Copertina
Autore John Stuart Mill
Titolo Principi di economia politica
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2006 [1983], Classici dell'economia , pag. 1276, vol. 2, cop.fle., dim. 12x19x3,3+3,4 cm , Isbn 978-88-02-07263-0
OriginalePrinciples of Political Economy, with Some of Their Applications to Social Philosophy
EdizioneParker, London, 1848
CuratoreBiancamaria Fontana
PrefazioneGiacomo Becattini
LettoreLuca Vita, 2007
Classe economia politica
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Indice

   7 Introduzione
  65 Nota biografica
  69 Nota bibliografica

     PRINCIPI DI ECONOMIA POLITICA

  79 Prefazione (a tutte le edizioni)
  85 Osservazioni preliminari

     LIBRO PRIMO - PRODUZIONE

 113     I - Dei requisiti della produzione
 121    II - Del lavoro come fattore della produzione
 139   III - Del lavoro improduttivo
 152    IV - Del capitale
 162     V - Proposizioni fondamentali riguardanti il capitale
 196    VI - Sul capitale fisso e circolante
 208   VII - Da cosa dipende il grado di produttività
             dei fattori produttivi
 226  VIII - Della cooperazione o combinazione del lavoro
 247    IX - Della produzione su larga e su piccola scala
 276     X - Della legge dell'incremento del lavoro
 285    XI - Della legge dell'incremento del capitale
 301   XII - Della legge dell'incremento della produzione della terra
 318  XIII - Conseguenze delle leggi precedenti

     LIBRO SECONDO - DISTRIBUZIONE

 333     I - Della Proprietà
 354    II - Continuazione dello stesso argomento
 378   III - Delle classi tra le quali è distribuito il prodotto
 383    IV - Della concorrenza e della consuetudine
 391     V - Della schiavitù
 398    VI - Dei contadini proprietari
 432   VII - Continuazione dello stesso argomento
 456  VIII - Della mezzadria
 476    IX - Dei possessori a fitto precario
 490     X - Dei modi di abolire il sistema dei fitti precari
 507    XI - Dei salari
 529   XII - Dei rimedi popolari ai bassi salari
 544  XIII - Ulteriori considerazioni sui rimedi ai bassi salari
 558   XIV - Delle differenze dei salari nelle diverse occupazioni
 581    XV - Dei profitti
 601   XVI - Della rendita

     LIBRO TERZO - SCAMBIO

 625     I - Del valore
 634    II - Della domanda e dell'offerta, in relazione al valore
 645   III - Del costo di produzione in relazione al valore
 652    IV - Analisi finale del costo di produzione
 667     V - Della rendita in relazione al valore
 678    VI - Sommario della teoria del valore
 684   VII - Della moneta
 692  VIII - Del valore della moneta in quanto dipendente
             dalla domanda e dall'offerta
 704    IX - Del valore della moneta in quanto dipendente
             dal costo di produzione
 713     X - Del bimetallismo e della moneta sussidiaria
 717    XI - Del credito come sostituto della moneta
 731   XII - Influenza del credito sui prezzi
 754  XIII - Di una circolazione cartacea inconvertibile
 770   XIV - Dell'eccedenza dell'offerta
 779    XV - Di una misura del valore
 785   XVI - Di alcuni casi particolari del valore
 791  XVII - Del commercio internazionale
 801 XVIII - Dei valori internazionali
 829   XIX - Della moneta, considerata come merce d'importazione
 835    XX - Dei cambi esteri
 844   XXI - Della distribuzione dei metalli preziosi
             nel mondo commerciale
 856  XXII - Influenza della circolazione monetaria sui cambi
             e sul commercio estero
 866 XXIII - Del saggio di interesse
 883  XXIV - Della regolamentazione di una carta moneta convertiti
 915   XXV - Della concorrenza di diversi paesi nello stesso mercato
 927  XXVI - Come lo scambio influisca sulla distribuzione

    LIBRO QUARTO - INFLUENZA DEL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ
                   SULLA PRODUZIONE E LA DISTRIBUZIONE

 937     I - Caratteristiche generali di uno stato di progresso
             della ricchezza
 943    II - Influenza del progresso dell'attività produttiva
             e della popolazione sui valori e sui prezzi
 955   III - Influenza del progresso dell'attività produttiva
             e della popolazione sulle rendite, i profitti e i salari
 972    IV - Della tendenza dei profitti verso un minimo
 990     V - Conseguenze della tendenza dei profitti verso un minimo
 997    VI - Dello stato stazionario
1004   VII - Del probabile avvenire delle classi lavoratrici

    LIBRO QUINTO - SULL'INFLUENZA DEL GOVERNO

1051     I - Delle funzioni del governo in generale
1059    II - Sui princìpi generali della tassazione
1084   III - Delle imposte dirette
1101    IV - Delle imposte sulle merci
1126     V - Di alcune altre imposte
1134    VI - Confronto fra la tassazione diretta e quella indiretta
1145   VII - Di un debito nazionale
1154  VIII - Delle funzioni ordinarie del governo, considerate
             dal punto di vista dei loro effetti economici
1164    IX - Continuazione dello stesso argomento
1196     X - Delle interferenze del governo basate su teorie erronee
1225    XI - Dei fondamenti e limiti del laissez-faire o
             del principio di non-intervento

1271 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE



                                        A Man's life of any worth
                                        is a continuai allegory...

