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| << | < | > | >> |IndicePremessa 7 1. Enigmi, cultura e scrittura 7 1.1. Scrivere: una sfida d'intelligenza 9 1.2. Scritture, lingue, giochi di e con le parole 10 1.3. La scrittura e il rebus 14 1.4. Il gioco del rebus 18 2. Il rebus enigmistico 21 2.1. Enigmistica popolare ed enigmistica classica 21 2.2. I rebus 28 2.3. Un po' di storia 41 2.4. Gli pseudonimi degli enigmisti 49 2.5. Il rebus fuori d'Italia 51 3. Il rebus e la linguistica 64 3.1. Cosa ci interessa del rebus dal punto di vista linguistico? 64 3.2. Il vocabolario dei rebus di denominazione 70 3.3. 11 vocabolario dei rebus dinamici 73 3.4. Cenni sulle seconde letture dei rebus 74 4. L'italiano del rebus 76 4.1. Il corpus di riferimento 76 4.2. La grafia 77 4.3. Cenni di morfosintassi 81 4.4. L'ordine dei costituenti 95 4.5. Prime letture di più frasi 100 4.6. La punteggiatura 103 5. Conclusioni 113 5.1. L'italiano del rebus tra le altre varietà di italiano 113 5.2. L'italiano del rebus come modalità d'uso della lingua 118 Bibliografia 121 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Premessa[...] Ma com'è nata l'idea di associare lettere, parole e immagini? Quanto profonde sono le radici di queste pratiche? Quali sono le prassi in uso nel rebus contemporaneo? Soprattutto, quale "tipo" di italiano si usa nel creare, e quindi per risolvere, i rebus? Nelle pagine che seguono si proverà a rispondere, nei quattro capitoli e nella breve conclusione lungo cui si snodano, alle quattro domande appena poste, ma non affrontando i problemi dal punto di vista della tecnica autoriale o risolutiva enigmistica (per questo esistono già Bartezzaghi, 1984; Sinesio, Parodi, 1984; Peres, 1989; 2018; Nugnes, 2018); né volendo fare un'antologia di giochi (come Cabelassi, Corvi, Tucciarelli, 1996 o Cabelassi et al., 1999); né trattando il profilo storico dei giochi illustrati (anche se necessariamente si dovrà affrontarne i sommi capi, e si lascerà approfondire il lettore curioso su Bartezzaghi , 2011, e sull'insuperato Bosio, 1993) e nemmeno indagandoli dal punto di vista semiotico (come hanno fatto ottimamente Eco, 1997; 2013; Bartezzaghi, 2017). Questo libro è, principalmente, uno studio su ciò che attraverso il rebus si può dire delle lingue e, in particolare, dell'italiano che vi è usato. Se, come spero, coglierà nel segno che si è prefissato, permetterà al linguista di esplorare un campo ancora poco frequentato della sua disciplina, quello dell'uso delle lingue e del linguaggio per scopi ludici, giocosi, di divertissement. L'appassionato, o il solutore in erba, potrà imparare qualcosa di più sulla nostra lingua osservandola attraverso la lente del rebus contemporaneo e potrà, forse, alla fine del percorso proposto, raccogliere alcuni indizi linguistici per giungere alle soluzioni, o per arrivarci più agevolmente. | << | < | > | >> |Pagina 161.3.2. La scintilla del rebus In che modo, però, si è giunti alla glottografia? Si è passati sempre e inequivocabilmente attraverso uno stadio iconico, oppure no? E se sì - come pare ormai assodato dagli studi in merito (cfr. Valério, Ferrara, 2020) -, in che modo e quando si è smesso di disegnare e si è iniziato a scrivere una lingua?Conosciamo oggi un limitato numero di civiltà che hanno inventato la scrittura, cioè che hanno iniziato a scrivere senza usare un sistema alfabetico, sillabico o logografico preso in prestito