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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Valentino Parlato 5 I Dalla crisi del credito alla recessione 15 II Progresso o "rivoluzione passiva" 24 III In principio era Venezia 29 IV Una legge di natura 33 V Il nodo della continuità 38 VI La sconfitta alla Fiat 43 VII La crisi italiana 49 VIII La questione morale 57 IX L'inchiesta operaia e gli incontri con Togliatti 60 X Il capitalismo e lo Stato 73 XI L'economia del riarmo 81 XII Il "punto culminante" 86 XIII Verso l'unità del lavoro 92 XIV Per un nuovo "blocco storico" 99 Note 104 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Prefazione
di Valentino Parlato
1 Assolutamente tempestivo e utile questo agile scritto di Adalberto Minucci sulla crisi generale. Adalberto Minucci è da molti anni un attento osservatore degli andamenti dell'economia e della società italiana, ed è stato anche un importante dirigente del dissolto Pci, con base in quella città chiave dei destini del paese che è stata (forse lo è ancora) Torino. Tempestivo perché con il suo scritto interviene su una doppia crisi: del capitale e delle forze che dovrebbero essergli antagoniste. E non si può nemmeno ripetere le mort saisit le vif, perché è difficile capire chi sia il morto e chi sia il vivo. La prima metà dell'anno ha registrato fallimenti eccellenti di banche e società finanziarie, una caduta della produzione industriale, il dissolversi della miracolosa resurrezione della Fiat. L'avvenire davanti a noi è assai oscuro. Il capitale finanziario (rileggiamoci Hilferding) nel quale moneta produce moneta senza il passaggio attraverso la merce, e anche l'avvicendarsi dei manager ai padroni nella direzione delle società hanno reso estremamente pericoloso l'impegno nella gestione delle imprese. Ai fallimenti di banche e società finanziarie ha però corrisposto il risultato delle elezioni italiane di aprile ("Aprile il più crudele dei mesi" diceva il poeta): una clamorosa disfatta. Quasi che il capitalismo abbia scaricato la sua crisi sulle forze che si dicono antagoniste e abbia premiato le destre assurte al ruolo di società di assicurazione contro gli infortuni del capitale. La crisi generale, sulla quale insiste Minucci dovrebbe distinguersi dalle altre (il capitalismo cresce attraverso crisi periodiche) e segnare, in qualche modo, la fine o il superamento del capitalismo. Ma a proposito della crisi finale la storia ci fa prudenti in virtù di almeno due considerazioni: la prima è che la crisi generale può avere una durata indeterminata; la seconda è che non è affatto detto che la crisi generale porti al comunismo. Può avere – come nella storia ha avuto – esiti fascisti o fascisteggianti. Ripeto che la crisi generale (proprio perché generale e tale da investire tutta la società) può durare molto a lungo. Pensiamo alla crisi dell'impero romano e all'imbarbarimento che ne seguì. Questo per ribadire che non è per niente scontato che una crisi generale (e può darsi che l'attuale lo sia) conduca alla liberazione dell'uomo. Tanto più che le crisi nel capitalismo colpiscono innanzitutto i lavoratori con la disoccupazione e la riduzione dei salari. È significativo che nella crisi attuale (la crisi – ha pienamente ragione Minucci – c'è ed è pesante) la forza sindacale risulti indebolita e non ci siano grandi scioperi come negli anni di crescita economica. [...] Nelle conclusioni di Adalberto Minucci la politica – come è giusto – torna al primo posto e l'obiettivo del comunismo è messo all'ordine del giorno, come esito di un processo storico secolare che, in buona parte, sta alle nostre spalle. In queste positive conclusioni di Minucci c'è – senza dubbio – l'ottimismo della ragione e non solo della volontà, ma proprio perché di ottimismo della ragione si tratta occorre evitare che l'ottimismo della volontà annebbi la nostra vista sullo stato presente delle cose e ci impedisca di vedere che il capitalismo con la sua crisi ha macinato il suo storico antagonista, cioè il proletariato. Oggi non solo in Europa, ma direi nel mondo la classe operaia è oppressa e dispersa; gli storici partiti di sinistra (comunisti, socialisti, social-democratici) non ci sono più o sono in liquidazione. Anche la forza dei sindacati è in calo. La globalizzazione oltre ad aver prodotto un enorme esercito industriale di riserva ha fortemente ridotto il potere politico degli stati, e quindi anche il valore e i poteri della politica. Se la politica si è ridotta a quello che è oggi, una quasi casta, non è dovuto tanto allo scadimento personale degli uomini politici, quanto al fatto che la politica stessa è diventata subalterna al mondo degli affari. Ne consegue che questa crisi (assai probabilmente, generale) sarà di lunga durata, non ci