Copertina
Autore Giulio Minghini
Titolo Febbre
EdizionePiemme, Milano, 2011 , pag. 138, cop.fle.sov., dim. 13x21x1,5 cm , Isbn 978-88-566-1343-8
OriginaleFake
EdizioneAllia, Paris, 2009
TraduttoreGiovanni Pacchiano
LettoreGiangiacomo Pisa, 2011
Classe narrativa italiana , citta': Parigi , erotica
PrimaPagina


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Mi sono vomitato, mi sono creato, trasformato, risputato, e più volte. Questa era la mia dose: cinque bottiglie di Wyborowa alla settimana, tre pacchetti di Marlboro senegalesi al giorno, due Prozac. Lexomil per dormire, tre quarti. L'ultimo quarto appena sveglio, un attimo prima di accendere il computer. Avevo il viso rovinato dai graffi, mi si squamava la pelle: allo specchio, una maschera oscena faceva finta di sorridermi. Le mie unghie assomigliavano a delle virgole, e sanguinavano. Appena sveglio, controllavo la posta. Leggere, rispondere, sollecitare, tender trappole, mentire ancora. Trapassare con lo sguardo foto un po' sfocate, cercare di indovinare le intenzioni nascoste dietro annunci vuoti o maliziosi, annunci che dicevano troppo o troppo poco. Ero nudo davanti allo schermo, sudavo, volevo andare più in fretta, non mangiavo quasi più. Per reggere mandavo giù uova sbattute con un po' di pepe. E tenevo botta. Nessuno me l'aveva detto che c'era un'entrata a questo labirinto, ma forse nessuna uscita, e al centro nessun mostro.

O forse, sì, uno, ma davvero troppo difficile da uccidere, perché moltiplicato dagli specchi.


Era stata Anne a parlarmi per la prima volta di pointscommuns.com. Andavo a letto con lei quando aveva sedici anni e abitavo a Batignolles, poi per un pezzo c'eravamo persi di vista.

«Un sito d'incontri,» mi aveva spiegato «ma diversissimo dagli altri. Un sito che si basa sulle affinità culturali, sui gusti condivisi.» Era riuscita a convincermi: «Mica puoi continuare a giocare a scacchi tutte le notti come un autistico, no? Dovresti uscire un po', conoscere gente...».

Quel pomeriggio, al tavolino del bar di rue Claude Bernard, mi era parso di scorgere nel suo sguardo una dolcezza mista a compassione. «Basta iscriversi, vedrai...» La via era quasi deserta. Solo qualche passante si attardava davanti alla vetrina della libreria di fronte; e ripenso alle gambe bianche di Anna, alla sua gonna troppo stretta. Dire che non sapevo cosa mi aspettava, in quei primi giorni di settembre, è dir poco.


Due settimane prima, Judith non si era presa la briga di rispondere a un messaggio di routine che le avevo spedito prima che partisse per il fine settimana da un'amica in campagna. Tipo: «Mi mancherai». Quasi subito dopo aver mandato il messaggio, avevo avuto la netta sensazione che le cose non potevano più continuare così: tutto andava a catafascio. Il mese d'estate trascorso nella casa di suo padre, il Grande Filosofo, nel Sud, aveva dato il colpo di grazia alla nostra storia. Ci eravamo massacrati. Eravamo riusciti a trasformare un mese di vacanza in un incubo interminabile. Judith non sopportava più la mia sbandierata pigrizia, i miei intempestivi accessi di onanismo, la mia mancanza di progetti con lei. Quando provavamo a fare l'amore, dopo una partita a scarabeo sul tavolo mal rischiarato del giardino (perdevo in francese, ma perdevo anche in italiano, la mia lingua madre), riuscivamo a stento a darci un po' di piacere. La mattina, lei se ne stava in silenzio davanti al suo caffè, leggendo il giornale. L'afa era soffocante. Non avevamo più niente da dirci. Eppure, due settimane dopo il nostro ritorno a Parigi, quando mi disse che voleva una pausa di riflessione, sentii che qualcosa si spezzava in me. Stavano per finire tre anni di vita in comune, così, di colpo.