da un'altra popolazione: troviamo prove dell'invenzione della scrittura in Cina, in Mesopotamia, in Egitto, in Centroamerica e, forse, su base imitativa, nell'Egeo, nella Valle dell'Indo e sull'Isola di Pasqua. In alcuni di questi posti, le popolazioni che usavano quei sistemi di scrittura sono passate a impiegare i simboli non più come semplici semasiogrammi o pittogrammi, ma come logogrammi. Un simbolo costituito da un cerchio con un altro cerchio concentrico o da cui si dipartono dei raggi può valere 'sole', oppure 'calore', 'giorno' o anche 'vita' o 'splendere' se inteso come pittogramma; se letto come logogramma, invece, quel simbolo deve corrispondere a una determinata realizzazione fonetica di una determinata lingua: per esempio il logogramma [...], nei suoi significati di 'sole' e 'giorno', corrisponde, in cinese, alla pronuncia [ri]. In tutti i sistemi di scrittura di cui abbiamo documenti, poi, alcuni logogrammi sono passati a rappresentare parole omofone o quasi omofone rispetto al loro referente originale, specialmente se gli omofoni fossero difficili da disegnare perché indicanti concetti astratti, parole vuote o nomi propri. Per esempio, il simbolo sumero contenuto nella figura 1 è il logogramma per 'acqua', ma vale anche per la preposizione 'in' in quanto in quella lingua entrambe le parole suonavano allo stesso modo: [a] ( Coe , 2012, p. 61). Altre civiltà, come quella egizia, sfruttarono questo principio di fonetizzazione arrivando a scrivere una parola attraverso i segni grafici corrispondenti ad altre parole che, pronunciate una dopo l'altra, suonassero nello stesso modo di quella che si voleva indicare, un po' come se noi oggi usassimo le emoji [...] per scrivere la parola sciocchi [...]. Se ne hanno in prima battuta esempi riguardanti nomi propri di persone o di città. Nella cosiddetta tavoletta di Narmer, uno dei reperti contenenti alcune delle più antiche iscrizioni geroglifiche, databili al XXXI secolo a.C., il nome del re è indicato più volte con il simbolo rappresentato nella figura 2, formato da un 'pesce siluro' ( n'r in egiziano antico) e da uno 'scalpello' (mr) (cfr. anche Bosio, 1993; Mussano, 2015b). Più tardi, lo stesso principio venne applicato anche ad altre parole: rm [...] 'pesce' veniva scritto giustapponendo il simbolo per 'bocca' (la cui parte consonantica corrispondeva a r) e quello per 'gufo' (m) (cfr. Rossini, 1998, p. 20). Per completezza, occorre tuttavia notare che nelle attestazioni geroglifiche risalenti a tempi più vicini a noi gli antichi Egizi usavano far seguire le parole costruite tramite il principio appena illustrato da un geroglifico, muto, detto determinante, che fungeva da indizio sulla sfera semantica del referente della parola.
Questo principio di rappresentazione ha avuto un ruolo cruciale
nello sviluppo delle potenzialità espressive dei sistemi logografici,
in quanto risulta essere la scintilla che apre la strada ai sistemi di
scrittura fonografici sillabici e alfabetici (Ferrara, 2018). Esso riposa,
fondamentalmente, sulla percezione di omofonie, cioè su liste di
parole che pur portando significati differenti, avevano significanti
uguali (o simili), un meccanismo sfruttato non di rado nei giochi
di parole. Non a caso, quindi, questo principio è stato in epoca moderna
chiamato principio del rebus, con un nome che ha a che fare
con il gioco enigmistico su cui questo libro concentrerà la propria
attenzione.