                                                        JOHN KEATS



I
1. Quando, nel 1845, inopinatamente, J. S. Mill decide di scrivere i Principles of Political Economy with some Applications to Social Philosophy, egli ritiene l'economia politica una forma di conoscenza parziale e storico-relativa : parziale perché isola un nucleo di relazioni — quelle produttive e distributive — dal tessuto unitario dei fenomeni sociali; storico-relativa perché si riferisce ad uno stadio dell'evoluzione sociale — quello dominato dallo scambio, dalla concorrenza e dalla accumulazione — che non domina ovunque, né costituisce il punto di approdo ineluttabile, o desiderabile, dello sviluppo delle società.

In altri termini, la prospettiva storico-filosofica in cui J. S. Mill colloca quel complesso di temi, problemi e teoremi, che costituiscono l'economia politica, qual è storicamente intesa, in Gran Bretagna, in quel torno di tempo, è assai diversa da quella propria di suo padre e di David Ricardo. E di lui stesso solo pochi anni prima.

Gli scritti di costoro — ed i suoi stessi scritti giovanili — gli appaiono ora (1845) angusti ed astratti, tali da cogliere solo l'aspetto business-like della vita. Essi formulano un blocco di proposizioni ben connesse, utili praticamente per combattere alcuni perniciosi sofismi sul commercio estero, sulla spesa improduttiva, sulla tassazione, sul ruolo delle colonie e così via, ma la loro utilità rispetto ai veri grandi problemi del tempo (proprietà privata e socialismo; intervento dello stato; ruolo dei sindacati) è molto limitata, quando non è negativa:

«confesso — scriveva solo pochi anni dopo (1852) all'economista tedesco C. D. H. Rau — di considerare le analisi puramente astratte dell'economia politica (al di là di quelle elementari necessarie per correggere pregiudizi dannosi) di un'importanza molto ridotta in confronto ai grandi problemi pratici che il progresso della democrazia e la diffusione delle idee socialiste ci propongono e che le classi, governanti e governate, sono tutt'altro che pronte ad affrontare».

Per convincersi che a questa generale disposizione di spirito corrisponde anche, specificamente, la sua posizione nei confronti dei Principi di economia basta ricordare quanto scriveva nel 1851, proprio commentando un Trattato di Economia Politica, quello del Newman: «Il valore di un trattato su temi sociali dipende ora principalmente da come tratta proprio quegli argomenti che fino a poco tempo fa non vi erano neppure presi in considerazione».

Di fronte ai problemi che urgono, l'economia politica non è, dunque, per il J. S. Mill del 1845, la scienza di punta: quella che può aiutare a decifrare il rebus dei fatti sociali. È piuttosto un ramo ormai maturo e consolidato (da ciò la famigerata affermazione milliana sulla teoria del valore) della riflessione sulla società e per cui si pongono problemi, più che di sviluppo e di perfezionamento, di superamento e di inquadramento nel complesso del sapere sociale in rapida evoluzione.

Ora, se questa era la convinzione di Mill, come si spiega che egli dedicasse il tempo e le energie migliori della sua maturità (da 39 a 41 anni) a scrivere qualcosa che sapeva non suscettibile di fornirgli le risposte ai problemi realmente importanti?

Il fatto che un uomo come J. S. Mill, altamente consapevole della propria eccellenza intellettuale e tutto compreso del dovere di dare il meglio di sé alla causa dell'avanzamento delle conoscenze sulla società, si disperda su di un fronte secondario, e per giunta «maturo», non può non porre degli interrogativi all'interprete.

[...]