In quel mese di settembre le notti erano fresche. Scendevo per la rue Ménilmontant con lo sguardo assente. Davanti al banco di un bar qualunque mi accendevo una sigaretta, poi, con il mozzicone, ne accendevo un'altra, gli occhi fissi sui vecchi poster di cantanti arabe che tappezzavano le pareti (erano splendide e desuete. Il tempo doveva averle fatte fuori da un pezzo, riflettevo). Certe sere chiamavo qualche amico che, troppo spesso, non aveva tempo. Quando una notte scoppiai in lacrime davanti a Julien e Bernardo disorientati, la cameriera, una vecchia cabila dai capelli tinti d'henné, mi riempì fino all'orlo un bicchiere di cognac, senza fare commenti. Ero a pezzi. La mattina mi svegliavo troppo presto, con lacci invisibili che mi stringevano il collo e un silenzio acuto nei timpani.

    «Purché spariscano quel tuo sguardo fisso,
    la tua parola precisa, il tuo sorriso perfetto.
    Purché accada qualcosa che d'improvviso ti cancelli,
    una luce accecante, un bagliore di neve.»

Avevo mandato a Judith queste parole di una canzone di Silvio Rodríguez sperando che capisse. Ma cosa doveva capire? Non riuscivo ad ammettere che la sua decisione era la migliore. Che rappresentava una liberazione per entrambi.

Una sera, completamente sbronzo dopo aver assistito alla presentazione di un libro, avevo tradito la promessa di non parlarle più, di non scriverle più. Il telefono aveva suonato più volte nel vuoto. Finalmente la sua voce, imbronciata. Stava bevendo un aperitivo con un amico, la disturbavo. «Solo cinque minuti» le avevo assicurato con voce malcerta. Mi aveva ascoltato per mezz'ora, in silenzio, straparlare di bambini mai nati e di case che avremmo potuto ristrutturare dalle parti di Béziers. A un certo punto mi aveva interrotto con fermezza: «Tra di noi non può funzionare». Quella telefonata aveva scatenato l'esplosione definitiva. Appena sveglio, aprivo il frigo e mi servivo una vodka. E, qualche giorno dopo, in uno stato di avanzata ubriachezza, avevo chiamato Anne. Che si era preoccupata.


Fu l'inizio di una notte bianca che sarebbe durata un anno intero, trasformando, con il bagliore dei suoi pixel, le mie veglie e i miei amplessi.

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Quando, in chat o a un appuntamento, mi vengono rivolte domande sull'Italia, rispondo educatamente, ma senza la minima affabilità. Quasi tutte le ragazze sono state a Roma, a Firenze, a Venezia. Stravedono per la Toscana. E per la «cucina italiana», naturalmente. Mi cascano le braccia. Non appena spiego la mia intenzione di non tornare sui miei passi, di non vivere mai più in Italia e di mettervi piede il meno possibile, la mia interlocutrice sembra sinceramente perplessa. Ma cosa dire di un paese che ho mollato con un gesto tanto brutale quanto doloroso?

Da quando, dodici anni fa, mi sono stabilito a Parigi ho dovuto sorbirmi tutti i luoghi comuni sugli italiani. Dalla pasta alla mamma, dalla mafia al latin lover, dalla Vespa alla dolce vita. Questi stereotipi mi fanno pensare a un'altra Italia, indelebile e un po' meno pittoresca: quella della mia infanzia e della mia adolescenza. Un paese governato dal peggio. L'Avanguardia stessa del Peggio: abolizione di qualsivoglia discorso critico, dilagante volgarità dei costumi, corruzione generalizzata e sistematica, ignoranza eletta a regola, culto scandaloso del denaro, disprezzo ostentato delle idee e dell'intelligenza, moralismo rancido.

«L'Italia? Bisognerebbe chiuderla, o magari venderla» mi capita di buttare lì, nel corso della conversazione. Qualche volta racconto che sono nato in un paese del Nord Italia invaso da una nebbia violetta cinque mesi su dodici e soffocato in estate da un'afa mortifera. «Gli abitanti di quella sperduta contrada sono il frutto di secoli di disinvolti incesti. Sono casi stranissimi, talmente aberranti che persino Lynch avrebbe qualche scrupolo etico a filmare...»

