. Ricordò quel giorno in cui lei era stata l'Angelo annunciatore mentre Gaia prestava la sua voce a Maria. Ricordò il freddo gelido di quella stanza con le finestre aperte, le risate insostenibili delle prove. Il divertimento di un giorno felice. Ecco, Gaia le aveva detto: sono qua. Aveva mantenuto la promessa di farle sapere senza spaventarla. Un vero gesto d'amica."

"Ma che c'entra? Perché mi ha raccontato questa storia? Ho come l'impressione che lei voglia sfuggire le sue responsabilità. È certo che non sia lei a dover compiere un gesto da vero amico?"

Purtroppo non era così, Mario si era lasciato andare al suo modo d'essere, ai racconti che preferiva, e proprio non capì la domanda del commissario. Anzi, a suo avviso, quella eccessiva protesta denotava un certo interesse per quella storia.

"Dottore, lei ci crede alla teoria fisica per cui nello spazio-tempo devono esistere molte dimensioni, forse dieci o venti, e non solo le tre spaziali e la quarta temporale che l'umanità conosce?"

"Io penso che quelle che abbiamo ci bastano e ci avanzano. Pensi solo a quanti delinquenti si nascondono nelle tre dimensioni spaziali!"

Sorrisero. In fondo il commissario non credeva che quello strambo gentiluomo che aveva di fronte fosse in grado di nascondergli qualcosa.

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Effettivamente Devila era stato preso da mille impicci subito dopo il colloquio con Giorgio e ancora non sapeva bene se essere deluso che Tyler non fosse il signor Smith oppure contento che una strada imboccata così di corsa ora imponesse rallentamenti e frenate che toglievano da guai molto seri la povera Antea.

Comunque Giorgio gli era stato prezioso per ricostruire una parte della vita di Antea. Quella frase spesso ripetuta da Giorgio "quando facevamo la politica..." come a dire: quando eravamo re e regine, lo aveva profondamente colpito. E glielo aveva chiesto. Cosa vuoi dire veramente?

L'altro non si era fatto pregare e aveva ripercorso gli anni '70. Quasi un decennio di militanza pensando, credendo che la rivoluzione fosse vicina, anzi, in fondo, già cominciata. Gli raccontava come avevano bruciato la singolarità delle loro esistenze per quella collettiva di alzarsi all'alba e andare davanti alle fabbriche a distribuire i volantini, poi nelle sedi, poi nei quartieri, poi in infinite riunioni di commissioni, gruppi di lavoro, comitati e sezioni. Come la città non aveva avuto per loro alcun confine, come si muovevano sul territorio metropolitano con l'agilità delle gazzelle, come entravano in profondità nella vita degli altri, gente ignota e lontana. E come, infine, il loro pensiero non poteva rinchiudersi nella ricerca di una felicità privata e personale. Il lavoro o la famiglia erano diluiti, annegati dentro le passioni. La passione per la gente, per i compagni, la passione amorosa. I colori erano forti. E Antea, che oggi abitava in uno spazio privo di colori e il cui telefono non squillava mai, aveva vissuto tutto questo. Giorgio gli aveva confermato il ruolo dirigente di lei nell'organizzazione nella quale avevano militato insieme, come il fatto che fosse stata una delle fondatrici del movimento femminista. "Sa commissario" gli aveva detto increspando le labbra in un sorriso un po' ironico "che è stata l'unica donna a far parte del nostro servizio d'ordine? Che era proprio una cosa maschile, roba da uomini. Accadde verso la fine, poco tempo prima che l'organizzazione si sciogliesse nel '76. Ci partecipò con uno sguardo da donna e in quel periodo di tentazione verso la violenza e la lotta armata lei, parlando e parlando, fu in grado di aiutare qualcuno a non fare sciocchezze, a non rovinarsi la vita."

Di fatto Antea aveva dilazionato la fine della politica perché il femminismo aveva ancora molto da dire. E aveva continuato a vivere in modo diverso da chi affronta la vita da solo, ma di questo periodo Giorgio sapeva poco, si erano allontanati, come tutti, improvvisamente non avevano più vissuto insieme, improvvisamente non c'erano più stati l'uno per l'altro. "Vede, a lei forse può non apparire grave, a un certo punto la giovinezza deve finire, e la nostra generazione ha avuto il privilegio di farla finire tardi. Però pochi si rendono conto che noi siamo stati sconfitti come generazione e non come singoli individui. Non è più esistito un referente culturale, un modello di vita, un qualcosa che ci facesse riconoscere comunque e per sempre l'uno con l'altro. Noi volevamo un mondo nuovo, ma come doveva essere questo mondo? Quelli che prima di noi avevano fatto la Resistenza, che credevano nella democrazia, avevano dei valori chiari a cementare anche le loro amicizie. Noi vivevamo una grande delusione: la rivoluzione non si faceva e forse non era nemmeno giusto farla. Allora, rispetto alle nostre vite, avevamo perso tempo? Dovevamo correre all'incontro con noi stessi?"

Devila aveva notato che Giorgio usava parole affini a quelle trovate in alcuni appunti di Antea, che in quei giorni meticolosamente andava leggendo. Frasi del tipo: "Mi accorgo che man mano vanno scomparendo come realtà dentro di me quei piccoli e grandi rancori accumulati verso i miei compagni, dimentico i contenuti dei litigi politici che li avevano generati, perché di fatto ho dimenticato il tracciato di una linea che sia in grado di disgiungere il buono dal cattivo. Allo stesso tempo però mi nasce dentro un grande e nuovo rancore, rancore per un potere che ha escluso un'intera generazione nel ricambio di sé stesso."

Quando l'aveva letta non aveva capito a cosa si riferisse esattamente, ora Giorgio gli aveva fornito la chiave, ed era in grado di percepire con maggiore intensità il vuoto e il pieno che provava ogni volta che entrava in casa di Antea. Il pieno e il vuoto di una generazione mancante. Sì, provò pena Devila in quel momento, poi si ricordò che all'inizio dell'inchiesta aveva provato invidia per quella ragazza e per quella generazione che non era stata sola di fronte alla vita.

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