saranno, nel breve periodo, né catastrofi e neppure vittorie liberatrici o vigorose riprese dell'economia. Ma un continuo di fallimenti. Il secolo appena iniziato sarà lungo e difficile, ma proprio per questo — e sulla linea indicata da Adalberto Minucci – massimo dovrà essere l'impegno politico e intellettuale di chi ancora ritiene che il sistema capitalistico non sia eterno e debba cedere a una società e a una politica che abbiano a loro fondamento il lavoro e non il capitale, che cioè liberino il lavoro e i lavoratori dallo sfruttamento e dal dominio di un capitalismo sempre meno capace di produrre sviluppo economico e sociale. Una volta aveva corso lo slogan "socialismo o barbarie", oggi è quanto mai attuale e pressante. La barbarie moderna è dietro l'angolo. La lettura di questo libro potrà contribuire a rendere più chiara la nostra vista e meglio orientato il nostro possibile agire. V. P. | << | < | > | >> |Pagina 24II Progresso o "rivoluzione passiva"Sarebbe errato ritenere che le maggiori difficoltà, l'alterazione e lo sconvolgimento del vecchio equilibrio, derivino essenzialmente al sistema capitalistico dal pervicace tentativo di difendere e rianimare strutture e modi di produzione ormai obsoleti. Contraddizioni non meno acute si delineano laddove nuove strutture produttive, nuovi settori traenti, prendono il posto di quelli in declino. Nell'industria le nuove strutture produttive si caratterizzano, rispetto a quelle tradizionali, per l'entità decisamente superiore degli investimenti necessari, per il ruolo determinante dell'innovazione scientifica e tecnologica, per un aumento eccezionale della "massa critica" del capitale (ovvero di quella quota di investimento destinata alla ricerca, alla sperimentazione e in ogni caso non traducibile in profitto immediato e sicuro). Comincia a rovesciarsi la prassi che ha sin qui improntato l'organizzazione industriale, per cui l'utilizzo delle innovazioni è stato rivolto essenzialmente a risparmiare sul capitale costante anziché sul capitale variabile. Ma così entra in crisi quel meccanismo fondamentale e irripetibile che ha consentito al moderno capitalismo industriale (modellato, per intenderci, sul sistema fordiano) di conciliare per oltre mezzo secolo un'impetuosa espansione delle forze produttive con una sostanziale capacità di contenere e neutralizzare la caduta tendenziale del saggio di profitto. Questo fenomeno può essere fronteggiato soltanto attraverso un intervento dei poteri pubblici nella gestione e direzione dell'economia, qualitativamente diverso da quello finora contemplato dai meccanismi del capitalismo monopolistico di Stato. I poteri pubblici sono infatti chiamati da un lato ad assumersi il peso di investimenti che – per la loro entità e qualità – non rientrano più nelle possibilità di rischio delle imprese; dall'altro ad assicurare un rapporto nuovo (non più "spontaneo" ma programmato) tra produzione e mercato, nel momento in cui si riduce la capacità delle imprese di auto-regolare tale rapporto secondo la vecchia prassi dell'induzione del consumo. Per valutare quanta strada abbiano già compiuto le nuove tendenze, basta ricordare ad esempio il ruolo pressoché esclusivo che assolvono i "programmi" statali, da un decennio a questa parte, nel decollo di nuove industrie motrici nell'economia americana (elettronica, aerospaziale, chimica secondaria, beni strumentali per servizi o per l'ecologia, ecc.); o il fatto che, anche in Italia, grandi imprese private come la Fiat abbiano a lungo rivendicato dalla "programmazione pubblica" le decisioni e i mezzi per diversificare e convertire una struttura industriale che sembrava condannata al declino. Un discorso a sé meriterebbe, d'altra parte, la funzione che l'intervento pubblico è chiamato ad assolvere laddove si voglia fronteggiare — attraverso radicali trasformazioni di struttura — il collasso dell'agricoltura o la carenza ormai patologica dei grandi servizi collettivi. In ogni settore, in altre parole, lo Stato non può più limitarsi al ruolo "sussidiario" fin qui svolto al seguito dei piani di espansione delle grandi imprese ma, rovesciando i termini, deve assumere su di sé la responsabilità dei "piani" nell'ambito dei quali le stesse imprese possano ritrovare una propria collocazione. Non si tratta soltanto di una estensione della tradizionale regola della "socializzazione delle perdite", secondo la quale i gruppi capitalistici privati abbandonano progressivamente alla mano pubblica settori ove storicamente si determina un calo di produttività e minori occasioni di profitto. Si tratta di ben altro: sono proprio i settori nuovi, tecnologicamente più avanzati e a più alto livello di produttività, ad esigere oggi un intervento diretto dello Stato come condizione