E che cosa dire di quel tumore dallo strano copricapo bianco che gesticola tutte le domeniche da un balcone del Vaticano? Nessuno, in Italia, sembra prendere seriamente in considerazione la salutare opportunità di asportarlo.

O del porco cupido che governa i miei compatrioti?

Ho lasciato senza rimpianto quel manicomio in fiamme.


Nella propria lista di preferenze culturali è possibile mettere solo libri e cd che si possono acquistare su alapage.com, cliccando sui nomi degli autori o sui titoli. In letteratura, mentre un buon numero di iscritti inserisce Desproges, Paulo Coelho o Beigbeder, io scelgo Daniil Charms (nel genere comico metafisico), Albert Cossery (maestro di pigrizia) e Jules Renard (il suo diario è il mio libro preferito). Con perplessa soddisfazione constato che nessun membro del sito ha scelto i miei stessi autori.


Fra i miei gusti musicali non mi è possibile includere Concetta Barra, visto che i dischi di questa vecchia sciantosa napoletana in Francia non sono venduti. Mi limito dunque ai CCCP, un gruppo che, verso la metà degli anni Ottanta, si definiva "punk islamico" e che si sciolse al momento della caduta del Muro di Berlino. Ricordi di giovinezza.

Per il cinema, metto Georges Méliès.


Da qualche mese sono stipendiato da una casa editrice italiana per tradurre nella mia lingua Mon corps et moi di René Crevel. Scritto all'età di venticinque anni da questo surrealista poco ortodosso, il libro racconta alcuni giorni della vita di un uomo che vuol starsene da solo a ogni costo, ma che non riesce a trovar sollievo, né, tanto meno, perfezione nella solitudine. È una meditazione sul peso ossessivo dei ricordi. Ed è pure qualcos'altro, che ancora mi sfugge. Devo consegnare la versione prima dell'estate. Questo lavoro mi lascia parecchio tempo libero, e altrettanta angoscia. Come il protagonista del romanzo che, la sera, per sfuggire alle proprie ossessioni, va al cabaret dove danza la sua amante, io accendo il computer ed esco da me stesso.


La foto di Florica è irresistibile. Viso dai tratti delicati, labbra ben disegnate e capelli arruffati che le nascondono un po' gli occhi. Dopo due mail senza risposta, capisco che non è abbonata. L'unica soluzione è quella di mandarle il mio indirizzo di posta elettronica, e sperare che prenda l'iniziativa di contattarmi. Nell'attesa, le mando una serie di mail una più stravagante dell'altra. In una, ricopio la prima pagina del Piccolo amico di Paul Léautaud, che le presento come «il mio romanzo d'amore preferito». Una settimana dopo mi risponde con parole inaspettate. Ha ventun anni, è nata e cresciuta in Québec, ma è di origine rumena. Vive a due passi dal carrefour de l'Odéon in una soffitta, dove, mi dice, la notte fa un freddo cane. L'appuntamento è fissato per un mercoledì sera di ottobre, in Place Saint-Sulpice. La aspetto dietro una colonna della chiesa, nascosto nel buio. Finalmente vedo apparire la sua sagoma. La trovo diversa dalla foto: un viso banale, la pelle come sbiadita. Da Chez Georges, rimane misteriosamente silenziosa. Benché provi a farla parlare con tutte le domande possibili, lei mantiene un'aria da sfingetta. Qualche parola appena, quasi mormorata. È giornalista per un mensile di Montreal, a quanto pare. Cosa scrive? Non lo saprò mai. Quando estraggo dalla borsa le Massime di Chamfort per regalargliele, si mostra dubbiosa. Sfoglia il libro con una smorfia scettica prima di restituirmelo qualche minuto dopo senza il minimo garbo. L'atmosfera si distende quando mi alzo per andare a ordinare il mio quinto bicchiere e l'afferro improvvisamente per il collo, come per farla ragionare. Questo gesto brusco la spiazza. Ne approfitto per chiuderla in un bacio, sordo alle voci concitate dei giocatori di scacchi ai tavoli vicini.

«Sono un'attrice» finisce per confessarmi a letto.

