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| << | < | > | >> |Pagina 7Mi sono vomitato, mi sono creato, trasformato, risputato, e più volte. Questa era la mia dose: cinque bottiglie di Wyborowa alla settimana, tre pacchetti di Marlboro senegalesi al giorno, due Prozac. Lexomil per dormire, tre quarti. L'ultimo quarto appena sveglio, un attimo prima di accendere il computer. Avevo il viso rovinato dai graffi, mi si squamava la pelle: allo specchio, una maschera oscena faceva finta di sorridermi. Le mie unghie assomigliavano a delle virgole, e sanguinavano. Appena sveglio, controllavo la posta. Leggere, rispondere, sollecitare, tender trappole, mentire ancora. Trapassare con lo sguardo foto un po' sfocate, cercare di indovinare le intenzioni nascoste dietro annunci vuoti o maliziosi, annunci che dicevano troppo o troppo poco. Ero nudo davanti allo schermo, sudavo, volevo andare più in fretta, non mangiavo quasi più. Per reggere mandavo giù uova sbattute con un po' di pepe. E tenevo botta. Nessuno me l'aveva detto che c'era un'entrata a questo labirinto, ma forse nessuna uscita, e al centro nessun mostro.
O forse, sì, uno, ma davvero troppo difficile da uccidere, perché
moltiplicato dagli specchi.
Era stata Anne a parlarmi per la prima volta di pointscommuns.com. Andavo a letto con lei quando aveva sedici anni e abitavo a Batignolles, poi per un pezzo c'eravamo persi di vista. «Un sito d'incontri,» mi aveva spiegato «ma diversissimo dagli altri. Un sito che si basa sulle affinità culturali, sui gusti condivisi.» Era riuscita a convincermi: «Mica puoi continuare a giocare a scacchi tutte le notti come un autistico, no? Dovresti uscire un po', conoscere gente...».
Quel pomeriggio, al tavolino del bar di rue Claude
Bernard, mi era parso di scorgere nel suo sguardo
una dolcezza mista a compassione. «Basta iscriversi, vedrai...» La via era quasi
deserta. Solo qualche passante si attardava davanti alla vetrina della libreria
di fronte; e ripenso alle gambe bianche di Anna, alla
sua gonna troppo stretta. Dire che non sapevo cosa
mi aspettava, in quei primi giorni di settembre, è dir poco.
Due settimane prima, Judith non si era presa la briga di rispondere a un
messaggio di routine che le avevo spedito prima che partisse per il fine
settimana da un'amica in campagna. Tipo: «Mi mancherai». Quasi
subito dopo aver mandato il messaggio, avevo avuto
la netta sensazione che le cose non potevano più continuare così: tutto andava a
catafascio. Il mese d'estate
trascorso nella casa di suo padre, il Grande Filosofo,
nel Sud, aveva dato il colpo di grazia alla nostra storia.
Ci eravamo massacrati. Eravamo riusciti a trasformare
un mese di vacanza in un incubo interminabile. Judith
non sopportava più la mia sbandierata pigrizia, i miei
intempestivi accessi di onanismo, la mia mancanza di
progetti con lei. Quando provavamo a fare l'amore,
dopo una partita a scarabeo sul tavolo mal rischiarato
del giardino (perdevo in francese, ma perdevo anche
in italiano, la mia lingua madre), riuscivamo a stento a
darci un po' di piacere. La mattina, lei se ne stava in
silenzio davanti al suo caffè, leggendo il giornale. L'afa
era soffocante. Non avevamo più niente da dirci. Eppure, due settimane dopo il
nostro ritorno a Parigi, quando mi disse che voleva una pausa di riflessione,
sentii che qualcosa si spezzava in me. Stavano per finire tre anni di vita in
comune, così, di colpo.
In quel mese di settembre le notti erano fresche.
