Copertina
Autore Adolfo Mignemi
Titolo Lo sguardo e l'immagine
SottotitoloLa fotografia come documento storico
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2003, Saggi Storia filosofia e scienze sociali , pag. 228, dim. 147x220x17 mm , Isbn 978-88-339-1451-0
LettoreCorrado Leonardo, 2003
Classe fotografia , storia
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Indice

  9  1. La fotografia come fonte

 26  2. L'evento fotografico

 38  3. Il documento fotografico

 55  4. La produzione dell'immagine

 67  5. La fruizione dell'immagine

 88  6. L'immagine e l'evento

11O  7. Un caso: le immagini e la guerra

133  8. La fotografia e la memoria

151  9. I diritti dell'immagine e del documento fotografico

175 1O. La conservazione dei documenti fotografici

189 11. Gli archivi fotografici in Italia: alcune esperienze

213 12. Realtà e prospettive possibili

221 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 9

1.

La fotografia come fonte


Nuove fonti

Lo studioso di storia contemporanea ha a disposizione per il proprio lavoro una quantità spesso molto elevata di documenti. Tra essi assumono crescente importanza soprattutto le nuove tipologie di fonti che sono il prodotto dell'evoluzione tecnologica degli ultimi due secoli. Queste peraltro esprimono, in larga misura, le modalità di comunicazione tra i diversi soggetti e caratterizzano le principali forme di interrelazioni umane nelle società contemporanee sia sul piano politico sia su quello sociologico, economico, antropologico ecc. Si pensi, ad esempio, alla progressiva spettacolarizzazione della politica, manifestatasi a partire soprattutto dalla fine del primo conflitto mondiale, o al ruolo crescente assunto negli ultimi quarant'anni dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (quali la televisione) nel determinare i comportamenti individuali e collettivi.

Nelle società complesse dell'Ottocento e del Novecento, l'atomizzazione, la dissoluzione dei gruppi primari e dei rapporti comunitari, la privazione dello status sociale, la liquidazione dell'identità hanno indotto una vera e propria «ansia di un mondo fittizio»: le masse, come scrive George L. Mosse, non credono nella realtà del mondo visibile, della propria esperienza, non si fidano dei loro occhi e orecchi, ma soltanto della loro immaginazione. È la realtà a divenire intrinsecamente spettacolare, perché tutta l'esperienza, nella sua essenza, è radicalmente artificializzata e derealizzata; lo «spettacolo», inoltre, non è più messo in opera e imbastito dal potere, da una intenzionalità che lo manovra e lo trascende, ma rappresenta semplicemente se stesso.

Il significato e il valore che in un simile contesto vengono ad assumere i mezzi di comunicazione di massa e, all'interno di essi, le fonti documentali su cui si basano i loro linguaggi specifici e la loro capacità comunicativa, sono tali da consolidare la convinzione che tali fonti rappresenteranno per lo storico non semplicemente ulteriori elementi di valutazione e conoscenza, bensi saranno imprescindibili per la maggior parte delle ricognizioni storiografiche. D'altro lato, è possibile guardare a questo «sviluppo dei processi di smaterializzazione della realtà fisica per mezzo dell'immagine» come a uno degli elementi fondamentali per definire correttamente le periodizzazioni interne del Novecento.

Tali fonti sono sostanzialmente riconducibili a tre tipologie: la fotografia, il cinema e la registrazione del suono.

Anche se talvolta una appare come l'evoluzione dell'altra, esse sono autonome. Al tempo stesso tuttavia manifestano una mutua dipendenza cosi forte da non potersi trascurare, nell'analisi di ciascuna, lo sviluppo e le nuove forme linguistico-comunicative delle altre. Si pensi, per esempio, alle reciproche citazioni riscontrabili in campo fotografico e in quello cinematografico, oppure all'analogo intreccio che lega immagine in movimento e suono, in ragione del modificarsi delle modalità di registrazione, ma, al tempo stesso, della organizzazione del sonoro. Si sarebbe quasi tentati di affermare che se non impossibile è certamente molto difficile affrontare separatamente lo studio delle diverse tipologie. Tutte queste fonti sono accomunate dal fatto di essere prodotte dall'intervento apparentemente neutrale di una macchina e dal derivare da procedimenti fisici o chimico-fisici complessi.