4. Se dovessi riassumere in una frase, quasi in uno slogan, il problema dei problemi di Mill — nella consapevolezza di quanto ciò impoverisca il discorso — direi che esso è la individuazione delle condizioni del progresso ordinato della società. Progresso e non cambiamento o crescita materiale nd anche evoluzione poiché in Mill c'è sempre, centrale e direzionante, la freccia del miglioramento etico e intellettuale. In un'epoca di aspri conflitti, di ricerca sfrenata e spietata della ricchezza, di rozza trasposizione nel campo sociologico di figure tratte dal processo di selezione naturale, Mill si schiera con i vittoriani ottimisti, secondo cui nell'uomo c'è un immenso potenziale di miglioramento. È un «teorema della scienza sociale — scrive Mill nella Logica — che la tendenza generale è, e continuerà ad essere — a parte alcune occasionali e temporanee eccezioni — al miglioramento; una tendenza verso una situazione migliore e più felice». Progresso, dunque, come tendenza connaturata all'uomo, che imprime il verso a tutto il suo pensiero.

Ma progresso ordinato. Mill non ha prevenzioni nei confronti delle rivoluzioni — le sue simpatie, invero, vanno sempre ai rivoluzionari — ma non crede che si debba fare gran conto sulle contraddizioni interne di un sistema per ricavarne le forze del miglioramento, né ritiene proficui i cambiamenti alla cieca. Ordinato non sta dunque per realizzato in un quadro legalistico di law and order, ma per consapevole e conforme alle leggi dell'organismo sociale. Contro Comte, che tenderebbe a fermarsi alla seconda condizione (le leggi di evoluzione dell'organismo sociale) Mill osserva che questo non basta, che lo sviluppo, per essere progresso, deve realizzare finalità soppesate e scelte dall'uomo: «Comte procede apparentemente nella convinzione che se si riesce a produrre una teoria della società com'essa è, e come tende a divenire, il compito è finito...» in realtà, «ci deve essere qualche metro con cui misurare la bontà, assoluta e relativa, dei fini od oggetti del desiderio».

Individuare le condizioni di un progresso ordinato (in questo senso) della società significa collocarsi giusto nell'area di intersezione fra tutte le branche della conoscenza sociale; etica, politica, economica... E qui Mill resta, in effetti, per tutta la sua vita, a tormentarsi e a scavare senza posa un terreno in cui gli strati dell'esistente si alternano a quelli del possibile e del desiderato. Tutta la sua produzione scientifica e letteraria e gran parte del suo stesso carteggio, visti da questo centralissimo punto di osservazione, appaiono rilevanti. Con spostamenti di accento, che sono talvolta autentiche dislocazioni del suo baricentro intellettuale, talvolta risposte contingenti a mutamenti del contesto esterno, talvolta infine semplici oscillazioni di umore, il problema dei problemi resta sempre lo stesso: come restituire ad una società sconvolta dal cataclisma culturale della rivoluzione industriale, quella ampia base di valori fondamentali partecipati dai singoli individui, che caratterizza i momenti «organici» della storia dell'umanità e che sola consente una autentica crescita della civiltà.

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Pagina 25

12. Tornando al problema di spiegare perché J. S. Mill, intorno al 1845, decide di scrivere i Principi di Economia Politica, la mia risposta è che ciò che Mill e la Taylor in effetti decidono di scrivere — ovviamente per la mano di Mill — è una serie di saggi, in senso lato politici, per presentare al mondo le loro idee. Poco rileva, per il nostro problema, che esse fossero davvero le idee della coppia anziché quelle del solo Mill rispecchiate. come diceva il maligno Carlyle, da Harriet Taylor.

Ora, se si pensa al grado relativo di avanzamento del pensiero di Mill sui fronti dell'etica, della teoria politica e della teoria economica, intorno al 1845, resta facile comprendere la sua decisione di partire da questa ultima. Non è nemmeno escluso che Mill conservasse qualche abbozzo o stesura dei tentativi di trattato economico a cui allude nella corrispondenza degli anni precedenti.

Certo, vedere nei Principi una specie di saggio politico può apparire assai audace ed è certamente paradossale. La sua solenne architettura, lo sforzo quasi enciclopedico di completezza, la sua stessa forma letteraria, così equilibrata e magistralmente scorrevole, trasmettono, netta, l'impresa del trattato, qualcosa cioè di apparentemente antitetico al saggio. E infatti, la questione non va posta come un'alternativa fra un saggio ed un trattato.

In realtà nei Principi, schematizzando molto, si possono e si debbono distinguere tre piani di discorso: un solido, massiccio, nucleo di «teoria economica», un rivestimento di carattere storico-sociologico e un'atmosfera onnipervasiva di critica e di progettualità sociale. Il nucleo, che Mill chiama a volte la «scienza pura» e a volte l'«economia in senso stretto», è una risistemazione nient'affatto disprezzabile dell'economia politica classica, presa in una «lezione media», che rigetta gli opposti estremismi di Ricardo e di Malthus e integra giudiziosamente molti apporti critici degli anni '30 e '40. Questo nucleo ha i caratteri tipici del trattato: la sistematicità e la tendenziale completezza. Il problema, per Mill, è che questo nucleo — molto resistente alle intrusioni di idee riformatrici e di aperture sui futuri possibili dell'umanità — trasmette messaggi di conservazione sociale che sono in aperto conflitto con le intenzioni riformatrici dell'autore.