Nel corso delle settimane seguenti vado a trovarla una decina di volte. Non abita affatto in una soffitta come mi aveva detto, ma in un monolocale estremamente pulito e ordinato, nel palazzo della rue Mazarine dove i nazisti, una notte del 1944, erano passati a svegliare Robert Desnos. Svegliarlo alla morte.

Florica non fuma, e a quanto pare non gradisce più di tanto l'ebbrezza assoluta provocata dai superalcolici. Ha un corpo minuto di cui si prende cura stando attenta a pesare i cibi su una bilancia posta di fianco al lavandino. Il suo culo sembra meno perbenino e, quando forzo delicatamente l'ingresso del buchetto, le si dipinge in volto un sorriso beato. Mi racconta che, quando viveva ancora a Montreal, il suo primo amore era un fanatico di sadomasochismo. Dopo quattro anni di relazione, Florica aveva deciso di non sposarlo quando lui aveva preteso un contratto (il tal giorno le tali mutandine, il tal gesto alla tal ora, la tale parolaccia nel tal momento, un anello all'ano ecc.). Educata al sesso da queste esperienze estreme, fare l'amore come tutti la lascia quasi sempre insoddisfatta.

Come ogni attrice che si rispetti, Florica è torturata da un'ambizione feroce. Subito dopo il sesso, angosciatissima, mi rivolge domande del tipo: «Pensi che sia utile andare a letto per sfondare?» o: «Credi che dovrei togliere un h al mio cognome?». Prudente, rispondo sempre sì, come mi hanno insegnato da bambino al mio paese (mai contraddire i matti!). Florica è inoltre rósa da una gelosia arrogante che si fa sempre più intensa nel corso dei nostri incontri. Quando scopre nel mio bagno un capello troppo biondo o una salviettina struccante che per distrazione non ho fatto sparire, scoppia in crisi che rasentano l'isteria. Ben presto sarà lei a mollare la presa. La nostra storia durerà due mesi.


Questo nuovo modo di conoscere donne incomincia ad affascinarmi. Una lista di schede più o meno particolareggiate, di foto più o meno recenti o nitide, "relazioni auspicate" piuttosto vaghe: «Amore, uscita, dialogo, altro».

Al primo appuntamento arrivo sempre in anticipo. Mi piace assistere all'apparizione della ragazza che sembra saltar fuori dal computer come per magia. Quando le vado incontro, e una lieve incertezza lascia posto al breve sforzo di riconoscimento reciproco, l'alias cade come una maschera e il gioco può incominciare. Per prima cosa studio con discrezione le sue forme, l'intensità dello sguardo, come si muove. Devo accordarmi il prima possibile al diapason della sua conversazione. Ascoltarla, o almeno far finta. Ravvivare continuamente il dialogo. Raccontare la mia storia. Sempre la stessa. È raro che cali subito le mie carte. Visto che non ho quasi niente in mano, posso solo bluffare: sto a vedere come butta.

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Quando Alessandra, pubblicitaria rampante, entra per la prima volta in camera mia, noto che resta a bocca aperta davanti ai libri che tappezzano le pareti e sono ammucchiati un po' ovunque sul pavimento. Questo arredamento mette in un insolito stato di eccitazione le ragazze che conosco sul sito. L'alibi culturale come fattore afrodisiaco. Scarabocchio la frase su un pacchetto di sigarette mentre lei è in bagno. Quando esce e mi chiede se mi piace Amélie Nothomb, ho già incominciato a russare.