Scendevo per la rue Ménilmontant con lo sguardo assente. Davanti al banco di un
bar qualunque mi accendevo una sigaretta, poi, con il mozzicone, ne accendevo
un'altra, gli occhi fissi sui vecchi poster di
cantanti arabe che tappezzavano le pareti (erano
splendide e desuete. Il tempo doveva averle fatte fuori da un pezzo,
riflettevo). Certe sere chiamavo qualche amico che, troppo spesso, non aveva
tempo. Quando una notte scoppiai in lacrime davanti a Julien
e Bernardo disorientati, la cameriera, una vecchia cabila dai capelli tinti
d'henné, mi riempì fino all'orlo un
bicchiere di cognac, senza fare commenti. Ero a pezzi.
La mattina mi svegliavo troppo presto, con lacci invisibili che mi stringevano
il collo e un silenzio acuto nei timpani.
Avevo mandato a Judith queste parole di una canzone di Silvio Rodríguez sperando che capisse. Ma cosa doveva capire? Non riuscivo ad ammettere che la sua decisione era la migliore. Che rappresentava una liberazione per entrambi.
Una sera, completamente sbronzo dopo aver assistito alla presentazione di un
libro, avevo tradito la promessa di non parlarle più, di non scriverle più. Il
telefono aveva suonato più volte nel vuoto. Finalmente la
sua voce, imbronciata. Stava bevendo un aperitivo con
un amico, la disturbavo. «Solo cinque minuti» le avevo
assicurato con voce malcerta. Mi aveva ascoltato per
mezz'ora, in silenzio, straparlare di bambini mai nati e
di case che avremmo potuto ristrutturare dalle parti di
Béziers. A un certo punto mi aveva interrotto con fermezza: «Tra di noi non può
funzionare». Quella telefonata aveva scatenato l'esplosione definitiva. Appena
sveglio, aprivo il frigo e mi servivo una vodka. E, qualche giorno dopo, in uno
stato di avanzata ubriachezza, avevo chiamato Anne. Che si era preoccupata.
Fu l'inizio di una notte bianca che sarebbe durata un anno intero, trasformando, con il bagliore dei suoi pixel, le mie veglie e i miei amplessi. | << | < | > | >> |Pagina 22Quando, in chat o a un appuntamento, mi vengono rivolte domande sull'Italia, rispondo educatamente, ma senza la minima affabilità. Quasi tutte le ragazze sono state a Roma, a Firenze, a Venezia. Stravedono per la Toscana. E per la «cucina italiana», naturalmente. Mi cascano le braccia. Non appena spiego la mia intenzione di non tornare sui miei passi, di non vivere mai più in Italia e di mettervi piede il meno possibile, la mia interlocutrice sembra sinceramente perplessa. Ma cosa dire di un paese che ho mollato con un gesto tanto brutale quanto doloroso? Da quando, dodici anni fa, mi sono stabilito a Parigi ho dovuto sorbirmi tutti i luoghi comuni sugli italiani. Dalla pasta alla mamma, dalla mafia al latin lover, dalla Vespa alla dolce vita. Questi stereotipi mi fanno pensare a un'altra Italia, indelebile e un po' meno pittoresca: quella della mia infanzia e della mia adolescenza. Un paese governato dal peggio. L'Avanguardia stessa del Peggio: abolizione di qualsivoglia discorso critico, dilagante volgarità dei costumi, corruzione generalizzata e sistematica, ignoranza eletta a regola, culto scandaloso del denaro, disprezzo ostentato delle idee e dell'intelligenza, moralismo rancido. «L'Italia? Bisognerebbe chiuderla, o magari venderla» mi capita di buttare lì, nel corso della conversazione. Qualche volta racconto che sono nato in un paese del Nord Italia invaso da una nebbia violetta cinque mesi su dodici e soffocato in estate da un'afa mortifera. «Gli abitanti di quella sperduta contrada sono il frutto di secoli di disinvolti incesti. Sono casi stranissimi, talmente aberranti che persino Lynch avrebbe qualche scrupolo etico a filmare...» E che cosa dire di quel tumore dallo strano copricapo bianco che gesticola tutte le domeniche da un balcone del Vaticano? Nessuno, in Italia, sembra prendere seriamente in considerazione la salutare opportunità di asportarlo. O del porco cupido che governa i miei compatrioti?
Ho lasciato senza rimpianto quel manicomio in fiamme.