Le tre tipologie documentali sopra menzionate si possono presentare nella duplice veste di fonte di semplice carattere documentale oppure di fonte che struttura e organizza diversi caratteri documentali: al procedimento fotografico, ad esempio, dobbiamo sia la riproduzione meccanica, pura e semplice, di un documento (la fotocopia), sia una più complessa interpretazione compiuta della realtà (ovvero quella che siamo soliti chiamare fotografia). Cosi dal procedimento cinematografico possiamo ottenere una semplice restituzione della realtà visiva in termini dinamici (come la registrazione a postazione fissa di un evento), ma anche l' inventio di un avvenimento (intendendo con ciò la ricerca o la scoperta di un contenuto, vale a dire tanto il film a soggetto quanto il documentario). Allo stesso modo, infine, al procedimento di registrazione del suono, che ci restituisce in termini dinamici la realtà sonora, possiamo richiedere sia di fissare un evento casuale (i rumori di una manifestazione, ad esempio) sia l'organizzazione di un evento (la «memoria» narrata, l'interpretazione canora).

D'ora in poi si concentrerà tutta l'attenzione in particolare sulla fotografia anche se, come si è già detto e come si avrà modo di constatare nuovamente oltre, la riflessione potrebbe, e forse dovrebbe, essere condotta in modo comune e parallelo per le tre tipologie documentali indicate.

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Pagina 38

3.

Il documento fotografico


La lingua del documento fotografico

È possibile, è stato fatto ed è utile qui richiamarlo brevemente, un tentativo di lettura delle immagini proprio attraverso i codici e le strutture di una lingua. Le linee essenziali di questa ricerca, così come sono state sintetizzate in due fascicoli monografici editi dalla rivista «Progresso fotografico», sono le seguenti:


Abbiamo applicato gli strumenti d'analisi della «linguistica strutturale» per enucleare - anche nella «comunicazione» fotografica - alcune categorie: «lingua/parola», «significante/significato», «denotazione/connotazione». Abbiamo visto, in una veloce carrellata, che anche la fotografia può benissimo costituirsi solidamente come codice di comunicazione e di significazione, un codice che opera mediante dei segni i quali, nella fattispecie, sono visivi. Ugualmente, la semiotica e la linguistica ci sono servite per distinguere - sia pure attraverso spunti sommari - il processo di significazione primaria e il processo di significazione secondaria nell'immagine fotografica. Il che ci ha permesso di rilevare come la presunta universalità dell'immagine fotografica sia tale solo entro lo stretto rapporto (tra l'altro obbligato) che lega il significante al significato nel momento della percezione a livello neurologico. Quando però si passa a dei processi più complessi di significazione, l'universalità del segno fotografico viene a mancare. Abbiamo quindi concluso che anche la fotografia «deve essere imparata», soprattutto in quelle implicazioni culturali che offrono le maggiori possibilità espressive all'intero procedimento fotografico. Infine [...] abbiamo applicato alla fotografia le categorie desunte dalla retorica classica, giungendo a una prima, approssimativa e sommaria definizione di alcuni parametri che ancora oggi - spesso inconsapevolmente - servono per rendere più efficace e più immediata la comunicazione visiva.


Mantenendo il discorso entro i termini del parallelismo tra lingua verbale e linguaggio fotografico, la ricerca ha poi necessariamente ampliato l'orizzonte assumendo ulteriori ipotesi che ha cercato non tanto di verificare in maniera definitiva, quanto di suggerire come spunti di riflessione inconsueti al limite della provocazione.

La prima ipotesi venne individuata nella verifica dell'esistenza anche nella comunicazione visiva di moduli elementari imprescindibili, indicativi ma mai condizionanti, una sorta di equivalenti della punteggiatura, capaci di renderla più efficace a livello elementare.

La seconda ipotesi formulata riguardava la capacità della fotografia di stabilire «di fronte ai diversi temi che affronta, dei generi, cioè delle categorie d'uso che corrispondano a quelle ampie e tutto sommato comode distinzioni che, in letteratura, vanno sotto il nome di "generi letterari"», oltre alla possibilità di verificare «quali siano i caratteri che questi generi vanno assumendo nel linguaggio visivo, quali siano le occasioni di "applicazione" e, quando è il caso, quali accorgimenti - retorici o di procedimento specifico - siano messi in atto per assicurare efficacia e chiarezza al "genere" scelto».

