Copertina
Autore Liana Millu
Titolo Tagebuch
SottotitoloIl diario del ritorno dal Lager
EdizioneGiuntina, Firenze, 2006, Schulim Vogelmann 128 , pag. 104, cop.fle., dim. 115x195x8 mm , Isbn 978-88-8057-245-9
PrefazionePaolo De Benedetti, Piero Stefani
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe biografie , shoah
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Indice


Prefazione di Paolo De Benedetti            5

Introduzione di Piero Stefani               9

Quel mozzicone di matita del Meclemburgo   23

Tagebuch                                   27

Il ritorno dai Lager                       95



 

 

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Introduzione



Si tratta di un quaderno di non grandi dimensioni: 12x18 cm, di un'eleganza un po' massiccia per cui si vorrebbe spendere l'aggettivo tedesca. È ricoperto di finta pelle zigrinata. Sul fianco ha una piccola serratura per custodire meglio segreti, probabilmente sentimentali, di qualche signorina di un tempo. In alto a sinistra, in caratteri gotici dorati, introdotti e chiusi da riccioletti, vi è scritto Tagebuch, diario. A motivo degli ornamenti la T iniziale sembra contenere una specie di chiave di violino. Forse un segno augurale; con esso si voleva invitare l'acquirente a riempire con la melodia, lieta o struggente, della propria esistenza i cinquantasei fogli senza righe e di carta piuttosto spessa che compongono il diario. Il quaderno ha però soprattutto l'aspetto degli oggetti che si regalano; doni spesso destinati a restare inutilizzati o perché non corrispondono ai bisogni di coloro che li ricevono o perché le circostanze hanno preso una piega imprevista. Le cose, come le esistenze, possono andare incontro a sorti inimmaginabili. Questa imprevedibilità diviene in tal caso il sigillo più autentico del loro essere unici.

Sta di fatto che quando fu trovato ai primi di maggio del 1945 in una fattoria abbandonata del Meclemburgo, il Ragebuch, era ancora in bianco. Accanto c'era una matita. Liana Millu proveniva dal vicino Lager di Malchow. Vi era stata trasferita l'autunno precedente. Giungeva da Birkenau, il campo femminile presso Auschwitz dove c'erano i crematori. In quel periodo i russi sembravano prossimi a giungere e cominciarono le prime evacuazioni. L'avanzata però si arrestò e per la liberazione si dovette attendere il 27 gennaio. Nel campo di concentramento del Meclemburgo l'inverno fu duro, ma non c'erano camere a gas. Chi resistette fino alla primavera vide arrivare le truppe russe e con esse una libertà contraddistinta, nei primi tempi, da uno zingaresco vagare e da un bisogno di cibo impresso in modo inestirpabile nelle profondità del proprio essere. Il primo gradino da risalire per recuperare la condizione umana era di cogliere il mangiare come un mezzo necessario per vivere e non come un fine in se stesso, in quest'ultimo caso infatti la morte sarebbe stata dietro l'angolo. Non fu evento raro che una fame insaziabile conducesse al decesso per l'azione combinata dell'inedia passata e del soddisfacimento presente. La cascina saccheggiata conteneva cibo, ma in mezzo al disordine emerse anche il diario dalle pagine bianche e la matita destinata ad avere un singolare futuro. Non si erra a giudicarle ancore di salvezza portatili della vita di Liana Millu. Tramite quelle pagine anche l'anima fu in grado di ritrovare il proprio respiro. Fu rinvenuto il 3 maggio, le prime annotazioni risalgono però solo a una settimana dopo. Le pagine iniziali contengono anche brevissime note di cronaca, in cui sono presenti i pericoli connessi al ritorno al cibo. L'atto di scrivere ha bisogno di un minimo di distacco. A dirlo è il diario stesso le cui righe si infittiscono quando la necessità di agire e il pungolo del male fisico si fanno meno violenti. Oltre il grande baratro del Lager, Liana Millu ritrova a poco a poco la capacità di fermare uno stato d'animo e un pensiero sulla carta. Li riveste di parole e dà loro forma innanzitutto per lei stessa. Lo scrivere per Liana è sempre stato l'apice della sua peculiare propensione a esaminare, nell'ordine, se stessa, le altre persone e le circostanze in cui si è trovata a vivere.