Per creare un ambiente adatto a queste idee riformatrici Mill «immerge» il «modello economico» in un medium etologico e teleologico, in cui le istituzioni economiche (es. la proprietà coltivatrice o le leggi sui poveri) vengono discusse anche e principalmente per i loro effetti sul carattere, in cui si discetta olimpicamente, con grande scandalo dei benpensanti, di animali ancora inesistenti come il socialismo e il comunismo, in cui il problema delle classi lavoratrici non viene veduto solo come problema «strettamente economico», di livello salariale compatibile con l'accumulazione, ma anche come problema socio-culturale e politico di emancipazione umana e di inserimento nelle strutture dello stato democratico, in cui la proprietà privata ottiene sì, alla fine, la sua legittimazione, ma non senza aver lasciato per strada molti dei suoi attributi tradizionali.

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Pagina 77

PRINCIPI
DI ECONOMIA POLITICA



PREFAZIONE
(a tutte le edizioni)



La comparsa di un trattato come il presente, su di un argomento intorno al quale esistono già tante opere di valore, si può ritenere richieda qualche spiegazione.

Potrà forse essere sufficiente dire che nessuno dei trattati esistenti di economia politica comprende gli ultimi progressi che sono stati compiuti dalla teoria sull'argomento. Molte nuove idee, e nuove applicazioni di idee, sono state suscitate dalle discussioni degli ultimi anni, specialmente riguardo alla moneta, al commercio estero, e alle importanti questioni connesse, più o meno strettamente, alla colonizzazione; e sembra, nel complesso, che vi sia motivo sufficiente per affrontare un riesame di tutto il campo dell'economia politica, non fosse altro che per incorporare i risultati di queste recenti discussioni, e per metterli in armonia con i principi precedentemente esposti dai più grandi teorici di questa materia.

Colmare queste lacune dei trattati precedenti che recano un titolo analogo, non è però il solo scopo, e neppure lo scopo principale, che l'autore si propone. Il disegno di questo libro é diverso da quello di ogni altro trattato di economia politica che sia stato pubblicato in Inghilterra dopo l'opera di Adam Smith.

La caratteristica specifica di quest'opera, quella per la quale essa differisce maggiormente da altre pure di valore uguale, o anche superiore, per quanto riguarda la semplice esposizione dei principi generali della materia, sta nell'associare sempre i princìpi alle loro applicazioni. Questo implica, di per sé, un campo di idee e di argomenti molto più vasto di quello compreso nell'economia politica, considerata come ramo di speculazione astratta. Dal punto di vista pratico, l'economia politica è inseparabilmente connessa e intrecciata a molti altri settori della filosofia sociale. Fatta eccezione per problemi particolari del tutto trascurabili, non esiste nessuna questione pratica, anche fra quelle che si accostano maggiormente al carattere di questioni puramente economiche, che possa essere decisa soltanto su premesse economiche.

È proprio perché non perde mai di vista questa verità; perché, nelle sue applicazioni dell'economia politica, si richiama costantemente ad altre e spesso assai più vaste considerazioni di quelle offerte dalla pura teoria dell'economia politica stessa, che Adam Smith mostra meritatamente di possedere quel senso di padronanza sui principi della materia applicati ai fini pratici, grazie al quale la Ricchezza delle Nazioni, sola tra tutti i trattati di economia politica, non soltanto è divenuta popolare fra i lettori comuni, ma ha lasciato una forte impressione nella mente degli uomini di mondo e dei legislatori.

Sembra a chi scrive che un'opera, simile nello scopo e nella concezione generale a quella di Adam Smith, ma adattata alle conoscenze più vaste e alle idee più avanzate dell'epoca presente, sia il tipo di contributo del quale l'economia politica oggi ha bisogno. La Ricchezza delle Nazioni è, in molte sue parti, superata, e complessivamente difettosa.

L'economia politica propriamente detta si è sviluppata, dall'epoca di Adam Smith, partendo praticamente dall'infanzia; e la filosofia sociale, dalla quale, nella pratica, quel grande pensatore non separò mai la sua materia specifica, per quanto si trovi tuttora in una fase iniziale di sviluppo, ha fatto molti passi in avanti rispetto al punto al quale egli l'aveva lasciata. Tuttavia, non è stato fatto sinora alcun tentativo di combinare il suo modo pratico di trattare l'argomento con le più vaste conoscenze che, da allora, sono state acquisite nell'àmbito di tale teoria; e neppure di mostrare in che relazione i fenomeni economici della società stiano rispetto alle più avanzate idee sociali del nostro tempo, come egli seppe fare, con risultati così brillanti, rispetto alla filosofia del suo secolo.