Nella propria lista di preferenze culturali è possibile mettere solo libri e
cd che si possono acquistare su alapage.com, cliccando sui nomi degli autori o
sui titoli. In letteratura, mentre un buon numero di iscritti
inserisce Desproges, Paulo Coelho o Beigbeder, io
scelgo Daniil Charms (nel genere comico metafisico),
Albert Cossery (maestro di pigrizia) e Jules Renard (il
suo diario è il mio libro preferito). Con perplessa soddisfazione constato che
nessun membro del sito ha scelto i miei stessi autori.
Fra i miei gusti musicali non mi è possibile includere Concetta Barra, visto che i dischi di questa vecchia sciantosa napoletana in Francia non sono venduti. Mi limito dunque ai CCCP, un gruppo che, verso la metà degli anni Ottanta, si definiva "punk islamico" e che si sciolse al momento della caduta del Muro di Berlino. Ricordi di giovinezza.
Per il cinema, metto Georges Méliès.
Da qualche mese sono stipendiato da una casa editrice italiana per tradurre
nella mia lingua
Mon corps et moi
di René Crevel. Scritto all'età di venticinque
anni da questo surrealista poco ortodosso, il libro racconta alcuni giorni della
vita di un uomo che vuol starsene da solo a ogni costo, ma che non riesce a
trovar sollievo, né, tanto meno, perfezione nella solitudine. È
una meditazione sul peso ossessivo dei ricordi. Ed è
pure qualcos'altro, che ancora mi sfugge. Devo consegnare la versione prima
dell'estate. Questo lavoro mi lascia parecchio tempo libero, e altrettanta
angoscia. Come il protagonista del romanzo che, la sera, per
sfuggire alle proprie ossessioni, va al cabaret dove
danza la sua amante, io accendo il computer ed esco da me stesso.
La foto di Florica è irresistibile. Viso dai tratti delicati, labbra ben disegnate e capelli arruffati che le nascondono un po' gli occhi. Dopo due mail senza risposta, capisco che non è abbonata. L'unica soluzione è quella di mandarle il mio indirizzo di posta elettronica, e sperare che prenda l'iniziativa di contattarmi. Nell'attesa, le mando una serie di mail una più stravagante dell'altra. In una, ricopio la prima pagina del Piccolo amico di Paul Léautaud, che le presento come «il mio romanzo d'amore preferito». Una settimana dopo mi risponde con parole inaspettate. Ha ventun anni, è nata e cresciuta in Québec, ma è di origine rumena. Vive a due passi dal carrefour de l'Odéon in una soffitta, dove, mi dice, la notte fa un freddo cane. L'appuntamento è fissato per un mercoledì sera di ottobre, in Place Saint-Sulpice. La aspetto dietro una colonna della chiesa, nascosto nel buio. Finalmente vedo apparire la sua sagoma. La trovo diversa dalla foto: un viso banale, la pelle come sbiadita. Da Chez Georges, rimane misteriosamente silenziosa. Benché provi a farla parlare con tutte le domande possibili, lei mantiene un'aria da sfingetta. Qualche parola appena, quasi mormorata. È giornalista per un mensile di Montreal, a quanto pare. Cosa scrive? Non lo saprò mai. Quando estraggo dalla borsa le Massime di Chamfort per regalargliele, si mostra dubbiosa. Sfoglia il libro con una smorfia scettica prima di restituirmelo qualche minuto dopo senza il minimo garbo. L'atmosfera si distende quando mi alzo per andare a ordinare il mio quinto bicchiere e l'afferro improvvisamente per il collo, come per farla ragionare. Questo gesto brusco la spiazza. Ne approfitto per chiuderla in un bacio, sordo alle voci concitate dei giocatori di scacchi ai tavoli vicini. «Sono un'attrice» finisce per confessarmi a letto. Nel corso delle settimane seguenti vado a trovarla una decina di volte. Non abita affatto in una soffitta come mi aveva detto, ma in un monolocale estremamente pulito e ordinato, nel palazzo della rue Mazarine dove i nazisti, una notte del 1944, erano passati a svegliare Robert Desnos. Svegliarlo alla morte. Florica non fuma, e a quanto pare non gradisce più di tanto l'ebbrezza assoluta provocata dai superalcolici. Ha un corpo minuto di cui si prende cura stando attenta a pesare i cibi su una bilancia posta di fianco al lavandino. Il suo culo sembra meno perbenino e, quando forzo delicatamente l'ingresso del buchetto, le si dipinge in volto un sorriso beato. Mi racconta che, quando viveva ancora a Montreal, il suo primo amore era un fanatico di sadomasochismo. Dopo quattro anni di relazione, Florica aveva deciso di non sposarlo quando lui aveva preteso un contratto (il tal giorno le tali mutandine, il tal gesto alla tal ora, la tale parolaccia nel tal momento, un anello all'ano ecc.). Educata al sesso da queste esperienze estreme, fare l'amore come tutti la lascia quasi sempre insoddisfatta.