indispensabile per il loro decollo. Ma proprio a questo punto lo Stato "capitalistico" sembra precipitare in una spirale di disgregazione. Un drammatico squilibrio tra struttura e sovrastruttura viene a determinarsi nel momento stesso in cui il processo di integrazione tra i due piani diviene più radicale. Tutti gli apparati dai quali lo sviluppo economico esige una maggiore efficienza (dalla scuola ai servizi pubblici, dalle istituzioni scientifiche all'amministrazione della giustizia, dagli enti finanziari a quelli preposti all'ordine pubblico) sono come paralizzati da una disfunzione profonda. La crisi economica si intreccia a una crisi politico-istituzionale. Si spiegano in questo contesto anche le difficoltà che oggi affliggono forze politiche (come le socialdemocrazie o i partiti dell'interclassismo cattolico) che hanno concepito e governato lo Stato come strumento "sussidiario", o di mediazione subalterna, rispetto alle scelte del grande capitale monopolistico. La crisi, dunque, non ha il suo epicentro nell'economia, ma in un nuovo rapporto tra economia e politica che è frutto insieme di processi oggettivi e soggettivi. | << | < | > | >> |Pagina 33IV Una legge di naturaLa concezione della crisi, nel pensiero di Marx, è strettamente connessa alla "legge economica del movimento della società moderna", al processo di cambiamento delle formazioni sociali e dei modi di produzione che si svolge sotto i nostri occhi. La comprensione di tale "legge" deve partire da un'affermazione con cui lo stesso Marx apre, non a caso, la prima edizione del Capitale: "Il mio punto di vista... concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale... Anche quando una società è riuscita a intravedere la legge di natura del proprio movimento — e fine ultimo al quale mira quest'opera è di svelare la legge economica del movimento della società moderna — non può né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare e attenuare le doglie del parto." [...] Marx riconosce "l'enorme influenza civilizzatrice del capitale", la sua tendenza a sviluppare e sfruttare la scienza, a sviluppare e sfruttare le qualità della natura e dell'uomo. Le stesse crisi rappresentano momenti "progressivi" dell'economia capitalistica, malattie "salutari" ai fini della sua crescita. Distruzione di ricchezze al fine di produrre nuova ricchezza. E tuttavia il capitalismo "si muove tra contraddizioni continuamente superate ma altrettanto continuamente poste". "Ma vi è di più. L'universalità verso cui esso tende, irresistibilmente trova nella sua stessa natura degli ostacoli che a un certo livello del suo sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso l'ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza, e perciò spingono proprio attraverso di esso alla sua stessa soppressione." È interessante che il filosofo Emanuele Severino, in passato convinto assertore del "crollo del marxismo", sia giunto recentemente a un giudizio assai simile a quello di Marx: "Il nemico più implacabile e pericoloso del capitalismo – egli scrive – è il capitalismo stesso." E aggiunge: "Il capitalismo ha assunto forme diverse, perché è sempre riuscito a raggiungere lo stesso scopo – l'incremento del profitto – superando i diversi ostacoli. Ma sta profilandosi qualcosa di essenzialmente diverso da tutto il passato del capitalismo: il piano inclinato, al termine del quale il capitalismo, per non annientarsi, è costretto ad assumere uno scopo diverso dal profitto, e dunque – ecco il tratto a cui sempre più si dovrà prestare attenzione – è costretto ad annientarsi." | << | < | > | >> |Pagina 73X Il capitalismo e lo StatoLa novità e l'acutezza delle contraddizioni e dei fenomeni di crisi di questo primo scorcio del XXI secolo riaprono la discussione non solo sulle sorti del capitalismo, ma anche su analisi e soluzioni che sembravano acquisite per sempre. Dai cambiamenti intervenuti nel processo economico dopo la crisi degli anni '30 era emersa la tendenza a far assumere allo Stato un ruolo molto più ampio, diretto e organico nella gestione e nella direzione dell'economia. Una funzione essenziale, come è noto, ebbero in quel periodo le idee e le proposte di John Maynard Keynes. Per uscire dalla crisi, secondo Keynes, "il primo passo deve essere compiuto per iniziativa dello Stato", da condurre "su larga scala e... con determinazione, se vuole essere in grado di spezzare il circolo vizioso e arginare il progressivo deterioramento, in una situazione nella quale un'impresa dopo l'altra getta la spugna, a causa delle perdite, e cessa di produrre, nella speranza, illusoria, che perseverando in questa linea possa alla fine riprendersi". Braudel arriva ad affermare: "Il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo Stato, quando è lo Stato."