Entrata in Lager a trent'anni, Liana Millu aveva alle spalle la vocazione di scrivere. L'essere rimasta orfana di madre in tenerissima età, l'infanzia difficile per un'educazione che non corrispondeva alle sue esigenze, il ribellismo giovanile che l'aveva condotta all'ateismo in reazione alla componente sia ebraica sia cattolica della propria famiglia, il mestiere di maestra intrapreso subito dopo il diploma, le molteplici, disordinate letture, tutto sembrava portarla a un approdo: fare la giornalista. Scelta anticonformista per una giovane degli anni Trenta; ma anche realizzazione del desiderio di osservare, descrivere, analizzare, frutto di uno spaesamento, avvertito fin dall'infanzia, che fa compiere all'animo un passo indietro per poter guardare meglio. Le leggi razziali del '38 interruppero tanto la sua carriera di maestra iniziata nell'antica Volterra quanto la collaborazione con i giornali. La pisana Millu si trasferì allora a Genova divenuta da quel momento in poi la sua città. Seguirono anni contrassegnati da vari mestieri, compreso quello della serva (espressione senza perifrasi che trova riscontro nel Tagebuch), e da intense esperienze sentimentali. Una volta scoppiata la guerra e trascorso il fatidico 8 settembre, decise di entrare nella Resistenza. Non si trattò di una scelta sostenuta da una forte adesione a una ideologia politica. Non faceva parte della sua personalità darsi anima e corpo a una parte e aderire a una visione elaborata da altri. Non a caso si dichiarò sempre aliena ai partiti.

Catturata a Venezia nella primavera del '44, fu presto deportata ad Auschwitz Birkenau. Quando entrò nel Lager, Liana Millu non era sostenuta né da una fede religiosa né da una fede politica; due pilastri che aiutavano a sopravvivere e a dare speranza in un luogo scientificamente programmato per rendere sottouomini coloro che erano arbitrariamente considerati già tali. I deportati trattati da «pezzi da lavoro (Arbeit Stücke)» sarebbero ben presto divenuti tali se in loro non avesse operato una controforza. Quest'ultima, Liana la definiva fede. Ve ne erano di tre tipi; oltre a quella religiosa e politica, vi fu quella che Liana Millu chiamò laica. Della fede religiosa si conobbero epifanie commoventi, quella politica operò una resistenza anche in mezzo a pericoli atroci; la sua fede laica — che l'avvicinava a Primo Levi — faceva invece della mente e dell'anima un baluardo, un bunker inviolabile alla brutalità e alle abiezioni, un rifugio dove conservare l'idea di tutto quel che rende «civile» la vita. In quest'ambito un ruolo decisivo lo svolgevano le poesie apprese a memoria e perciò divenute intime presenze (si pensi all'esempio più celebre: «Il canto di Ulisse» in Se questo è un uomo) Questi frammenti vividi di memoria sono ben presenti nel Tagebuch. Tra le risorse dell'animo vi era però anche la volontà di osservare se stessi e gli altri.

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Quel mozzicone di matita del Meclemburgo


Forse era il due maggio. Ma poteva anche essere il tre, il quattro: la data esatta non ho mai saputo ricostruirla. Fatto sta che in quella gloriosa mattina del '45, una volta entrata nella fattoria, andai a curiosare nella stanza che doveva essere stata il soggiorno dei padroni di casa. Non c'era nessuno: il viavai degli ex prigionieri, soldati, gente del Lager, lavoratori coatti, si addensava tra cortile, cantina e cucina.