Come ogni attrice che si rispetti, Florica è torturata
da un'ambizione feroce. Subito dopo il sesso, angosciatissima, mi rivolge
domande del tipo: «Pensi che
sia utile andare a letto per sfondare?» o: «Credi che
dovrei togliere un
h
al mio cognome?». Prudente, rispondo sempre sì, come mi hanno insegnato da
bambino al mio paese (mai contraddire i matti!). Florica è
inoltre rósa da una gelosia arrogante che si fa sempre
più intensa nel corso dei nostri incontri. Quando scopre nel mio bagno un
capello troppo biondo o una
salviettina struccante che per distrazione non ho fatto
sparire, scoppia in crisi che rasentano l'isteria. Ben
presto sarà lei a mollare la presa. La nostra storia durerà due mesi.
Questo nuovo modo di conoscere donne incomincia ad affascinarmi. Una lista di schede più o meno particolareggiate, di foto più o meno recenti o nitide, "relazioni auspicate" piuttosto vaghe: «Amore, uscita, dialogo, altro». Al primo appuntamento arrivo sempre in anticipo. Mi piace assistere all'apparizione della ragazza che sembra saltar fuori dal computer come per magia. Quando le vado incontro, e una lieve incertezza lascia posto al breve sforzo di riconoscimento reciproco, l'alias cade come una maschera e il gioco può incominciare. Per prima cosa studio con discrezione le sue forme, l'intensità dello sguardo, come si muove. Devo accordarmi il prima possibile al diapason della sua conversazione. Ascoltarla, o almeno far finta. Ravvivare continuamente il dialogo. Raccontare la mia storia. Sempre la stessa. È raro che cali subito le mie carte. Visto che non ho quasi niente in mano, posso solo bluffare: sto a vedere come butta. | << | < | > | >> |Pagina 36Quando Alessandra, pubblicitaria rampante, entra per la prima volta in camera mia, noto che resta a bocca aperta davanti ai libri che tappezzano le pareti e sono ammucchiati un po' ovunque sul pavimento. Questo arredamento mette in un insolito stato di eccitazione le ragazze che conosco sul sito. L'alibi culturale come fattore afrodisiaco. Scarabocchio la frase su un pacchetto di sigarette mentre lei è in bagno. Quando esce e mi chiede se mi piace Amélie Nothomb, ho già incominciato a russare.
Scopro che parecchi membri di pointscommuns.com sono affiliati alla temibile
setta dell'Artismo Parigino. Natacha, una trentina d'anni, è dipendente statale,
ma ci tiene a farmi sapere che si considera soprattutto "fotografa concettuale"
e mi manda il link del suo sito. Vi vedo sfilare ragazze truccate come mignotte,
uomini che indossano una maschera di caprone, corpi ai quali ha innestato un
paio d'ali con Photoshop. Mancano solo le riproduzioni delle sue
radiografie, e poi il quadretto è completo... Mi annoio
parecchio a percorrere questa galleria di foto inutilmente decorative, ma mi
deprimo ancora di più a leggere quel che scrive: il suo quartiere in cui tutti
si conoscono (ogni parigino vi dirà la stessa cosa, perfino
quello che abita attaccato al Forum des Halles), gli
amici (tutti artisti come lei, naturalmente), la sua pagina Myspace, la sua
passione per gli oggetti riciclati,
Sophie Calle, la voglia di vivere storie «libertine e leggere», i giri in bici
per la città. Verso la fine della nostra chat, sono stupito che Natacha
corrisponda con tanta precisione al cliché della parigina votata all'Artismo.