Scopro che parecchi membri di pointscommuns.com sono affiliati alla temibile setta dell'Artismo Parigino. Natacha, una trentina d'anni, è dipendente statale, ma ci tiene a farmi sapere che si considera soprattutto "fotografa concettuale" e mi manda il link del suo sito. Vi vedo sfilare ragazze truccate come mignotte, uomini che indossano una maschera di caprone, corpi ai quali ha innestato un paio d'ali con Photoshop. Mancano solo le riproduzioni delle sue radiografie, e poi il quadretto è completo... Mi annoio parecchio a percorrere questa galleria di foto inutilmente decorative, ma mi deprimo ancora di più a leggere quel che scrive: il suo quartiere in cui tutti si conoscono (ogni parigino vi dirà la stessa cosa, perfino quello che abita attaccato al Forum des Halles), gli amici (tutti artisti come lei, naturalmente), la sua pagina Myspace, la sua passione per gli oggetti riciclati, Sophie Calle, la voglia di vivere storie «libertine e leggere», i giri in bici per la città. Verso la fine della nostra chat, sono stupito che Natacha corrisponda con tanta precisione al cliché della parigina votata all'Artismo. Eppure tutto rientra come per miracolo nelle caselle: si definisce di sinistra (ovviamente ha pianto il giorno dell'elezione di Sarkozy) e compra delle Nike da centocinquanta euro. Esige un'indipendenza intellettuale, ma è lo stato a sganciarle l'appartamento dove concepisce le sue merdate. Quante ne ho incontrate, di tipe come lei, da quando vivo a Parigi? Ragazze che mi hanno ripetuto con la massima serietà le medesime stronzate imparate a memoria? Almeno qualche dozzina, nei bar di Ménilmontant e di Abbesses. Nauseato da tanti luoghi comuni "artistici", verso le cinque del mattino decido di porre fine a questa sterilissima conversazione. Le scrivo che il suo lavoro mi sembra assolutamente innovativo, che lei è un'artista come se ne vedono poche in giro, oltre che una ragazza affascinante! Ne è lusingata.


I miei appuntamenti mi spingono lontano dai quartieri che prediligo: il declivio radioso di Ménilmontant con la sua veduta sull'infinito, le terrazze selvagge di Belleville e Pigalle, per quanto riguarda la riva destra. Saint-Sulpice e le Arene di Lutezia, per la sinistra. Spesso mi ritrovo in quartieri sconosciuti, misteriosi di notte, sorprendenti al risveglio. Nel corso dei miei incontri Parigi diventa una mappa del paese amoroso fatta di ricordi malinconici, esaltanti o squallidi.

Baciare Chloé davanti alla stazione del metrò Riquet, sulla tetra avenue de Flandres, e bere le sue lacrime che scivolano su una pelle di un candore già offuscato nel ricordo. Lasciare di corsa l'appartamento di Annabelle, scazzato per la nottata in bianco, e trovarmi di colpo circondato da una folla di ciechi, all'uscita del metrò Duroc. Schivare i loro bastoni indecisi e seguirli, incuriosito, fino all'ingresso di un centro di accoglienza per non vedenti. Svegliarmi accanto a Bénédicte che dorme ancora, un mattino di temporale, nel suo monolocale a Villiers. Con le dita ancora impregnate del suo odore, sedermi davanti al computer per sollecitare due o tre sconosciute indecise. Fissare qualche appuntamento. Poi scendere a comprare due croissant.

Poco importa, in fin dei conti, che alla tipa che contatto piaccia o meno In tbe mood for love, Lou Reed o Apollinaire. Mi è sempre sembrato estremamente noioso elencare i propri gusti. Quasi altrettanto noioso che ascoltare i gusti degli altri. Per inciso, mi accorgo che monologo anche quando rispondo a qualche domanda. Non mi lascio mai veramente toccare dalle parole che mi arrivano, non abbasso mai la guardia, non mi svelo mai. Vado verso l'altro lasciando da parte me stesso. Concedo pochissimo. Racconto il mio passato in maniera fredda, quasi clinica. Oppure elusiva e fantasiosa. Quando ne ho l'occasione scopo avidamente, ma come un autistico.


È in una camera d'albergo disperatamente vuota, lontano da Parigi e dalle sue distrazioni mondane, che il protagonista di Mon corps et moi si rende conto della gravità della sua situazione: è assolutamente incapace di restare da solo. Gli altri tornano continuamente a perseguitarlo come spettri rumorosi e ostinati.