Così entrai avanzando con circospezione sul pavimento ricoperto dai detriti: mobili fracassati, vetrine infrante, una radio sfondata, tutto quello che lo scoppio liberatorio di un'ira enorme lungamente repressa poteva distruggere era lì. E fu lì, su quel pavimento, che vidi la matita e subito la presi e cominciai a guardarla e a rigirarla: da oltre un anno non ne avevo toccate più: Viste, sì. Tra le mani delle Kapo e delle SS che mattina e sera controllavano sul taccuino il numero dei «pezzi». E anche una, tenuta a mezz'aria dalle dita lunghe e bianche del dottor Mengele; ma, essendo matite di Lager, non mi erano mai apparse come vere. Non potevano esserlo: appartenendo al mondo di Auschwitz non erano che oggetti temibili, dagli effetti spesso mortali.

Quella, invece, era una matita vera. Perciò volli subito provarla, ansiosamente. Avevo bisogno di dimostrarmi che potevo ancora scrivere: scrivendo, avevo la riprova che quella mattina era, veramente, la prima della libertà. Rovistai sul pavimento e, quasi subito, mi venne in mano un libretto rilegato in finta pelle, le pagine tutte bianche. Tagebuch era stampato in un angolo. Scrissi il mio nome sulla prima pagina, più volte, con una gioia sempre più esultante. Non solo sapevo ancora scrivere: possedevo di nuovo una cosa mia!

Grazie a quella matita vissi il momento che segnava il mio ritorno tra gli umani. Finalmente una gioia pulita, civile: non la soddisfazione bruta della sopravvivenza.

Da quel giorno, per i tre mesi che rimasi in Germania, da un ospedale all'altro, da un campo di raccolta all'altro, scrissi su quel diario, con quella matita. E poi passarono quarant'anni. Sono tanti. Eppure uno sguardo può annullarli: ogni tanto, quando sfogliavo il diario, prendevo in mano la matita, diventavano un soffio. Certo, la carta ingialliva, le parole scritte a matita sbiadiscono: rileggendole, avevo persino un senso di stupore. Ero proprio stata io? Ero stata io. Lo testimoniava la prima pagina, con il nome scritto tre volte in quella mattina di maggio. Leggevo, riponevo. Finché, a un certo punto, decisi che, a quelle cose, dovevo pur dare un avvenire. Restando con me, lo avrebbero avuto non solo breve, ma molto brutto. Disperse o gettate: un mozzicone di matita, figuriamoci!

Il diario lo collocai per primo, in mani giovani e devote che potranno sfogliarlo quando io me ne sarò andata, in modo da continuare il dialogo. La matita, invece, la tenni ancora, ridotta a pochi centimetri, scrostata, mordicchiata, la punta maldestramente aguzzata da entrambi i lati. Finché mi resi conto che mancavo ai miei doveri nei suoi confronti: doveva rimanere e portare testimonianza anche nel futuro.

Primo Levi aveva alcuni anni meno di me. Così, all'improvviso, decisi che gliel'avrei affidata. L'avevo visto un paio di mesi prima, a Torino, e poiché lo ringraziavo per certe righe, mi aveva detto: «Tra noi non occorrono parole». Era vero. Infatti ce n'erano sempre state poche e anche la nostra corrispondenza era rada. Brevemente gli scrissi spiegandogli la storia della matita e tutta la situazione. Scelsi una busta spessa, accomodai il pezzettino di matita in un angolo e spedii: doveva mancare poco a Natale.

Mi giunse questa risposta: «Cara amica, ho ricevuto lo strano e prezioso dono e ne ho apprezzato tutto il valore. La conserverò. Anche per me i giorni si stanno facendo corti ma le auguro di conservare a lungo la Sua serenità e la capacità di affetto che ha testimoniato inviandomi quel "mozzicone del Meclemburgo" così carico di ricordi per Lei (e per me). Con affetto. Suo Primo Levi».

«La conserverò». La data era quella del sette gennaio 1987. In sei righe scritte con quella grafia minuta e chiara che lo distingueva mi comunicava di avere accettato il compito. L'avrebbe conservata. Dove? Come? Ero curiosa: mi avrebbe fatto piacere saperlo. Mi proposi di chiederglielo alla prima occasione d'incontro: intanto mi limitai a fantasticare. Forse l'aveva messa su un ripiano della libreria. O in una scatoletta. O, addirittura, la teneva sulla scrivania?