Eppure tutto rientra come per miracolo nelle
caselle: si definisce di sinistra (ovviamente ha pianto il
giorno dell'elezione di Sarkozy) e compra delle Nike
da centocinquanta euro. Esige un'indipendenza intellettuale, ma è lo stato a
sganciarle l'appartamento dove concepisce le sue merdate. Quante ne ho
incontrate, di tipe come lei, da quando vivo a Parigi? Ragazze
che mi hanno ripetuto con la massima serietà le medesime stronzate imparate a
memoria? Almeno qualche
dozzina, nei bar di Ménilmontant e di Abbesses. Nauseato da tanti luoghi comuni
"artistici", verso le cinque del mattino decido di porre fine a questa
sterilissima conversazione. Le scrivo che il suo lavoro mi
sembra assolutamente innovativo, che lei è un'artista
come se ne vedono poche in giro, oltre che una ragazza affascinante! Ne è
lusingata.
I miei appuntamenti mi spingono lontano dai quartieri che prediligo: il declivio radioso di Ménilmontant con la sua veduta sull'infinito, le terrazze selvagge di Belleville e Pigalle, per quanto riguarda la riva destra. Saint-Sulpice e le Arene di Lutezia, per la sinistra. Spesso mi ritrovo in quartieri sconosciuti, misteriosi di notte, sorprendenti al risveglio. Nel corso dei miei incontri Parigi diventa una mappa del paese amoroso fatta di ricordi malinconici, esaltanti o squallidi. Baciare Chloé davanti alla stazione del metrò Riquet, sulla tetra avenue de Flandres, e bere le sue lacrime che scivolano su una pelle di un candore già offuscato nel ricordo. Lasciare di corsa l'appartamento di Annabelle, scazzato per la nottata in bianco, e trovarmi di colpo circondato da una folla di ciechi, all'uscita del metrò Duroc. Schivare i loro bastoni indecisi e seguirli, incuriosito, fino all'ingresso di un centro di accoglienza per non vedenti. Svegliarmi accanto a Bénédicte che dorme ancora, un mattino di temporale, nel suo monolocale a Villiers. Con le dita ancora impregnate del suo odore, sedermi davanti al computer per sollecitare due o tre sconosciute indecise. Fissare qualche appuntamento. Poi scendere a comprare due croissant.
Poco importa, in fin dei conti, che alla tipa che contatto piaccia o meno
In tbe mood for love,
Lou Reed o Apollinaire. Mi è sempre sembrato estremamente
noioso elencare i propri gusti. Quasi altrettanto noioso che ascoltare i gusti
degli altri. Per inciso, mi accorgo che monologo anche quando rispondo a qualche
domanda. Non mi lascio mai veramente toccare dalle
parole che mi arrivano, non abbasso mai la guardia,
non mi svelo mai. Vado verso l'altro lasciando da parte me stesso. Concedo
pochissimo. Racconto il mio
passato in maniera fredda, quasi clinica. Oppure elusiva e fantasiosa. Quando ne
ho l'occasione scopo avidamente, ma come un autistico.
È in una camera d'albergo disperatamente vuota,
lontano da Parigi e dalle sue distrazioni mondane, che
il protagonista di
Mon corps et moi
si rende conto della gravità della sua situazione: è assolutamente incapace di
restare da solo. Gli altri tornano continuamente
a perseguitarlo come spettri rumorosi e ostinati.
Fine ottobre: mentre vivo parecchie storie in contemporanea, inizio a
capire, da certe allusioni spigolate nelle reazioni ai miei post, che sul sito
godo di una pessima reputazione. Soprattutto per via di
Sono proprio sbagliato,
un post che descrive diversi incontri immaginari, e provoca un putiferio di
conseguenze incresciose. Il giorno dopo la sua pubblicazione,
infatti, Carolíne, una ragazza che frequento da appena una settimana, mi lascia
un messaggio rabbioso sulla segreteria telefonica rimproverandomi di averla
citata. Fra i commenti, un tizio occhialuto che assomiglia a un dipendente
statale inacidito mi rinfaccia le
mie imperdonabili gaffe: esecrazione del Canal Saint-Martin e della rue
Oberkampf, due dei quartieri più
alla moda di Parigi, vantata insensibilità per l'arte cinematografica, disprezzo
ostentato per la psicanalisi.
