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| << | < | > | >> |Pagina 71. Il ventisei agosto dell'anno del Signore millequattrocentonovantadue fui incoronato papa, era un giorno di intenso calore, come se il cielo avesse voluto anche in questo aggiungermi alla lista dei quattro successori di mio zio Callisto, che erano stati tutti incoronati in una di queste giornate romane di gran caldo, il che significava che cinque pontefici di seguito avevano lasciato la vita e il regno per non aver resistito a un'ennesima estate di caldo afoso e malsano, chi può dire se non sarò io il sesto a non arrivare a un altro settembre, intorno alle dieci venne a svegliarmi il cubicolario, Santità è l'ora, Santità, mi trovò in camicia e senza lenzuolo addosso, ma anche in camicia un papa è un papa, Santità, da quindici giorni mi chiamavano Vostra Beatitudine, Santissimo Padre, tutti tranne mio cugino Francesco. Sua Santità avrebbe preferito essere incoronato in un chiaro giorno d'inverno o, meglio ancora, una mattina tiepida di primavera, ma non è possibile scegliere il tempo migliore dell'anno per diventare papa, meglio il gran caldo poi che il gran freddo, pensando al popolo di Roma e alla lunga sfilata, meglio il sole che la pioggia. Un papa è papa sempre, anche in camicia e seduto su una comoda e anche quando il barbiere gli passa e gli ripassa il rasoio sulla nuca e sulle guance, calvo e ben rasato, una volta che ha portato in testa la tiara per corona resta incoronato per sempre, e se arriva a sedersi sulla cattedra di san Pietro quella rimarrà la sua sedia fino alla morte, per tutto il tempo che Dio, non gli uomini, gli vorrà concedere di regno e vita, avevo dormito poco quella notte per ripassare con il cerimoniere Burkhard i dettagli del programma liturgico e provare con il governatore della città i preparativi nelle piazze e nelle strade, studiare la disposizione delle truppe con il capitano della guardia e rivedere i conti delle spese con il cardinale camerlengo, sapevo bene che non può essere un buon principe chi non fa sentire l'autorità dei suoi atti fin dal primo giorno, senza commettere errori né passi falsi, né può essere un buon pastore chi non controlla con un occhio i cani da guardia e con l'altro l'amore e il timore delle pecore. Un cameriere mi portò la colazione che mi piace di più in quel periodo dell'anno, fichi napoletani, pane bianco, formaggio fresco di bufala e vino trasparente dei castelli romani, ma quel giorno dovevo celebrare io la messa e non era opportuno cominciare il pontificato concedendomi una dispensa dal digiuno canonico, chissà che notizie avrebbe diffuso poi il cameriere, portalo indietro, figliolo, mangerò qualcosa più tardi, gli dissi, se e quando sarà possibile, guardai dalla finestra, prima di finire di vestirmi, la confusione di polvere e sole come una nebbia secca sul piazzale del palazzo, e tra la polvere un'inondazione di vestiti di tutti i colori, porpora e viola, oro e argento, bianco e blu, tutta la corte accalcata aspettava l'apparizione del suo nuovo monarca, gli alabardieri genovesi del capitano Domenico Doria con elmi e corazze lampeggianti al sole cercavano di disporsi in doppia fila per fare strada tra la folla. All'undicesima ora di quella domenica luminosa arrivò finalmente lo stuolo dei cardinali alla porta del palazzo apostolico, vennero a prendermi quegli stessi che due settimane prima mi avevano fatto papa, finalmente anche allora, quando ero all'apice della mia vita, sessant'anni, sessantuno, quando secondo Aristotele l'uomo è al culmine delle sue facoltà, ero il secondo pontefice di lignaggio non italiano eletto a Roma da quando la sede papale era tornata da Avignone, incoronare in meno di due secoli due papi stranieri e non solo stranieri ma anche dello stesso nome e famiglia era una cosa che non aveva precedenti nel Liber vitae Christi ac omnium pontificum del mio vecchio nemico, il bibliotecario Platina, sia lodato Dio che così dispose, il primo papa Borgia non ebbe il tempo di lasciare un segno memorabile del suo passaggio nella Chiesa romana, ma il secondo lo lascerà di sicuro e, il Signore mi perdoni, non è