Sette gennaio 1987: «La conserverò». Quante volte «dopo» mi sono fissata su quella data e su quella promessa. Se si proponeva di conservarla, se «serenità e capacità di affetto» gli apparivano beni da augurare, il suo animo doveva essere ben diverso da quello che l'undici aprile lo precipitò verso la morte.

Naturalmente il giorno che ricevetti il biglietto, pur essendone confortata, non gli detti affatto quel significato di presenza sacrale che avrebbe assunto dopo l'undici aprile. Lo prova il fatto che avendo urgenza di segnare un indirizzo e non trovandomi altro foglio sottomano, lo scarabocchiai, ciò che adesso mi colpisce con la forza di un rimorso.

Ma noi non sappiamo. Non possiamo sapere: per noi non rullano i tamburi. Nel circo quando sta per avvenire qualcosa che può anche risolversi in morte, il rullo dei tamburi ce ne avverte. Nella vita, no.

Così il biglietto di Primo Levi è diventato l'ultimo. Quanto alla matita che mi stava tanto a cuore, non ne ho saputo più niente.

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Il ritorno dai Lager



Mai ho parlato del mio ritorno dai Lager, e dopo oggi, mai più ne parlerò. Ma ne ho preso l'impegno e lo faccio, pur risentendone orrore e dolore. Alzerò quella lastra tombale, guarderò in un fondo dove strisciano serpenti. Per l'urgenza di allontanarmi, riassumerò quel tempo in gruppi, inquadrando in ciascun gruppo gli episodi più significativi, più emblematici.

Documenti non ne ho, le mie date sono incerte. Ma necessito di una premessa.

4 (o 5) marzo del 1944, Venezia.

Arrestata nel magazzino dove avevo appuntamento con due compagni, e condotta in un ufficetto dove un uomo di mezza età, con uno scuro volto impenetrabile, mi prende la borsetta, strappando la fodera, rovesciandola tutta. Ogni tanto alza la testa e mi scruta. Cerco di concentrarmi sui vetri appannati di nebbia, finché l'uomo si alza e dice:

— Andiamo.

Primi di settembre 1945, Venezia.

Condotta in un ufficio della polizia ferroviaria, davanti a tre uomini che, dopo qualche domanda incuriosita, mi guardano in silenzio. Mi ci aveva sbattuto un controllore paonazzo dall'ira, stringendomi il braccio, quasi strattonandomi. Aveva spiegato che, nel tragitto Mestre-Venezia, alla sua legittima – le-git-ti-ma!! – richiesta del biglietto, avevo risposto di essere salita a Mestre, scendendo da una tradotta.

Una donna in una tradotta? e doveva credermi? Alle sue insistenze, avevo perfino alzato la voce.

– Vengo dalla Germania, soldi non ne ho, il biglietto non lo pago. Ho fatto un anno di Lager!

Germania non Germania, qui eravamo in Italia e il biglietto dovevo pagarlo. Cosa erano quelle pretese? Dei Lager, lui, se ne fregava!

Raccontò tutto ai poliziotti e se ne andò con un'ultima occhiata minacciosa. E, ora, quelli mi guardavano in silenzio. Sentivo i loro sguardi indugiare sulla camicetta che mi ero confezionata a Dörverden, provincia di Hannover, zona inglese, campo di raccolta per militari italiani.

Laggiù, la camicetta rimediata con tre tovaglioli dell'ospedale, aveva riscosso complimenti. Ma, ora, i tre la guardavano con disapprovazione: era tutta stropicciata e anche sporca.

– Vada pure – finalmente uno si decise – Vada pure e...

– Vada e si ripulisca, si metta un po' in ordine. Una donna...

Dunque, ero una donna. Ci pensai uscendo dalla stazione, nella mattina splendente. Ero una donna. "Laggiù", per un anno tutto era stato fatto perché me ne dimenticassi.