La tendenza, da parte degli utenti del sito, a prendere
tutto alla lettera mi lascia interdetto. Si direbbe che
considerino la prima persona singolare come sinonimo di confessione. Come se
avessi davvero voglia di
confessarmi in pubblico, di svelare i retroscena del
mio disastro. Sembrano ignorare che, quando fa capolino in un testo, l'"io" è
sempre e soltanto un aguzzino di fantasmi.
Scrivo nella penombra, con le tende tirate e la musica in sottofondo. Non ci sono più stagioni. Pranzo e ceno davanti allo schermo, senza quasi vedere quel che mangio. Navigo tra narcosi ed estasi, tra veglia e sogno. | << | < | > | >> |Pagina 54Tamponi usati, orecchini, creme per il viso, un paio di occhiali da sole, qualche braccialetto, un numero indefinito di elastici per i capelli, una canottiera viola, due mutandine sporche, una borsetta color oro, un orologio: oggetti che attestano il passaggio di tutti questi fantasmi lascivi. La reliquia che scopro sotto il letto o vicino al rubinetto del bagno di solito non mi dice niente. Non riesco ad associarla a un viso. La cosa mi lascia d'altronde perfettamente indifferente. Sono costretto a cambiare le lenzuola almeno due volte alla settimana. Macchie dappertutto, odori di mestruo e sperma. Seduto sulla panca della lavanderia, passo una mezz'ora buona a spedire sms, a rispondere, a programmare appuntamenti.
Il sangue va via a fatica, e mai del tutto, dalle mie
mutande. Come certi ricordi che il tempo ha scurito.
Come fare per non sbagliarmi con i nomi delle mie
amanti? All'inizio le chiamo senza distinzione "cagnetta". Ma, siccome il
nomignolo non piace a tutte, ripiego su un più dolce e generico "Tesoro", che ha
il merito di strappare qualche sorriso.
«La mia infelicità deriva dal fatto di aver creduto
che tutto sarebbe stato più semplice se avessi trasformato in oggetti le persone
che mi attiravano.» L'intuizione di Crevel sembra calzare a pennello con ciò
che sto vivendo. In effetti, non è possibile semplificare. Mai. Perché, anche se
considero l'altro un semplice oggetto di piacere, un pedone da muovere a
mio piacimento, uno sfogo alla solitudine, il vuoto
che ho dentro non fa che aumentare, come un'eco
acuta che diventa sempre più stridente fino a bucarmi i timpani.
Notti intere passate davanti allo schermo per liberarmi di me e farla finita
con le rovine del passato. Con le sue icone già lontane.
«Lasciami in pace. Marie.»
Le mie storie finiscono spesso in maniera brutale,
via mail o addirittura via sms. Vengo eliminato. Non
ho sentimenti né, ancor meno, tempo da concedere alle rapide scottature che mi
attraversano per un
attimo e cicatrizzano senza bisogno di spiegazioni.
Il discutibilissimo vantaggio di vivere più storie parallele consiste nel non
viverne nessuna a pieno. Mi
ritrovo nella comoda e sgradevole posizione del
narratore de
Le ragazze da marito
di Montherlant, il quale, assalito dalle profferte di ammiratrici esaltate, non
può fare altro che mostrarsi spietato serbando un distacco pressoché assoluto
nei loro confronti.
Ho la sensazione di poter riprodurre all'infinito la
vertigine della scoperta e di non vivere in fin dei conti
nient'altro che abbozzi di relazioni. Inizi che deflagrano e si spengono qualche
istante dopo. Non una storia
che si forma col suo lento alfabeto di emozioni, ma
una specie di epilessia sentimentale che posso controllare a colpi di mail.
Nell'eccitante galleria dei possibili
non trovo il tempo per costruire. Resto sulla soglia
della storia senza mai entrarvi del tutto. I rari volti
che mi commuovono sono quelli che non riesco a trattenere.