un cattivo pensiero immaginare che potrebbe essercene un terzo un giorno che, se non potrà essere papa, sarà re o principe d'Italia, visti i tempi di grandi alterazioni e cambiamenti in cui siamo, nulla è impossibile per chi lo desideri con volontà e sufficiente forza. | << | < | > | >> |Pagina 92. Davanti alla processione nei cortili del palazzo c'erano ad aprire il passo sei valletti in tunica di seta e bastoni come canne d'argento in mano, seguiti dai magistrati della città in lunghe vesti listate di porpora come quelle dei senatori antichi, i vescovi con mitra e cappa bianca e il sacro collegio dei cardinali, i cardinali diaconi in dalmatica, i cardinali presbiteri in casula, i cardinali vescovi con il piviale d'oro e per ultimo io, Alessandro VI Pontefice Massimo, tra quattro diaconi che mi proteggevano come i leviti di Israele proteggono l'arca dell'alleanza, dietro al protonotaio che portava su un cuscino la tiara dell'incoronazione, poi c'era l'infinita milizia degli uditori, notai, abbreviatori e preti della curia, in numero così elevato che gli uni non lasciavano toccare terra agli altri. Nell'atrio di San Pietro mi appoggiai un momento su un sedile a tre livelli per ricevere il baciapiede dei canonici, baciate, baciate, pensavo, finché potrò sedere in alto o stare in piedi verrete tutti a baciarmi il piede fino a consumare la seta della mia scarpa ricamata, così come per le tante bocche si consuma il bronzo del piede dell'apostolo Pietro in basilica, il piede, non la mano, come si fa con un vescovo o un re, con quei sacerdoti avrei voluto vedere davanti a me due o tre sovrani che conosco io, quindi mi accompagnarono con i ceri accesi alla cappella di sant'Andrea per ricevere l'omaggio dei cardinali davanti al cranio dell'apostolo che io stesso avevo ricevuto a Roma trent'anni prima dalle mani del despota di Morea sfuggito ai turchi e lo avevo portato in trionfo in un reliquiario di oro per le strade della città fino a questo stesso altare, perché il povero Pio II, santa ne sia la memoria, aveva i piedi gonfi per la gotta, fu un giorno di festa grande, i romani pensavano che il cranio di un apostolo così importante, cugino di nostro Signore, sarebbe stato anche garanzia di grandi fortune, o almeno un'attrazione in più che avrebbe accresciuto l'affluenza dei pellegrini, industria principale di questa città da sempre, salii gli scalini dell'altare, presi posto sulla cattedra dorata e uno a uno i cardinali mi abbracciarono in segno di carità e mi baciarono l'orlo della cappa in segno di obbedienza, e chi fino a qualche giorno prima era stato loro pari per dignità, sapeva esattamente, quando ognuno di loro si inginocchiava con calcolata lentezza, quale tarlo gli rodeva la mente, cosa si aspettava dal nuovo papa, cosa temeva e quanti quello stesso giorno avrebbero voluto vederlo bruciare all'inferno come la stoppa che nel frattempo il cerimoniere accendeva alla punta di una canna e recitava tre volte Sancte Pater sic transit gloria mundi, parole dello schiavo che accompagnava i generali vincitori nel trionfo per la Via Sacra, parole miserabili, così finisce la gloria del mondo, vane sono tutte le cose mortali e tutte hanno una fine sicura nella cenere, il maestro di cerimonie le scandiva con tanta convinzione nella voce e tanta voglia che fossero vere il prima possibile che gli si poteva leggere in faccia il gusto con cui le pronunciava, Burkhard è stato sempre un uomo pieno di bile e malignità, ma non ho mai incontrato nessuno che conoscesse la liturgia come lui, con quell'ostinata precisione dei tedeschi, abbiamo dovuto aver pazienza. Io accettavo con la stessa faccia bonaria l'omaggio e il monito, la gloria mundi e il richiamo alla sua fugacità, sic transit, se finisce tuttavia sarà dopo essere venuta ed essere stata mia, con la stessa faccia paterna ricevevo l'abbraccio degli indifferenti, degli invidiosi e dei semplici approfittatori e anche di quelli che con certezza non avrebbero tardato a tradire, di amici sapevo di non averne più nessuno lì, questo vuol dire essere papa.