Questa è l'idea che l'autore di quest'opera si è proposto di seguire. Riuscire, anche solo in parte, a realizzarla, sarebbe già un risultato abbastanza utile, tale da indurlo a correre volentieri il rischio di un insuccesso. È opportuno tuttavia aggiungere che, per quanto il suo scopo sia pratico, e sia, nella misura in cui la materia lo consente, quello di un trattato popolare, egli non ha voluto sacrificare a questi due obiettivi nulla del ragionamento scientifico rigoroso. Anche se l'aspirazione dell'autore è quella di un trattato che rappresenti qualcosa di più di una semplice esposizione delle dottrine astratte dell'economia politica, egli desidera tuttavia che l'opera possa comprendere anche quella.

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Pagina 85

OSSERVAZIONI PRELIMINARI



In ogni campo dell'attività umana la pratica precede di gran lunga la scienza: l'indagine sistematica sui modi in cui agiscono le forze della natura è il prodotto tardivo di una lunga serie di sforzi diretti a utilizzare queste forze per fini pratici. Di conseguenza, la concezione dell'economia politica come ramo della scienza è molto recente; ma l'oggetto al quale sono rivolte le sue ricerche ha costituito necessariamente, in tutte le epoche, uno dei principali interessi pratici dell'umanità, e, in certi casi, uno dei più ingiustamente predominanti.

Questo oggetto è la ricchezza. Coloro che scrivono di economia politica affermano di insegnare, o di indagare, la natura della ricchezza, e le leggi della sua produzione e distribuzione, comprendendovi, direttamente o indirettamente, l'azione di tutte quelle cause dalle quali la condizione dell'umanità, rispetto a questo oggetto universale dei desideri degli uomini, può essere resa prospera o, al contrario, miserabile. Non che un qualunque trattato di economia politica possa discutere, o anche soltanto enumerare, tutte queste cause; ma in genere cerca di esporre tutto quanto è noto sui principi e le leggi secondo i quali esse operano.

Ognuno di noi ha una nozione, sufficientemente corretta per l'uso comune, di ciò che si intende per ricchezza. Non c'è pericolo che le indagini sulla ricchezza vengano confuse con quelle riguardanti uno degli altri grandi interessi umani. Tutti sanno che una cosa è essere ricco, e un'altra è essere illuminato, coraggioso o generoso; e che le questioni di come una nazione divenga ricca, e di come invece divenga libera, o virtuosa, o di come possa primeggiare nella letteratura, nelle belle arti, nelle armi o in politica, sono del tutto distinte tra loro. È vero, d'altronde, che tutte queste questioni sono tra loro connesse, e che si influenzano reciprocamente. Così talvolta un popolo si è reso libero perché prima si era arricchito; o ha potuto arricchirsi perché prima aveva conquistato l'indipendenza. Le tradizioni e le leggi di un popolo influiscono notevolmente sulle sue condizioni economiche; e queste a loro volta, influendo sul suo sviluppo intellettuale e sulle relazioni sociali, reagiscono sulle tradizioni e sulle leggi. Ma, sebbene questi argomenti siano strettamente connessi tra loro, rimangono però diversi nella sostanza, e nessuno ha mai pensato che fosse altrimenti.

Non è nell'intento di questo trattato il perdersi in disquisizioni metafisiche sulle definizioni, quando un termine esprime dei concetti in un modo sufficientemente chiaro per quanto si richiede ai fini pratici. Ma, per quanto possa sembrare strano il verificarsi di una deplorevole confusione di idee su di una questione così semplice come quella di stabilire che cosa si deve intendere per ricchezza, tuttavia è un dato storico il fatto che tale confusione è avvenuta; che teorici e uomini politici ne sono stati, allo stesso modo, e, per un certo periodo, universalmente, contagiati, e che per molte generazioni questa confusione di idee ha impresso una direzione completamente falsa a tutta la politica europea. Mi riferisco a quel corpo di dottrine che, fin dal tempo di Adam Smith, fu indicato con il nome di sistema mercantile.