Rivedo talvolta, come in sogno, il tatuaggio che istoria la schiena di Irène: un uccello sacro della mitologia cinese, col becco nero semiaperto e minaccioso, le ali ampiamente spiegate. Passiamo lunghe serate nell'unico bistrot aperto della Mouzaïa a infischiarcene di tutto, a parlare delle nostre infanzie e a ordinare da bere. Quando una sera la guardo camminare davanti a me in un vicolo che odora di tigli, penso che mi piacerebbe partire con lei. Lontano. Ma Irène sparisce di colpo una settimana dopo, per via di un messaggio mal interpretato. «Il dio degli incontri mi aveva ingannato un'altra volta» scrive Crevel. | << | < | > | >> |Pagina 58Spessissimo, la ragazza che ho di fronte mi spiega che si è iscritta sul sito per semplice curiosità, che non sa di preciso cosa sta cercando e che vedrà nel corso degli incontri. Questa esplicita vaghezza mi consente di approfittare della situazione, e in particolare con le donne – e sono parecchie – che escono da una storia lunga, complicata, quasi sempre traumatica. E che «non sanno a che punto sono della loro vita». Qualche volta racconto alla mia interlocutrice che mi sono iscritto con un intento puramente sociologico; questi siti stanno modificando i comportamenti della gente, è un fenomeno interessantissimo che è indispensabile comprendere. Ed è vero che a forza di ascoltare tutte le sere nuove storie, trascinato nel vociferare incessante intorno agli incontri internet, incomincio a farmi la mia idea sulla questione. Un'idea poco lusinghiera, che evito di esporre. D'altra parte, continuo a prendere appunti disordinatamente su pezzi di carta che ricopio sull'agenda appena arrivato a casa. Quando, a un primo appuntamento, una tipa mi trova "troppo sensibile", capisco che il seguito non promette niente di buono. Dimentico senza problemi le donne che, per una ragione o per l'altra, non rispondono alle mie mail. A volte vengo messo in "lista nera". Il mio approccio non è piaciuto, o forse ho insistito troppo: per quanto provi a ricontattare la ragazza, la sua pagina resta inaccessibile. Cala il silenzio. Le donne sono per me un presente che è già memoria. Mi segno questa frase su un foglietto che ritroverò mesi dopo, semplice e minaccioso, sotto una pila di libri in un angolo della mia camera.
Nelle sere in cui non ho appuntamenti, faccio sfilare
sullo schermo le foto pornografiche delle mie amanti e
le rifotografo soffermandomi su certi dettagli che ingrandisco. Così facendo
allontano quei seni conturbanti in un'immagine bluastra, picchiettata di
polvere, astratta. Mi sembra di riconoscervi la colorazione stessa della
memoria, la pellicola finalmente inoffensiva del tempo.
L'incapacità di vivere a pieno il presente – e soprattutto di comprenderlo –
è la natura stessa del collezionista.
Ophélie ha vissuto dieci anni a Dublino. Per campare faceva la saltimbanca
nelle vie del centro, e di
notte si esercitava nei centri sociali. Rientrata a Parigi,
ha trascorso un anno intero chiusa nei suoi nove metri
quadri, in rue la Vieuville, a nutrirsi di cibi in scatola,
a giocare con il suo criceto e a fumare spinelli tutto il
giorno. Sta finendo di scrivere – a quanto pare – un
misterioso
Trattato dell'uscita di scena
che non vuole assolutamente farmi vedere.
L'immensa fatica che rappresenta il fatto di entrare, anche solo per una
notte, nella foresta psichica di qualcun altro.
Inevitabilmente, mi imbatto in veri casi clinici.
Claude, quarantadue anni, psicanalista. Sulle foto,
assume pose da attrice tedesca degli anni Trenta.