1.4. Il gioco del rebus Se si accetta che, ovunque sia stata inventata la scrittura fonografica, questa è passata attraverso il rebus, cionondimeno il rebus enigmistico italiano moderno non condivide tutte le caratteristiche del metodo scrittorio proprio, tra gli altri, dei Sumeri, dei Maya e degli antichi Egizi, al cui funzionamento abbiamo accennato. Nel rebus odierno, infatti, le pittografie, o meglio le figure, vengono di solito intercalate, nella vignetta, da lettere o altri segni tipografici che concorrono con le immagini a formare la soluzione attesa. La "lettura" del rebus di oggi è dunque costituita della frammistione di elementi pittorici ed elementi tipografici. Soprattutto, l'elemento grafico delle antiche scritture a rebus rappresentava il suono della parola omofona, appunto, a quella disegnata; la pittografia/figura nell'enigmistica italiana viene adoperata invece come sostituto della stringa ortografica che rappresenta l'oggetto disegnato. In altre parole, in egiziano antico il simbolo per pesce siluro e quello per scalpello servivano per scrivere 'Narmer' perché 'Narmer' si pronunciava come i suoni di 'pesce siluro + scalpello'; nel rebus di oggi la figura 3 può essere usata per sostituire le lettere che compongono chef o cuoco (o cuochi), ovvero la loro forma grafica in ortografia italiana e non il modo in cui quelle parole si pronunciano, rispettivamente [...] o [...]. 1.4.1. A che cosa serve l'enigmistica? Prima di avventurarci nella discussione di alcuni tratti peculiari dell'italiano del rebus e a mo' di chiusura di questo capitolo introduttivo, potrebbe essere utile spendere qualche parola per provare a spiegare il fascino che ha un gioco come il rebus, e il gioco enigmistico in generale. Questo fascino probabilmente risiede nell'intimo piacere di velare e svelare il linguaggio, di saggiare le proprie competenze culturali e (meta)linguistiche, di scoprire il significato celato di ciò che sta sotto i nostri occhi e di sciogliere - come detective - il mistero seguendo gli indizi seminati nell'illustrazione sotto forma di figure e lettere. Stando alla terminologia introdotta da Caillois (2000) l'enigmistica sarebbe dunque un ludus, cioè un gioco organizzato secondo procedure e norme precise e arbitrariamente stabilite, caratterizzato da contraintes, ovvero da costrizioni cui deve attenersi il creatore del gioco e che devono essere conosciute e usate dal fruitore per arrivare alla soluzione, che una volta superate possono dare soddisfazione e diletto sia all'enigmista autore sia all'enigmista solutore. È anche un àgon, perché ciò che spinge l'enigmista a mettersi a creare o a risolvere un gioco è, in fondo, la competizione e la sfida, tanto con sé stesso quanto con gli altri enigmisti. La creazione e la soluzione di un gioco enigmistico sono due momenti di una «provocazione intellettuale» ( Rossi , 2001, p. 4) fatta di conoscenze culturali e, nello specifico per giochi come quelli di cui parliamo qui, linguistiche: l'autore del gioco, come la Sfinge, mette in questione le conoscenze del solutore che, se è capace di capire l'arcano, se sa dare il giusto nome alle cose dell'immagine, se sa individuare la giusta sequenza di lettere e di parole della soluzione, dà prova di adeguata intelligenza e cultura. Così, tramite lo svelamento dell'enigma, oggi come un tempo il solutore può ottenere l'inclusione nella comunità: nella società tout court, se vogliamo pensare alla frase di Giorgio R. Cardona già citata (cfr. p. 12) e riferibile specialmente - ma non esclusivamente - a società lontane da noi nel tempo o nello spazio geografico; oppure nella ristretta comunità, che si sentiva e forse ancora si sente un'élite, degli enigmisti, di coloro, cioè, che conoscono tanto bene le parole della lingua da saperle piegare alla loro volontà, racchiudendole elegantemente in uno schema di cruciverba o nascondendovi dentro, tramite qualche "trucco magico", qualcos'altro oltre a quello che appare (per approfondire queste considerazioni, cfr. Rossi, 2000, specie i capp. 2-5). | << | < | > | >> |Pagina 282.2. I rebusA differenza degli altri giochi di enigmistica classica che abbiamo trattato sin qui, i giochi illustrati, che d'ora in avanti chiameremo sempre rebus, non possiedono esposti solo testuali, fatti cioè di caratteri tipografici raccolti in un rigo o in una o più strofe, ma si valgono di un esposto grafico, generalmente una vignetta o una sequenza di più vignette, nel quale il solutore, insieme alle figure (ovvero insieme al cosiddetto esposto iconico del gioco), può trovare dei caratteri tipografici (l'esposto tipografico) atti a contrassegnarle (cfr. Chiari, 1997). Pertanto, un rebus si presenta di solito come nella figura 4. [...]