La terza ipotesi, infine, riguardava la possibilità di estendere i parametri analizzati a tutto 1'arco della produzione fotografica e «trovare ricorrenze di moduli o di "generi" in tutti i momenti storici» della pur breve vicenda della fotografia.

L'affermazione che la fotografia costituisca una «scrittura», cioè un sistema, codificato o meno, per comunicare e per trasmettere significati, nasce dal superamento di uno scoglio teorico non indifferente rappresentato dalla necessità di «fare riferimento a un settore di studi che finora sono gli unici ad avere una organica complessità, e cioè la linguistica e la semiotica, e che purtroppo sono riferibili alla indagine sulla fotografia solo mediante analogie talvolta ardite». La fotografia, come si è avuto modo di vedere, è un sistema che si avvale di determinati segni, usati secondo specifiche modalità, per trasmettere informazioni. «La genericità della definizione è funzionale: abbraccia, infatti, tutto il vasto settore del "fare fotografia". E consente di verificare immediatamente i requisiti essenziali perché si dia una forma di linguaggio».

Stabilito ciò, non si può ignorare il fatto che alla radice di ogni linguaggio sta la prassi della integrazione sociale e culturale: ogni «lingua» riesce a comunicare solo a coloro che vi sono stati educati. L'idea di un linguaggio universale ha affascinato gli studiosi di tutti i tempi e dalla seconda metà dell'Ottocento si è, via via, soprattutto con lo sviluppo accelerato dei mezzi di comunicazione di massa, fatta sempre più strada la suggestione che tale lingua potesse essere costituita dall'immagine. In realtà se è giustificato parlare di civiltà dell'immagine per definire la nostra epoca, lo è solo in quanto l'esistenza umana è andata assumendo una maggiore «organizzazione visuale», come sostiene José Luis L. Aranguren, «in cui accanto a una certa decadenza della parola scritta, affiorano sia i linguaggi formalizzati della cibernetica, sia l'immagine cosiddetta figurativa nella stampa, nella pubblicità, nel cinema, nella televisione. Ma l'immagine appare nel mondo odierno non come "sostitutivo" della parola, bensì come integrazione - talvolta insostituibile - di essa».

Io stesso sto parlando del linguaggio fotografico servendomi della parola scritta. Lo stesso senso comune reputa assurdo che l'immagine possa tradurre completamente ed esaurientemente il pensiero concettuale. «Per contro - ha scritto Attilio Colombo - l'immagine possiede al massimo grado la capacità comunicativa del "contatto immediato con la realtà". Cosa che pare negata alla rappresentazione "virtuale" della parola».

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Pagina 88

6.

L'immagine e l'evento


Ogni evento ha la propria immagine?

La fotografia - è stato più volte ribadito - si propone come una interpretazione conclusa della realtà ed è capace di trasformarsi in evento simbolico.

Ogni evento ha la propria immagine (o quasi: ad esempio è vana la ricerca di una fotografia di Beppe Fenoglio in tenuta partigiana). Essa diventa simbolica per caratteri formali e, talvolta, anche in assenza di questi, per semplice uso. Si pensi a una fotografia simbolo della fine della seconda guerra mondiale quale quella del bacio del marinaio all'infermiera, scattata da Alfred Eisenstaedt e scelta tra quattro istantanee realizzate in sequenza; o a quella che ritrae il settantatreenne Mao Tse-tung mentre nuota nel fiume Yangtze il 16 luglio 1966; oppure ai tre scatti, realizzati a Genova il 26 marzo 1971 dal fotografo dilettante Ilio Galletta, che ritraggono, nel corso di una rapina, Mario Rossi mentre fugge con un complice in moto, e il fattorino Alessandro Floris a terra morente; o, ancora, all'immagine del giovane che spara in via De Amicis a Milano, scattata il 14 marzo 1977 dal fotografo dilettante Paolo Pedrizzetti, che realizza tre fotografie dell'evento; o, per continuare con gli esempi, all'immagine del rinvenimento del cadavere di Aldo Moro, a Roma il 9 maggio 1978, scattata da Rolando Fava e scelta tra i fotogrammi di un intero rullino: queste ultime tre, immagini che simboleggiano e identificano, in modo inequivocabile, momenti significativi della stagione della lotta politica armata in Italia negli anni settanta.