All'epoca in cui predominava questo sistema, l'intera politica di una nazione assumeva, esplicitamente o implicitamente, che la ricchezza consistesse solamente nella moneta, o nei metalli preziosi, i quali, quando non sono già nello stato di moneta, possono sempre essere direttamente convertiti in essa. Secondo le dottrine allora invalse, tutto ciò che tendesse ad accumulare moneta o metallo prezioso in un paese, accresceva la sua ricchezza; tutto ciò che tendesse a farne uscire, lo impoveriva. Nel caso che un paese non possedesse miniere d'oro o d'argento, la sola attività che avrebbe potuto arricchirlo sarebbe stata il commercio con l'estero, essendo questo l'unico mezzo per farvi affluire moneta. Ogni settore del commercio o dell'industria che si riteneva facesse esportare una quantità di moneta maggiore di quella che fosse in grado di far rientrare, per quanto consistenti potessero essere i ricavi ottenuti sotto altra forma, era considerato in perdita. L'esportazione di merci era favorita ed incoraggiata (anche con mezzi estremamente onerosi per le risorse reali del paese) perché, dal momento che il pagamento delle merci esportate doveva avvenire in moneta, si poteva sperare in questo modo che il ricavato fosse effettivamente in oro e in argento. L'importazione di qualunque cosa che non fosse metallo prezioso, era considerata una perdita, per la nazione, pari all'intero prezzo delle cose importate, a meno che non si trattasse di merci destinate ad essere riesportate con profitto; oppure di materie prime o strumenti destinati ad una qualche industria del paese, che consentissero di produrre ad un costo minore articoli esportabili, aumentando così il volume delle esportazioni. Il commercio mondiale era considerato come una lotta tra le nazioni, tutte tese ad accaparrarsi la maggior parte possibile dell'oro e dell'argento esistenti; e in questa gara nessuna nazione poteva guadagnare qualcosa, se non sottraendo tale guadagno alle altre, o almeno impedendo che fossero le altre ad assicurarselo.

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Pagina 91

La moneta, essendo lo strumento di un fine importante, sia pubblico che privato, è giustamente considerata come ricchezza; ma ogni altra cosa che serva ad un qualunque scopo umano, e che non sia offerta gratuitamente dalla natura, è anch'essa ricchezza. Essere ricchi significa avere una larga disponibilità di oggetti utili, o avere i mezzi di procurarseli. Fa dunque parte della ricchezza qualunque cosa che abbia un potere d'acquisto, che possa scambiarsi con qualcosa di utile o di gradevole. Le cose per le quali non è possibile ottenere nulla in cambio, per quanto utili o necessarie possano essere, non sono ricchezza nel senso in cui questo termine è usato in economia politica. L'aria, ad esempio, benché sia la cosa più necessaria di tutte, non ha nessun prezzo nel mercato, perché può essere ottenuta gratuitamente: nessuno avrebbe alcun profitto o vantaggio ad accumularne una scorta; e le leggi della sua produzione e distribuzione sono materia di uno studio che non ha niente a che tare con l'economia politica. Ma sebbene l'aria non sia ricchezza, l'umanità è più ricca per il fatto di poterla ottenere gratis, perché il tempo e il lavoro che sarebbero altrimenti richiesti per soddisfare questo bisogno, più pressante di ogni altro, possono essere destinati ad altri scopi. È possibile immaginare circostanze tali in cui l'aria potrebbe diventare ricchezza. Se diventasse un'abitudine normale rimanere a lungo in luoghi in cui l'aria non penetra naturalmente, ad esempio in batiscafi sul fondo marino, un rifornimento artificiale d'aria avrebbe il suo prezzo, come l'acqua portata nelle case attraverso le tubature; e se, per uno sconvolgimento naturale, l'atmosfera divenisse insufficiente per il nostro consumo, o potesse essere monopolizzata, l'aria acquisterebbe un altissimo valore di scambio. In tal caso il possesso di aria in più rispetto al proprio fabbisogno, diventerebbe ricchezza per il suo possessore; e la ricchezza totale dell'umanità potrebbe sembrare a prima vista accresciuta, proprio da quella che sarebbe, invece, una grande calamità. L'errore starebbe proprio nel non considerare che, per quanto ricco potesse diventare il possessore d'aria a spese del resto della comunità, tutti gli altri uomini si troverebbero impoveriti di quello che sarebbero costretti a pagare ciò che prima avevano gratuitamente.