Riassumendo per comodità i termini tecnici rebussistici che abbiamo
incontrato sin ora, nella vignetta si incontrano
elementi iconici
(nella figura 5, i disegni degli squali e delle capesante) ed
elementi tipografici
(nella figura 5, F e I). Nella soluzione, o frase risolutiva, sono presenti
sia i grafemi, sia le
chiavi,
ovvero le parole
Dopo avere spiegato almeno sommariamente le modalità di compo-
sizione e di risoluzione dei rebus e prima di concentrarci sull'italiano
adoperato dai rebussisti nelle prime letture, è bene trattare, almeno
sommariamente, l'etimologia della parola rebus e tratteggiare, altret-
tanto sommariamente, il suo sviluppo storico e l'evoluzione del gu-
sto rebussistico e dei suoi canoni di bellezza e gradimento.
2.3.1. L'etimologia di rebus
La parola
rebus
è di uso comune in italiano tanto nel senso di 'gioco enigmistico illustrato',
quanto nel senso di 'fatto poco chiaro e misterioso; problema di difficile
risoluzione' (...), ma la sua etimologia è tuttora dubbia.
Nella nostra lingua entra, almeno stando alla sua prima attestazione scritta
(...), nella prima metà del XVIII secolo, quando viene rubricato nel
Dizionario universale delle arti e delle scienze
di
Chambers
(1748-49), con il significato di «una rappresentazione enimmatica di
qualche nome, ecc., con adoprare una figura o pittura in vece di
una parola o parte d'una parola». Comunemente se ne indica come
origine l'ablativo plurale
rebus
del sostantivo latino
res,
'cosa', a significare che l'enigma è posto "con le cose" disegnate, e non con le
parole.
È tuttavia probabile (...) che rebus sia giunto in
italiano non per trafila diretta dal latino, quanto piuttosto attraverso il
francese, lingua nella quale
rébus
occorre per la prima volta nel
Contreblason des faulses amours
di Guillaume Alexis, datato al 1512. Il significato che
rébus
ha in quest'opera poetica è quello di 'parola equivoca' o 'doppio senso', ma,
più o meno una ventina di anni dopo, lo si
trova anche con il significato di 'gioco d'ingegno che consiste in una
serie di lettere e figure che nascondono, tramite omonimie, una frase
da indovinare', specialmente nella locuzione
rébus de Picardie.
L'etimo latino
rebus
spiegherebbe bene quest'ultima accezione, ma non
la prima, che è precedente in ordine di tempo. È dunque probabile che
rébus
esistesse già e che la specificazione 'di Piccardia' fosse dovuta
semplicemente alla particolare fortuna che quel tipo di bisenso basato
su un gioco letterale e figurato aveva avuto tra i piccardi. Una proposta
etimologica che tiene conto del significato della prima attestazione è
stata allora avanzata da Guiraud (...). Per lo studioso francese,
rébus
verrebbe da
rebous,
forma alternativa trecentesca del francese
rebours,
con il significato, sostantivato, di 'controsenso, contrario di ciò
che ci si attende' e, a far data dal XVII secolo, di 'indovinello'. Anche
quest'ipotesi, per quanto suggestiva, è tuttavia indebolita da considerazioni
rimiche:
rébus,
fin dalla prima attestazione, fa rima con
abus
e
imbutz
e questo mostrerebbe che l'ultima vocale, quella metricamente
accentata, suonasse [y] e non [u] come sarebbe se
rébus
derivasse da un precedente
rebous
(...). Sembra, insomma, che sull'etimologia di
rebus
non sia stata ancora detta l'ultima parola.