Si pensi anche alle 106 immagini scattate da Robert Capa il 6 giugno 1944 a Saint-Laurent-sur-Mer, distrutte nel corso del trattamento di sviluppo, salvo 11 fotogrammi, decisamente scadenti se giudicati con il gusto del tempo, e oggi molto apprezzati da un occhio fortemente condizionato dall'informazione televisiva.

Proprio questo ultimo esempio consente di approfondire il problema da cui siamo partiti: l'assunzione dei caratteri di simbolo da parte di una immagine dipende comunque sempre dalla cultura visiva del momento in cui l'immagine viene utilizzata. La fotografia, ambientata a Milano il 27 aprile 1945, che ritrae, di fronte all'Accademia di Brera, tre ragazze - tra cui Anna Maria, Lù, Leone - a cui erano state affidate delle armi per posare nei panni delle partigiane, è esemplare di tutto ciò. L'immagine, scattata per un evidente omaggio alla bellezza delle ragazze - per altro, la sequenza dei tre fotogrammi 6x6 sembrerebbe suggerire che esse o qualche altro componente il gruppo che fa loro da sfondo erano conosciuti dal fotograf - non comparve nei giornali e nei volumi illustrati editi in quei mesi. Pubblicata a distanza di qualche tempo, fu oggetto di una controversia giudiziaria intentata da una delle persone ritratte sullo sfondo che pretese dalla Publifoto di Milano, nei cui archivi la fotografia era conservata, la cancellazione della sua presenza dalle copie eventualmente cedute dall'agenzia alla stampa. Per precauzione il negativo in corrispondenza del soggetto venne addirittura graffiato e l'immagine prese a circolare con un nuovo «taglio». Rimasta inutilizzata, o quasi, per molti anni, riemerse per divenire un'immagine simbolo negli anni settanta, in coincidenza con la ripresa dei movimenti di emancipazione femminile e, di conseguenza, con la cresciuta attenzione al ruolo della donna nella lotta di resistenza armata.

Ancora più complesso è il caso della celebre foto, pubblicata a piena pagina da «Life» nel numero del 12 luglio 1937, in cui «la macchina fotografica di Robert Capa coglie un soldato spagnolo nell'istante in cui viene colpito alla testa di fronte a Cordova». Negli anni settanta alcuni studiosi che avevano avuto occasione di esaminare direttamente i materiali di Capa scoprirono che in fotogrammi successivi alla ripresa in questione lo stesso soldato era ritratto in gruppo con dei commilitoni, e pubblicarono alcune di queste immagini, aggiungendo un nuovo «caso» alla già lunga serie di immagini simboliche, divenute tali nonostante corrispondessero più che a un reale evento alla sua ricostruzione. La fotografia di Capa, diventata rapidamente, dopo la pubblicazione, l'equivalente fotografico del quadro di Picasso dedicato a Guernica, nonostante ciò continuò a essere riproposta come la sintesi simbolica del sacrificio del popolo spagnolo nel corso della guerra civile. Allorquando, nel 1996, una giornalista britannica comunicò di aver identificato il milite, che risultava essere effettivamente morto nel 1936, rompendo quello che sembrava un trentennale disinteresse - rinunciando tuttavia all'unica prova che avrebbe potuto dirimere la questione: pubblicare la sequenza originale dei fotogrammi - l'agenzia Magnum, la quale gestisce lo sfruttamento economico delle immagini di Robert Capa, si precipitò ad annunciare che «si poneva così fine alla speculazione se la fotografia fosse stata costruita o meno». Bisogna ammettere che avrebbe di sicuro stupito un atteggiamento diverso in un periodo di crisi del fotogiornalismo classico, dopo la scomparsa delle testate giornalistiche storiche e in un contesto di memoria/cultura visiva collettiva fortemente condizionata dai linguaggi televisivi e dall'ideologia del vedere/partecipare agli avvenimenti nel momento stesso in cui avvengono.

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Pagina 216

Alcune prospettive

Ma quali risposte attende oggi la fotografia dagli storici?