Mi racconta che sta scrivendo un romanzo. Ha pure
composto una canzone in italiano (ma perché una
sola?). Con una vocina strascicata, mi propone di
andare al cinema, ma, dopo tre quarti d'ora al telefono, non siamo ancora
riusciti a metterci d'accordo su quale film andare a vedere. Claude vorrebbe
spingermi verso un baratro antonioniano. Le spiego senza mezzi termini che
considero Antonioni il regista più stracciacazzi della sua generazione. E le
strappo un estenuato «ah sì?». Allora si mette a
parlarmi di oscuri documentari vietnamiti, di sale
sperdute nel sud di Parigi. Riattacco con una scusa
qualunque, dopo averle promesso di richiamarla
più tardi. Mi ha sfinito: per due ore non rispondo al
telefono. Nei messaggi che mi lascia sulla segreteria, disdice l'appuntamento
per la sera, perché «ormai è troppo tardi», ma mi invita il giorno dopo a
una riunione buddista a Saint-Michel. Si raccomanda di non chiamarla «sul
cellulare, ma sul fisso», perché abita ancora dal suo ex; e si corregge subito
dopo: «non sul fisso, ma sul cellulare!». Il senso
dell'umorismo degli psicanalisti è decisamente involontario.
Mi piace regalare un libro, in segno di benvenuto
nella mia vita, a una ragazza che mi interessa particolarmente. È sempre lo
stesso,
Dora Bruder
di Modiano, un romanzo che racconta la ricerca di un fantasma.
Depilazione a biglietto di metrò o foresta amazzonica; alla brasiliana o all'americana, completamente rasata o quasi (solo una strisciolina per dissipare qualunque sospetto d'infanzia), biondo scura o castano nostalgica, nerissima o rossiccia profumata. Una tatuata (scorpioncino), un'altra bucata da un piercing. Fiche dalle labbra spalancate che mi sussurrano ninnenanne equivoche mentre la mia erezione viene meno e, irresistibile, arriva il sonno. Ascoltando voci di sconosciute al telefono (quella di Lucie, per esempio, che mi racconta la sua ultima, «allucinante» seduta d'analisi), disegno folti triangoli sulle lettere di sollecito che la banca mi manda inutilmente. Ne schizzo di tutti i tipi, in serie, distrattamente. La mia mano sembra calamitata da una idea fissa. Risultato: un mucchio ingombrante di scarabocchi osceni che sono costretto a ficcare nel cestino ogni qual volta ricevo una visita. Del resto, non è che il disegno sia proprio il mio forte. | << | < | > | >> |Pagina 67Undici anni, un sorriso inquieto e i seni che spuntano già, Zoé, la figlia di Catherine, sembra contentissima di conoscermi. Nata con i telefoni portatili e le tastiere dei computer, passa tutti i pomeriggi a chattare con le amiche. Padroneggia perfettamente il balbettio grafico che ha sostituito, negli sms e nelle mail, il francese che viene stampato ancora nei libri, ma che i giovani della sua generazione non sanno più scrivere. Sono meravigliato di constatare come, su pointscommuns.com, le ragazze di diciannove o vent'anni deformino una lingua che è, per loro, insieme sottomessa e straniera: «Ank a me piace mlt leggere ma qnd dici k è il tuo mestiere ks fai esattam?».
Non assomiglia affatto alla lingua che ho imparato
nei libri di Diderot o di Pierre Herbart nell'inverno
dei miei ventidue anni, quando arrivai la prima volta
in Francia. E che migliora con l'aiuto di ragazze più
ubriache di me nelle serate senza freni dell'epoca. Ma
neanche a quella di Crevel, che certi giorni leggo a
voce alta come per assicurarmi che esista davvero.
Quella sua lingua dai costrutti quasi onirici, che aveva
affascinato Breton e Pound, sembra appartenere a un
tempo ormai remoto. Se fossi nato con internet come
Zoé, probabilmente non avrei mai aperto un libro.
Me ne sarei allegramente fregato dei compiti, e avrei
consumato l'adolescenza a dialogare in chat con interlocutori all'altro capo del
mondo. Mi sarei innamorato di una ragazza di Copenhagen o di Cordova, sarei
salito su un treno per andarla a trovare, anche senza
un soldo in tasca. Mia madre avrebbe chiamato la polizia. Una volta passate al
setaccio tutte le mie comunicazioni virtuali, gli sbirri mi avrebbero trovato
facilmente. E la solitudine dell'adolescenza, la più acre
ricchezza che la vita ci offre, sarebbe stata irrimediabilmente diluita da
questa droga invincibile.
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