5.1. L'italiano del rebus tra le altre varietà di italiano
Dopo aver descritto, nel capitolo 4, le caratteristiche dell'italiano
delle prime letture dei rebus, è ora giunto il momento di confrontarlo con le
altre varietà di italiano, al fine di assegnargli un posto nella
complessa architettura della nostra lingua. Generalmente, le varietà
di una lingua possono essere posizionate in relazione a tre dimensioni di
variazione: quella
diatopica,
che riguarda le differenze che correlano con la provenienza dei parlanti di una
lingua; quella
diastratica,
che riguarda le differenze di usi linguistici che correlano con le classi
sociali a cui appartengono i parlanti; quella
diafasica,
che riguarda i rapporti, formali o informali, che legano i partecipanti alle
diverse situazioni comunicative.
Almeno per quanto riguarda l'italiano, ogni volta che un parlante
produce un enunciato vi usa tratti che ne rivelano la provenienza geografica,
perciò i linguisti tendono a non ritenere che una determinata varietà diatopica
sia da valutare migliore dell'altra. La variazione
diastratica e quella diafasica possono essere rappresentate da assi: più
ci si allontana dalla metà di ciascun asse, più l'enunciato si distacca
dalla norma comune dell'italiano. Gli estremi alti (e valutati positivamente)
sono etichettabili come varietà colta, per la diastratia, e
varietà formale, per la diafasia. Gli estremi bassi (e valutati negativamente)
sono la varietà incolta e la varietà informale. Uno speciale
tipo di variazione diafasica va sotto il nome di variazione
diamesica.
Quest'ultima riguarda principalmente il canale attraverso cui è trasmesso il
messaggio e, se rappresentata su un asse, ha come poli lo scritto, che
generalmente correla con situazioni diafasicamente più formali, e il parlato,
che correla con situazioni con un maggiore grado di informalità.
Disponendo i tre assi in modo che ciascuno incroci l'altro a metà,
troveremo all'incirca la posizione della varietà usata dalla maggior
parte dei parlanti nella maggior parte delle situazioni comunicative
che abbiano un medio grado di formalità/informalità: questa varietà
oggi prende di solito il nome di italiano
neostandard
(
Berruto
, 1987).
L' italiano
standard,
di cui si è già data una succinta definizione nel paragrafo 3.1, è invece
posizionabile un po' più in alto del neostandard sia sull'asse della diafasia
sia sull'asse della diastratia, dal momento che lo si incontra specialmente sui
libri e sui manuali: è quindi generalmente scritto, più formale del neostandard
e tipicamente adoperato per usi scientifici, colti e letterari. I concetti
appena esposti sono riassunti e illustrati nella figura 41.
Tre ragioni spingerebbero a pensare che la lingua del rebus dovrebbe
rispecchiare abbastanza fedelmente lo standard. In primis, perché l'equivalenza
tra prime e seconde letture riposa sulla grafia, non
sulla pronuncia, e dunque sono espressioni di lingua scritta, e non
parlata. Secondariamente, perché la SE, rivista per la quale tutti i
rebus discussi sin qui sono stati pensati, rivede con attenzione tutti i suoi
testi per renderli il più possibile vicini alla norma scolastica, e questo
dovrebbe valere a maggior ragione per le soluzioni
dei giochi. Infine, perché gli studi ricordati nel capitolo 3 sembrano
effettivamente indicare uno scarto, rispetto alla lingua usata tutti i
giorni, orientato verso il polo colto e formale, almeno per il limitato
comparto lessicale.