A Genova, dove ero tornata, l'Ente Comunale di Assistenza elargiva 500 lire al mese - allora erano qualcosa – ai reduci privi di casa e di mezzi. Veramente, una casa dove dormire ce l'avevo. Una signora, timorosa che il Commissariato degli alloggi le requisisse una camera inutilizzata, mi ospitava volentieri ripetendo:

– Meglio una poveretta tornata dai Lager, che gentaglia imposta dal Commissariato!

Così, dal settembre, mi presentavo agli sportelli dell'Assistenza. La fila era lunga e l'impiegato impaziente.

Una volta, era quasi mezzogiorno, quando venne il mio turno, mi appoggiai con le braccia sullo sportello: ero stanca. L'impiegato si sporse per controllare quanta gente c'era ancora e, per caso, lo sguardo gli cadde sul numero tatuato sul mio braccio.

– Cos'è?

Glielo spiegai ed ebbe un risolino sardonico.

– Vi marcavano la pelle? come bestie?

Poi aggiunse.

– Dite che nei Lager era un macello. Ma a vedere quanti vengono qui a beccarsi le 500 lire, mica si direbbe. Altro che sterminio!

Nel mio testamento, ho scritto che una piccola somma venga data all'Auxilium e alla Caritas con questa precisa motivazione:

«In ricordo dei quattro quadratini di cioccolata e del sorriso ricevuto da due suore francesi che vennero al treno dalla Croce Rossa che mi rimpatriava dalla Germania. E del bicchiere di latte ricevuto alla stazione di Verona, dal banco dell'Auxilium, da una giovane donna dal viso gentile».

Non avevo più genitori né parenti stretti: ad Auschwitz questa mancanza mi aveva sollevato dai pensieri torturanti di chi aveva lasciato la famiglia. A guerra finita, tramite la Croce Rossa, ebbi il biglietto di una zia. Mi raggiunse in un ospedale di Merano dove rimasi esattamente 4 giorni, il quinto me ne andai con una tradotta. Dovevo. Avevo paura di non riuscire più a controllare l'impeto di furore che mi prendeva davanti alla bella infermiera altoatesina, una bionda che somigliava tutta a una ausiliaria che vedevo ad Auschwitz.

Rimpiangeva sempre i "suoi" soldati: così beneducati, corretti, puliti!

Si scagliava contro le abitudini "bestiali" di noi ex deportate, l'avidità di cibo, la mancanza di pudori. Ci guardavamo con vero odio.

Così, in ottobre, decisi di accogliere l'invito di mia zia, abitava a Pisa, la città dove sono nata e cresciuta. Ci abbracciammo, poi cominciarono i racconti. E io volevo parlare, avevo bisogno di raccontare, far sapere, e alla zia, qualche volta, venivano gli occhi lucidi. Ma interrompeva sempre, sovrapponeva ai miei ricordi i suoi che erano quelli di una sfollata e a lei sembravano tremendi, a me sembravano acqua di rose. Cominciavo già a convincermi che la gente non poteva capire. Le rape, per esempio! Era la stagione e la zia era salutista, convinta che depurassero il sangue e ne preparava ogni giorno. Certo non erano le legnose rape del Lager. Ma il nome era quello, l'odore era quello e mi faceva ammutolire.

Una cugina volle incontrarmi. Sua figlia (un tempo mia compagna di scuola) era stata deportata nel '44 e non ne sapeva più niente. Mi pungolò di domande alle quali non potevo rispondere che vagamente. Infine, mi piantò in faccia due occhi nemici.

– Sei tornata tu. Sei tornata tu che non hai genitori, non hai un marito, hai sempre dato dispiaceri alla famiglia. Perché non è tornata lei? Aveva un bambino piccolo, era buona. Lei si meritava di tornare! Lei doveva tornare! È questa la giustizia di Dio?

Mia zia abbassò gli occhi, contrita per le misteriose ingiustizie di Dio.

Allargai le braccia, in silenzio. Non mi sentivo colpevole.

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