Questo conduce ad una importante distinzione relativa al significato della parola ricchezza, a seconda che si riferisca al possesso da parte di un individuo, o di una nazione, o di tutta l'umanità. Nella ricchezza dell'umanità non è compresa nessuna cosa che non sia di per sé stessa utile o piacevole. Per l'individuo invece è ricchezza ogni cosa che, benché inutile in sé, gli consenta di pretendere dagli altri una parte delle cose utili o piacevoli che possiedono. Prendiamo, ad esempio, il caso di un'ipoteca di mille sterline su un possedimento terriero: è ricchezza per la persona alla quale frutta un reddito, e che potrebbe eventualmente venderla sul mercato per l'intero ammontare del suo credito; ma non è ricchezza per il paese; e se l'obbligazione venisse annullata, il paese non si troverebbe né più povero né più ricco di prima. Il creditore dell'ipoteca avrebbe perduto le sue mille sterline, e il proprietario della terra le avrebbe guadagnate. Dal punto di vista della nazione, l'ipoteca non era ricchezza in se stessa, ma dava semplicemente ad A un diritto su una parte della ricchezza di B. Era ricchezza per A, e una ricchezza che avrebbe potuto trasferire a una terza persona; ma ciò che avrebbe trasferito in questo caso sarebbe stata solo una comproprietà, per il valore di mille sterline, della terra di cui B era nominalmente il solo proprietario. La posizione dei detentori del debito pubblico di un paese è analoga a questa. Essi sono creditori ipotecari sulla ricchezza generale del paese. La cancellazione del debito non sarebbe distruzione, ma trasferimento di ricchezza : sarebbe una arbitraria sottrazione di ricchezza ad alcuni membri della società a profitto del governo o dei contribuenti. La proprietà delle rendite pubbliche non può dunque essere calcolata come parte della ricchezza nazionale.

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Pagina 108

Queste notevoli diversità nella situazione delle diverse parti della razza umana, riguardo alla produzione e alla distribuzione della ricchezza, devono, come ogni altro fenomeno, dipendere da certe cause specifiche. E non è una spiegazione sufficiente attribuirle alla diversa conoscenza, che nei diversi tempi e luoghi gli uomini possiedono delle leggi della natura e delle arti pratiche. Concorrono a questo molte altre cause; e anche quello sviluppo, e quella disuguale distribuzione di conoscenze fisiche sono in parte l'effetto, oltreché la causa dello stato della produzione e della distribuzione della ricchezza.

Nella misura in cui le condizioni economiche delle nazioni dipendono dal livello delle conoscenze dei fenomeni della natura, esse sono oggetto di studio delle scienze fisiche e delle arti basate su di esse. Nella misura in cui invece le cause sono di natura morale o psicologica, dipendenti a loro volta dalle istituzioni e dalle relazioni sociali, o dai princìpi della natura umana, il loro studio appartiene non alle scienze fisiche, ma alle scienze morali e sociali, ed è l'oggetto di quella che viene chiamata economia politica.

La produzione della ricchezza, il ricavare dalle risorse materiali del globo gli strumenti della sopravvivenza e della soddisfazione umana, non è evidentemente un fatto arbitrario, ma vincolato a condizioni necessarie. Di queste, alcune sono fisiche, e dipendono dalle proprietà della materia, e dall'ammontare delle cognizioni relative a tali proprietà che si possiedono in quel determinato tempo e luogo. Queste, l'economia politica non le indaga, ma le assume come date; facendo riferimento per i loro fondamenti alle scienze fisiche o all'esperienza comune. Combinando, con questi fatti di natura esterna, altre verità relative alla natura umana, essa cerca di tracciare le leggi secondarie o derivate, dalle quali è determinata la produzione della ricchezza; in queste leggi deve risiedere la spiegazione delle differenze tra ricchezza e povertà nel presente e nel passato, e il fondamento di qualunque incremento di ricchezza che sia riservato per l'avvenire.

A differenza delle leggi della produzione, quelle della distribuzione sono in parte dipendenti dalle istituzioni umane; poiché il modo in cui la ricchezza si distribuisce in una data società dipende dalla legislazione o dalle consuetudini che in essa prevalgono. Ma sebbene i governi o le nazioni abbiano il potere di decidere quali istituzioni debbano esistere, essi non possono arbitrariamente determinare il modo in cui quelle istituzioni debbano operare. Le condizioni dalle quali il potere che essi hanno sulla distribuzione dipende, e il modo in cui questa distribuzione viene effettuata secondo le varie linee di condotta che la società può decidere di adottare, sono materia di indagine scientifica al pari di qualunque legge fisica della natura.

Oggetto del seguente trattato sono appunto le leggi della produzione e distribuzione, e alcune delle conseguenze pratiche che se ne possono dedurre.

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CAPITOLO IV
DELLA CONCORRENZA E DELLA CONSUETUDINE



1. Nel sistema della proprietà privata, la divisione del prodotto è il risultato di due fattori determinanti: la concorrenza e la consuetudine. È importante stabilire quale influenza eserciti ciascuno di questi due fattori, e in che modo l'azione dell'uno sia modificata dall'altro.