Se quindi, nel suo impianto generale, la lingua del rebus è contraddistinta
da una patina di letteraria arcaicità rispetto alla lingua che adoperiamo tutti
i giorni, è pure vero che, nelle loro creazioni, i rebussisti
possono attingere, talvolta mescolandoli anche nella stessa frase, a
tratti di varietà più vicine al neostandard, oppure a tratti propri dei
testi come i titoli di giornale, che con le prime letture condividono
esigenze di stringatezza, brevità e riduzione della frase, oppure ancora
ricorrono a costruzioni peculiari e non attestate altrove. Pare dunque di poter
dire che l'italiano del rebus non è una varietà autonoma
di lingua, ma una
modalità d'uso
della lingua. Le modalità d'uso, come, per fare un altro esempio, la lingua dei
mass media (...), non si situano in maniera chiara su uno o più degli
assi di variazione sociolinguistica, ma sono costituite da una commistione
di tratti non unitari appartenenti a registri presenti nella comunità
dei parlanti, ma tanto eterogenei che «non [è] possibile determinarne proprietà
costanti e comuni» (...) cosicché sono caratterizzabili «non per tratti
peculiari, quanto piuttosto per certi tipi di testo o generi che sono loro
propri» (...): nel nostro caso si tratterà, si capisce, dei testi
enigmistici che abbiamo imparato a chiamare prime letture.
In fondo, l'ampio ventaglio di registri messo all'opera per comporre
le prime letture e il conseguente sfruttamento totale delle possibilità offerte
dalla lingua sono dovuti al fatto che il rebus è esso stesso
enigmistica, che alcuni definiscono proprio come l'
arte del potenziale.
Questo sfruttamento, inoltre e per altro verso, non fa altro che
mettere in luce «la straordinaria "forza" di ogni sistema linguistico
quando ne venga sospesa momentaneamente la norma» con finalità
ludiche, ingegnose o scherzose (...).
Le considerazioni linguistiche radunate in questo libro hanno avuto
anche l'ambizione di aiutare il solutore di rebus, come ribadito più
volte, offrendogli un compendio di ciò che di insolito e inatteso può
trovare nelle prime letture. Se chi scrive può, però, dare un consiglio
ai lettori che vogliano cimentarsi nella soluzione dei rebus, questo
sarà di essere costanti nel provare a risolvere e di non scoraggiarsi anche
quando si sia costretti a leggere le soluzioni. La mente enigmistica è come un
muscolo e come tale migliora, in velocità e robustezza,
con la pratica. Inoltre con l'esercizio e l'esperienza il solutore entrerà
in possesso di un repertorio di lessemi e tecnicismi propri del rebus,
e, pian piano, di corrispondenze pressoché fisse tra immagini della
vignetta e parole della prima lettura. Per chi si esercita con il rebus
assiduamente, «una parte delle chiavi sono [...] talmente frequenti
[...] e cristallizzate (basti pensare a
reo, epa, aro, moro)
da essere legate secondo un codice fisso alla sequenza di suoni della soluzione
di prima lettura» (...), tanto che si potrebbe dire che
per alcuni autori di rebus e per i solutori più esperti alcune accoppiate
immagine-parola stiano diventando quasi logogrammi, dal momento che al comparire
di una data figura nel gioco si può assistere a
un'automatica conversione in una e una sola realizzazione fonetico-grafica. Si
percorre, così, ma al contrario, il percorso che si è descritto
nei paragrafi 1.3.1-1.3.2.: nel caso della nascita della scrittura, una
determinata fonetizzazione è venuta a corrispondere a un determinato
logogramma; nel caso degli appassionati di rebus esperti, a un'immagine viene a
corrispondere immancabilmente una determinata fonetizzazione (o grafizzazione
alfabetica). I rebussisti rinnovano così, in un certo senso, l'eterno rapporto
che ci pare legare l'immagine e la parola nelle lingue degli esseri umani.
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