A sua volta Keynes, il più importante ispiratore dei
governi occidentali nel fronteggiare la crisi degli
anni '30, giunge addirittura ad ammettere "l'opportunità della pianificazione
statale, la cui essenza
dovrebbe consistere nel fare quelle cose che, per la
loro specifica natura, sono al di fuori della portata
dell'individuo... Il suo oggetto consiste nel tenere
saldamente in mano i controlli centrali e governarli
con saggia preveggenza". Su posizioni analiticamente assai vicine a quelle di
Keynes, ma teoricamente assai contraddittorie, si colloca l'opera di
Joseph A. Schumpeter.
Polemico verso i sostenitori del
laissez faire,
egli considera le crisi come fenomeni positivi, in quanto distruggono le imprese
vecchie e inefficienti a vantaggio di un capitalismo
più dinamico. A sua volta il capitalismo è destinato
dalle sue stesse contraddizioni a cedere il passo al
socialismo. La scomparsa delle crisi comporterebbe
secondo Schumpeter una produzione burocratizzata, che lui identifica con il
socialismo. Pur professandosi non marxista, giunge talvolta a soluzioni
analoghe a quelle di Marx.
Le soluzioni indicate e in larga misura attuate in tale fase, per far fronte alle difficoltà economiche di questo inizio secolo, sono letteralmente il rovescio di quelle di ieri. La funzione positiva dello Stato viene fatta a pezzi in nome di un liberismo forsennato, che arriva a privatizzare anche settori che dovrebbero essere irrinunciabili "servizi pubblici". La soluzione neoliberísta, che pretende di riportare le società moderne a quasi un secolo fa, minaccia di farne arretrare anche i livelli culturali e civili. Rientra in questo quadro la crisi delle maggiori holding americane, a cominciare dal crac della Enron nel dicembre 2001. Si tratta del fallimento dell'impresa capofila della produzione e distribuzione di energia, in quel periodo il settimo gruppo al mondo per valore di Borsa. Lo scandalo mise in luce i fenomeni di vera e propria criminalità che caratterizzavano da tempo l'economia statunitense. Arthur Levitt, che per anni ha diretto la Sac, organo di vigilanza della Borsa, disse senza mezzi termini: "È in atto una rapina a mano armata." Questo giudizio vale per l'intera catena di fallimenti che hanno coinvolto le grandi imprese americane. Sotto i riflettori dello scandalo è emersa, in particolare, l'importanza di una novità intervenuta negli ultimi decenni del '900, sottovalutata a lungo nei suoi effetti economico-strutturali. Si tratta della sostituzione dei proprietari delle imprese, ovvero dei capitalisti in quanto tali, da parte dei manager. | << | < | > | >> |Pagina 81XI L'economia del riarmoIl dramma della grande industria negli Stati Uniti assume una speciale importanza per i suoi legami con il clima di guerra che oggi il mondo vive. È passato molto tempo dalla famosa denuncia del presidente Eisenhower sullo strapotere del "complesso militare-industriale". Lasciando la Casa Bianca nel gennaio 1961, il più famoso comandante dell'esercito americano nella Seconda guerra mondiale lanciò all'opinione pubblica un appello drammatico e insieme profetico: "Oggi spendiamo per la nostra sicurezza militare più del fatturato netto di tutte le imprese americane. Questa coalizione fra un immenso establishment militare e una grande industria degli armamenti è un fenomeno nuovo nella storia americana. La sua influenza totale – economica, politica, perfino spirituale – è sentita in ogni città, in ogni amministrazione locale, in ogni ufficio del governo federale... La possibilità di una disastrosa crescita di un potere mal riposto esiste ed esisterà a lungo. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa coalizione metta in pericolo le nostre libertà e le nostre regole democratiche." La diversità con l'epoca attuale non potrebbe esser più netta. Allora era lo stesso presidente degli Stati Uniti (fatto tanto più significativo in quanto si trattava di una prestigiosa personalità militare) a pronunciarsi con vigore contro la minaccia che il complesso militare-industriale faceva pesare sulla democrazia americana. Oggi sono le più alte personalità dello Stato, a cominciare dal presidente, a rappresentare la personificazione di quella minaccia. Bush padre divenne presidente dopo una lunga carriera nell'industria petrolifera, notoriamente interessata all'"esportazione" della democrazia. Bush figlio ha dato la Casa Bianca in appalto alla lobby energetica. Ancora più clamoroso il