Fine ottobre: mentre vivo parecchie storie in contemporanea, inizio a capire, da certe allusioni spigolate nelle reazioni ai miei post, che sul sito godo di una pessima reputazione. Soprattutto per via di Sono proprio sbagliato, un post che descrive diversi incontri immaginari, e provoca un putiferio di conseguenze incresciose. Il giorno dopo la sua pubblicazione, infatti, Carolíne, una ragazza che frequento da appena una settimana, mi lascia un messaggio rabbioso sulla segreteria telefonica rimproverandomi di averla citata. Fra i commenti, un tizio occhialuto che assomiglia a un dipendente statale inacidito mi rinfaccia le mie imperdonabili gaffe: esecrazione del Canal Saint-Martin e della rue Oberkampf, due dei quartieri più alla moda di Parigi, vantata insensibilità per l'arte cinematografica, disprezzo ostentato per la psicanalisi. La tendenza, da parte degli utenti del sito, a prendere tutto alla lettera mi lascia interdetto. Si direbbe che considerino la prima persona singolare come sinonimo di confessione. Come se avessi davvero voglia di confessarmi in pubblico, di svelare i retroscena del mio disastro. Sembrano ignorare che, quando fa capolino in un testo, l'"io" è sempre e soltanto un aguzzino di fantasmi.


Scrivo nella penombra, con le tende tirate e la musica in sottofondo. Non ci sono più stagioni. Pranzo e ceno davanti allo schermo, senza quasi vedere quel che mangio.

Navigo tra narcosi ed estasi, tra veglia e sogno.

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Tamponi usati, orecchini, creme per il viso, un paio di occhiali da sole, qualche braccialetto, un numero indefinito di elastici per i capelli, una canottiera viola, due mutandine sporche, una borsetta color oro, un orologio: oggetti che attestano il passaggio di tutti questi fantasmi lascivi. La reliquia che scopro sotto il letto o vicino al rubinetto del bagno di solito non mi dice niente. Non riesco ad associarla a un viso. La cosa mi lascia d'altronde perfettamente indifferente. Sono costretto a cambiare le lenzuola almeno due volte alla settimana. Macchie dappertutto, odori di mestruo e sperma. Seduto sulla panca della lavanderia, passo una mezz'ora buona a spedire sms, a rispondere, a programmare appuntamenti.


Il sangue va via a fatica, e mai del tutto, dalle mie mutande. Come certi ricordi che il tempo ha scurito.


Come fare per non sbagliarmi con i nomi delle mie amanti? All'inizio le chiamo senza distinzione "cagnetta". Ma, siccome il nomignolo non piace a tutte, ripiego su un più dolce e generico "Tesoro", che ha il merito di strappare qualche sorriso.


«La mia infelicità deriva dal fatto di aver creduto che tutto sarebbe stato più semplice se avessi trasformato in oggetti le persone che mi attiravano.» L'intuizione di Crevel sembra calzare a pennello con ciò che sto vivendo. In effetti, non è possibile semplificare. Mai. Perché, anche se considero l'altro un semplice oggetto di piacere, un pedone da muovere a mio piacimento, uno sfogo alla solitudine, il vuoto che ho dentro non fa che aumentare, come un'eco acuta che diventa sempre più stridente fino a bucarmi i timpani.


Notti intere passate davanti allo schermo per liberarmi di me e farla finita con le rovine del passato. Con le sue icone già lontane.


«Lasciami in pace. Marie.»

Le mie storie finiscono spesso in maniera brutale, via mail o addirittura via sms. Vengo eliminato. Non ho sentimenti né, ancor meno, tempo da concedere alle rapide scottature che mi attraversano per un attimo e cicatrizzano senza bisogno di spiegazioni. Il discutibilissimo vantaggio di vivere più storie parallele consiste nel non viverne nessuna a pieno. Mi ritrovo nella comoda e sgradevole posizione del narratore de Le ragazze da marito di Montherlant, il quale, assalito dalle profferte di ammiratrici esaltate, non può fare altro che mostrarsi spietato serbando un distacco pressoché assoluto nei loro confronti.


Ho la sensazione di poter riprodurre all'infinito la vertigine della scoperta e di non vivere in fin dei conti nient'altro che abbozzi di relazioni. Inizi che deflagrano e si spengono qualche istante dopo. Non una storia che si forma col suo lento alfabeto di emozioni, ma una specie di epilessia sentimentale che posso controllare a colpi di mail. Nell'eccitante galleria dei possibili non trovo il tempo per costruire. Resto sulla soglia della storia senza mai entrarvi del tutto. I rari volti che mi commuovono sono quelli che non riesco a trattenere.