Gli economisti in generale, e soprattutto gli economisti inglesi, si sono abituati ad insistere quasi esclusivamente sul primo fattore; ad esagerare, cioè, l'effetto della concorrenza, trascurando quasi del tutto l'altro principio che agisce in direzione contraria ad essa. Essi tendono ad esprimersi come se pensassero che, in ogni caso, la concorrenza sia in grado di esplicare effettivamente e pienamente quell'azione che si può dimostrare che essa tende a svolgere. Questo atteggiamento è in parte comprensibile, se si pensa che è soltanto attraverso il principio della concorrenza che l'economia politica ha qualche pretesa al carattere di scienza. È in quanto rendite, profitti e salari sono determinati dalla concorrenza, che per essi si possono stabilire delle leggi. Se si assume che la concorrenza è il solo elemento regolatore di tali fattori, si potranno stabilire principi di grande generalità e di rigore scientifico, sulla base dei quali quei fattori saranno regolati. L'economista ritiene a buon diritto che questo sia il campo proprio della sua indagine; e all'economia politica, come scienza astratta o ipotetica, non si può chiedere di più, né essa in effetti può fare di più. Ma si andrebbe incontro ad un grosso fraintendimento dell'andamento effettivo delle cose umane, se si supponesse che la concorrenza possa esercitare di fatto questo potere illimitato. Non parlo qui dei monopoli, naturali o artificiali, né di qualsiasi interferenza dell'autorità sulla libertà di produzione o di scambio: di tali fattori di perturbazione gli economisti hanno infatti sempre tenuto conto. Io parlo piuttosto dei casi in cui non esistono limiti alla concorrenza; in cui nessun ostacolo viene posto ad essa, né dalla natura delle cose, né da limiti artificiosamente creati; in cui, tuttavia, il risultato non è determinato dalla concorrenza, ma dalla consuetudine e dall'uso; in cui la concorrenza o non ha affatto luogo, o produce i suoi effetti in un modo completamente diverso da quello che si ritiene sia naturale.


2. In realtà, è soltanto in tempi relativamente recenti che la concorrenza è divenuta in misura rilevante il principio regolatore dei contratti. Quanto più risaliamo indietro nella storia passata, tanto più vediamo tutte le transazioni e le obbligazioni sotto l'influenza di consuetudini stabilite. La ragione è evidente: la consuetudine è la più efficace protezione del debole contro il forte, e l'unica protezione dove non ci siano leggi o un governo adeguato a tale scopo. La consuetudine è una barriera che, anche nelle condizioni di maggiore oppressione dell'umanità, la tirannia è costretta in qualche modo a rispettare.

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Dal momento che la consuetudine conserva tanto saldamente le sue posizioni nei confronti della concorrenza, anche quando, per il gran numero delle persone in competizione tra loro, e per la grande spinta al conseguimento del guadagno, lo spirito di concorrenza è più forte, si può essere sicuri che questo accadrà ancora più di frequente dove la gente si accontenta di guadagni minori, e valuta il proprio interesse economico meno dei proprii agi e della propria comodità. Nell'Europa continentale, credo, ci si troverà spesso di fronte al fatto che prezzi e tariffe, di determinati, o di tutti, i tipi, sono molto più alti in certi luoghi che in altri non molto distanti, senza che al fenomeno si possa attribuire altra causa, se non quella che le cose sono state sempre così, e che i clienti si sono abituati a questa situazione, e vi si adattano. Un imprenditore dotato di spirito di iniziativa, che avesse un capitale sufficiente, potrebbe far diminuire quei prezzi ed arricchirsi allo stesso tempo: ma concorrenti intraprendenti di questo genere mancano coloro che possiedono dei capitali preferiscono lasciarli dove sono, ricavarne un profitto minore, ma in modo più tranquillo.

Queste osservazioni devono essere considerate una correzione generale, da applicare ogni volta sia il caso, che si faccia ad essa esplicitamente riferimento oppure no, alle conclusioni presentate nelle parti successive di questo trattato. In generale i nostri ragionamenti devono procedere come se gli effetti conosciuti e naturali della concorrenza fossero effettivamente prodotti da essa, in tutti i casi nei quali la sua azione non è frenata da qualche ostacolo positivo. Dove la concorrenza, anche se libera di esistere, di fatto non c'è, o dove, se c'è, le sue conseguenze naturali sono soverchiate da qualche altro fattore, le conclusioni saranno, in misura maggiore o minore, inapplicabili. Per evitare di cadere in errore, quando si applicano le conclusioni dell'economia politica ai fatti della vita reale, dovremo considerare non soltanto ciò che avverrà supponendo il massimo grado di concorrenza, ma fino a che punto il risultato verrà modificato se la concorrenza non arriva ad esplicarsi completamente.

I tipi di relazioni economiche che devono essere discussi e valutati per primi, sono quelli nei quali appunto la concorrenza non entra affatto, dal momento che l'elemento che regola le transazioni è la forza bruta, o la consuetudine. Questi costituiranno l'argomento dei quattro capitoli seguenti.

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