caso del vicepresidente Dick Cheney, già amministratore delegato plurimilionario della Halliburton. L'azienda è stata sottoposta a processo per falso in bilancio, ma ciò non le ha impedito di ottenere la parte più cospicua dei fondi statali destinati alla ricostruzione dell'Iraq devastato dalla guerra "preventiva" del governo Bush-Cheney. Dopo un periodo di stagnazione e di crisi, l'economia americana ha ricominciato a crescere nei primi anni del nuovo secolo grazie a un eccezionale aumento delle spese militari. Nel 2003 quasi la metà della spesa statale è andata all'industria degli armamenti. Le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno fatto da traino alla ripresa. La tendenza a utilizzare il riarmo come leva per superare la stagnazione o la crisi dell'economia era già stata sperimentata in passato, in particolare dopo il crollo degli anni '30. Ma a partire dall'ultimo ventennio del '900 si è sviluppata in modo tale da modificare profondamente la qualità del rapporto fra economia e politica, fra pubblico e privato. In passato, ancora recentemente, si era convinti che la produzione degli armamenti, e la spesa relativa, fossero conseguenza di analisi e scelte esclusive del potere pubblico, di decisioni di politica estera assunte in base all'evoluzione dei rapporti internazionali. Ma oggi gran parte di quelle scelte dipendono direttamente da interessi, pressioni, interventi politici dell'industria degli armamenti e di quella energetica, ovvero da poteri privati che impongono anche la nomina di loro uomini al vertice del potere statale. | << | < | > | >> |Pagina 99XIV Per un nuovo "blocco storico"Sul finire del XX secolo e all'inizio del XXI si era diffuso un certo clima di ottimismo circa le sorti del capitalismo, dovuto in parte alle difficoltà e alla caduta del sistema avverso. È il clima che permise di considerare superata l'epoca delle grandi crisi e, nello stesso tempo, di tornare a imporre forme di privatismo neoliberista. Nello stesso periodo l'offensiva ideologica contro il movimento operaio e contro la sinistra si sviluppava, come abbiamo ricordato, attraverso la teoria del postindustriale, tendente a trasformare in luogo comune l'idea di un'inevitabile estinzione della classe operaia, e in ogni caso di una sua liquidazione come "classe generale", capace di rappresentare gli interessi complessivi della società moderna. Ebbene, se si guarda senza pregiudizi al movimento reale che si svolge sotto i nostri occhi, la smentita a queste tesi ideologiche non potrebbe essere più netta. Certo i vecchi schemi di analisi delle crisi capitalistiche non sono più in grado di registrare ed elaborare tutte le novità della situazione odierna. Ma proprio oggi diventa più che mai attuale la previsione di Marx della crisi generale. Se si considera che le grandi masse umane sono chiamate a far fronte a quella che viene ormai definita la "crisi del pianeta", senza arrendersi alle immense difficoltà che essa propone, la questione cruciale è oggi la possibilità di mobilitare un movimento politico e ideale in grado di realizzare una grande riforma sociale, una scelta di pace e di disarmo, una efficace strategia di intervento della scienza e delle istituzioni per la salvezza della natura e della Terra e, contemporaneamente, per la valorizzazione del lavoro umano. Un movimento di questo genere non è oggi una ipotesi fra le tante possibili, ma una necessità oggettiva e un obbligo morale. La funzione della classe operaia, di una "classe operaia superiore", potenziata dall'ingresso sistematico della scienza nella produzione e dalla crescente socializzazione del lavoro, è il dato ineludibile di un tale movimento. E ciò mentre si stanno creando le condizioni di un rapporto più organico non solo con gli impiegati e i tecnici d'azienda, ma anche con un vasto e articolato complesso di categorie intermedie, la cui estensione quantitativa e la cui funzione sociale sono destinate a crescere.
L'idea gramsciana di un nuovo "blocco storico" è
oggi più che mai attuale. Da formazione sociale
relativamente chiusa, la classe operaia può oggi trasformarsi – e in parte lo
sta già facendo – in una formazione sociale aperta verso tutti gli strati
collegati (in modo diretto o mediato) allo sviluppo.
Essa manifesta in tal modo, non solo come esigenza ideale ma come tendenza
"oggettiva", la sua vocazione storica a unire l'intera società.
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