Rivedo talvolta, come in sogno, il tatuaggio che istoria la schiena di Irène: un uccello sacro della mitologia cinese, col becco nero semiaperto e minaccioso, le ali ampiamente spiegate. Passiamo lunghe serate nell'unico bistrot aperto della Mouzaïa a infischiarcene di tutto, a parlare delle nostre infanzie e a ordinare da bere. Quando una sera la guardo camminare davanti a me in un vicolo che odora di tigli, penso che mi piacerebbe partire con lei. Lontano. Ma Irène sparisce di colpo una settimana dopo, per via di un messaggio mal interpretato.

«Il dio degli incontri mi aveva ingannato un'altra volta» scrive Crevel.

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Spessissimo, la ragazza che ho di fronte mi spiega che si è iscritta sul sito per semplice curiosità, che non sa di preciso cosa sta cercando e che vedrà nel corso degli incontri. Questa esplicita vaghezza mi consente di approfittare della situazione, e in particolare con le donne – e sono parecchie – che escono da una storia lunga, complicata, quasi sempre traumatica. E che «non sanno a che punto sono della loro vita». Qualche volta racconto alla mia interlocutrice che mi sono iscritto con un intento puramente sociologico; questi siti stanno modificando i comportamenti della gente, è un fenomeno interessantissimo che è indispensabile comprendere. Ed è vero che a forza di ascoltare tutte le sere nuove storie, trascinato nel vociferare incessante intorno agli incontri internet, incomincio a farmi la mia idea sulla questione. Un'idea poco lusinghiera, che evito di esporre. D'altra parte, continuo a prendere appunti disordinatamente su pezzi di carta che ricopio sull'agenda appena arrivato a casa.

Quando, a un primo appuntamento, una tipa mi trova "troppo sensibile", capisco che il seguito non promette niente di buono. Dimentico senza problemi le donne che, per una ragione o per l'altra, non rispondono alle mie mail. A volte vengo messo in "lista nera". Il mio approccio non è piaciuto, o forse ho insistito troppo: per quanto provi a ricontattare la ragazza, la sua pagina resta inaccessibile. Cala il silenzio.

Le donne sono per me un presente che è già memoria. Mi segno questa frase su un foglietto che ritroverò mesi dopo, semplice e minaccioso, sotto una pila di libri in un angolo della mia camera.

Nelle sere in cui non ho appuntamenti, faccio sfilare sullo schermo le foto pornografiche delle mie amanti e le rifotografo soffermandomi su certi dettagli che ingrandisco. Così facendo allontano quei seni conturbanti in un'immagine bluastra, picchiettata di polvere, astratta. Mi sembra di riconoscervi la colorazione stessa della memoria, la pellicola finalmente inoffensiva del tempo.


L'incapacità di vivere a pieno il presente – e soprattutto di comprenderlo – è la natura stessa del collezionista.


Ophélie ha vissuto dieci anni a Dublino. Per campare faceva la saltimbanca nelle vie del centro, e di notte si esercitava nei centri sociali. Rientrata a Parigi, ha trascorso un anno intero chiusa nei suoi nove metri quadri, in rue la Vieuville, a nutrirsi di cibi in scatola, a giocare con il suo criceto e a fumare spinelli tutto il giorno. Sta finendo di scrivere – a quanto pare – un misterioso Trattato dell'uscita di scena che non vuole assolutamente farmi vedere.


L'immensa fatica che rappresenta il fatto di entrare, anche solo per una notte, nella foresta psichica di qualcun altro.