Nel corso di queste pagine si è tentato di percorrere il non facile cammino della fotografia verso la definizione di un proprio autonomo statuto di fonte per il lavoro storiografico. E si è più volte sottolineato come i problemi non siano semplicemente quelli di disporre di strumenti e standard descrittivi, che consentano l'accesso alle informazioni, superando ad esempio i problemi linguistici; la maggior difficoltà rimane l'approccio «culturale» alla fonte. È infatti, in primo luogo, dall'accettazione delle forme del linguaggio fotografico e delle sue specificità, e quindi al tempo stesso dalla capacità di indagare i limiti delle sue potenzialità, che dipende la reale assunzione della fotografia nel novero delle principali fonti per il lavoro storiografico sul mondo contemporaneo. Altrimenti appare inutile anche l'enorme sforzo di costruzione di strumenti di descrizione e di conoscenza che si è fin qui illustrato.

L'immagine fotografica è, tra i documenti, il più «ingannevole» per quel carattere di verosimiglianza che essa mantiene in ogni sua parte e per la capacità di narrare comunque, cosa che non accade con nessun altro tipo di documento tradizionale. La fotografia, cioè, può essere ritagliata, ridotta ai minimi termini, ma permarrà in essa una parvenza di realtà. Si può addirittura sostituire la ricostruzione di un evento con la sua documentazione effettiva, o viceversa, senza che ciò sia facilmente percepibile, anzi creando seri problemi di lettura critica dei materiali.

A partire da queste specificità - che per alcuni sono limiti difficilmente accettabili - vanno affrontati sia il problema dell' uso della documentazione visiva nella ricerca storica, sia il problema della scrittura visiva degli esiti del lavoro storiografico.

L' uso della documentazione implica in primo luogo, come si è visto, il massimo rispetto dei caratteri della fonte visiva (i caratteri tecnici e quelli culturali). In secondo luogo, esso comporta la necessità di affrontare congiuntamente e globalmente le problematiche della produzione e della fruizione dell'immagine. Ciò significa che, ad esempio, le immagini non viste sono documenti che esistono al più per chi le conserva, per gli altri esse diventano tali solo dal momento in cui iniziano a circolare, a divenire patrimonio comune dell'immaginario collettivo. Tale diffusione, si badi bene, non necessariamente deve coincidere con una circolazione della stessa immagine riprodotta a stampa.

La storia della visione di un'immagine, in altre parole, è fondamentale per la comprensione e l'uso dei suoi caratteri documentali, anche se la più recente vicenda dei mezzi di comunicazione di massa sembrerebbe indicare la tendenza generale a imporre, con l'eccesso e la ridondanza della comunicazione visiva, una «vita breve» per le immagini. A dispetto di ciò gli immaginari visivi collettivi sembrano sopravvivere alle ondate di scoop a base di immagini, che si afferma compaiano per la prima volta in quel determinato momento, ma in realtà risultano essere già note.

In terzo luogo, l'uso della documentazione esige, da parte dello studioso, il rispetto dei caratteri documentali - e su questo si ritornerà oltre - partendo dall'assunto che proprio in ragione della sua problematicità la documentazione visiva, più di ogni altra, deve essere accessibile e controllabile da parte di tutti.

Per quanto concerne il problema della scrittura, alla luce dell'utilizzo finora fatto delle fonti visive, va rilevato come queste paiano per le loro caratteristiche consentire a tutti di improvvisarsi «scrittori di storia»; ma le esigenze della scrittura per immagini non possono legittimare scorciatoie, salvo compromettere gli stessi caratteri documentali della fonte. I principali nemici del processo di strutturazione dell'immagine a fonte sono proprio i «divulgatori», coloro cioè che in ragione di un più semplice accesso alla comunicazione sono disposti a sacrificare tutto ciò che può consentire un pieno e totale controllo delle fonti. Costi quel che costi bisogna sempre avere il coraggio di definire e dichiarare in modo completo la natura e la provenienza documentale dei materiali a cui si è attinto; altrimenti si abbia la correttezza di collocare il proprio lavoro sul terreno della libera scrittura o della fiction - come oggi si è soliti definire il campo della produzione di immagini in movimento, non documentarie -, talvolta più efficaci e nobili della scrittura di carattere scientifico.

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