Inevitabilmente, mi imbatto in veri casi clinici. Claude, quarantadue anni, psicanalista. Sulle foto, assume pose da attrice tedesca degli anni Trenta. Mi racconta che sta scrivendo un romanzo. Ha pure composto una canzone in italiano (ma perché una sola?). Con una vocina strascicata, mi propone di andare al cinema, ma, dopo tre quarti d'ora al telefono, non siamo ancora riusciti a metterci d'accordo su quale film andare a vedere. Claude vorrebbe spingermi verso un baratro antonioniano. Le spiego senza mezzi termini che considero Antonioni il regista più stracciacazzi della sua generazione. E le strappo un estenuato «ah sì?». Allora si mette a parlarmi di oscuri documentari vietnamiti, di sale sperdute nel sud di Parigi. Riattacco con una scusa qualunque, dopo averle promesso di richiamarla più tardi. Mi ha sfinito: per due ore non rispondo al telefono. Nei messaggi che mi lascia sulla segreteria, disdice l'appuntamento per la sera, perché «ormai è troppo tardi», ma mi invita il giorno dopo a una riunione buddista a Saint-Michel. Si raccomanda di non chiamarla «sul cellulare, ma sul fisso», perché abita ancora dal suo ex; e si corregge subito dopo: «non sul fisso, ma sul cellulare!». Il senso dell'umorismo degli psicanalisti è decisamente involontario.


Mi piace regalare un libro, in segno di benvenuto nella mia vita, a una ragazza che mi interessa particolarmente. È sempre lo stesso, Dora Bruder di Modiano, un romanzo che racconta la ricerca di un fantasma.


Depilazione a biglietto di metrò o foresta amazzonica; alla brasiliana o all'americana, completamente rasata o quasi (solo una strisciolina per dissipare qualunque sospetto d'infanzia), biondo scura o castano nostalgica, nerissima o rossiccia profumata. Una tatuata (scorpioncino), un'altra bucata da un piercing. Fiche dalle labbra spalancate che mi sussurrano ninnenanne equivoche mentre la mia erezione viene meno e, irresistibile, arriva il sonno. Ascoltando voci di sconosciute al telefono (quella di Lucie, per esempio, che mi racconta la sua ultima, «allucinante» seduta d'analisi), disegno folti triangoli sulle lettere di sollecito che la banca mi manda inutilmente. Ne schizzo di tutti i tipi, in serie, distrattamente. La mia mano sembra calamitata da una idea fissa. Risultato: un mucchio ingombrante di scarabocchi osceni che sono costretto a ficcare nel cestino ogni qual volta ricevo una visita. Del resto, non è che il disegno sia proprio il mio forte.

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Undici anni, un sorriso inquieto e i seni che spuntano già, Zoé, la figlia di Catherine, sembra contentissima di conoscermi. Nata con i telefoni portatili e le tastiere dei computer, passa tutti i pomeriggi a chattare con le amiche. Padroneggia perfettamente il balbettio grafico che ha sostituito, negli sms e nelle mail, il francese che viene stampato ancora nei libri, ma che i giovani della sua generazione non sanno più scrivere. Sono meravigliato di constatare come, su pointscommuns.com, le ragazze di diciannove o vent'anni deformino una lingua che è, per loro, insieme sottomessa e straniera: «Ank a me piace mlt leggere ma qnd dici k è il tuo mestiere ks fai esattam?».

Non assomiglia affatto alla lingua che ho imparato nei libri di Diderot o di Pierre Herbart nell'inverno dei miei ventidue anni, quando arrivai la prima volta in Francia. E che migliora con l'aiuto di ragazze più ubriache di me nelle serate senza freni dell'epoca. Ma neanche a quella di Crevel, che certi giorni leggo a voce alta come per assicurarmi che esista davvero. Quella sua lingua dai costrutti quasi onirici, che aveva affascinato Breton e Pound, sembra appartenere a un tempo ormai remoto. Se fossi nato con internet come Zoé, probabilmente non avrei mai aperto un libro. Me ne sarei allegramente fregato dei compiti, e avrei consumato l'adolescenza a dialogare in chat con interlocutori all'altro capo del mondo. Mi sarei innamorato di una ragazza di Copenhagen o di Cordova, sarei salito su un treno per andarla a trovare, anche senza un soldo in tasca. Mia madre avrebbe chiamato la polizia. Una volta passate al setaccio tutte le mie comunicazioni virtuali, gli sbirri mi avrebbero trovato facilmente. E la solitudine dell'adolescenza, la più acre ricchezza che la vita ci offre, sarebbe stata irrimediabilmente diluita da questa droga invincibile.

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