| << | < | > | >> |Pagina 103. Tredici squadre di soldati mi aspettavano schierate nella piazza con lance in alto e corazze di pelle di bufalo ben lucide e ingrassate, circa duemila uomini che sudavano al sole, non ce n'erano altri, questo era tutto l'esercito della Chiesa, sufficiente per fare una buona scorta al nuovo papa il giorno della sua incoronazione ma inutile il giorno che avesse dovuto entrare in guerra, ben poca gloria avrebbe avuto in questo mondo e più fugace del fuoco della stoppa, quella che poteva aspettarsi da quella truppa insicura, sporca e mal pagata, e ancor meno se l'esercito e l'onore di un papa Borgia erano nelle mani del Gran Capitano Niccolò Orsini, ma ancora non era cominciato il mio regno, avrei avuto tutto il tempo. Mi incoronarono con la tiara dei tre regni in cima alla scala di San Pietro, davanti a una piazza piena zeppa, i cardinali e i baroni romani facevano da pubblico d'onore su due catafalchi tappezzati e montati lungo l'intero sagrato, seduti secondo un ordine gerarchico, erano finalmente loro gli spettatori e io il protagonista, i cardinali semplici accoliti e io sommo sacerdote, lì i baroni e qui il loro sovrano e signore, loro Orsini Colonna Conti Massimi Savelli Caetani e io Borgia. Le armi da fuoco della Chiesa erano ancora poche e troppo vecchie, ma mentre io ricevevo la corona disposero tante salve di artiglieria così vicine che durante la cerimonia non si sentiva altra musica che lo strepito dei tuoni, poi mi incoronarono sotto una nuvola di polvere e fumo, giacché mi avevano esaltato come Iuppiter con versi più lusinghieri che ispirati, Scit venisse suum patria grata Iovem, contemplassero dunque il loro Zeus, signore supremo incoronato tra i tuoni e nascosto tra le nuvole dell'Olimpo, questi topi di curia sono più che generosi quando si tratta di scrivere adulazioni latine e così mi riempirono la città di scritte che solo a leggerle faceva venire vergogna, padre della pace, invittissimo, degno di godere in eterno del nettare e dell'ambrosia, degno di viole e rose, più alto di Cesare il grande è questo Alessandro, quegli uomo questi dio, padre di abbondanza e pace, che dire, su ogni arco di trionfo e portale di palazzo c'era un gran cartello con un distico in lettere dorate su fondo blu o un intero componimento: Che le piazze portino allegria con il testimone delle fiamme, all'invicto Zeus canti, flauti e il più alto onore, io non sono mai stato un grande intenditore di poesia, ma so che erano versi molto dozzinali, eppure tra tutti uno lo lessi con gusto, uno solo: Prisca novis cedant, rerum nunc aureus ordo est.| << | < | > | >> |Pagina 114. Quando arrivammo ai piedi di Castel Sant'Angelo, quel poco di brezza che saliva dal fiume faceva sventolare stendardi e bandiere, in cima a un albero di barca piantato sulla torre più alta ondeggiava un pennone alto dodici verghe, avevo ordinato che fosse il più alto mai visto a Roma, con il toro della casata Borgia al pascolo su uno sfondo dorato, una tiara e le chiavi di San Pietro che coronavano lo stemma, gli facevano compagnia due stendardi più piccoli con i colori della Chiesa e quelli di Roma, io avanzavo scortato dalle bandiere delle milizie, i pennoni dei distretti urbani, i gonfalonieri pontifici, lo stendardo con la scritta S.P.Q.R., portato dal mio amico e consuocero Cesarini, povera figlia mia, Girolama, troppo breve le furono la vita e il matrimonio, e dalla insegna con le mie armi, portata dal conte della Mirandola, anche suo figlio Pico morì troppo giovane, mio zio Callisto si sarebbe emozionato alla vista di tanti stendardi al sole, era un uomo di poca fantasia, le uniche tele dipinte che gli piaceva guardare erano i vessilli che ordinava per mandare alla crociata contro i turchi e il suo pittore di camera era quel Salvador Joan, venuto apposta da València per dipingere bandiere e scudi per le truppe cristiane. A ogni merlo del castello c'era un soldato e mentre suonavano le trombe sparavano i cannoni e tutti gridavano viva Alessandro e viva il papa, arrivammo all'inizio del ponte dove ci attendevano i rabbini delle cinque sinagoghe e i capi degli ebrei di Roma, feci come aveva fatto mio zio Callisto e tutti i miei predecessori, i rabbini inginocchiati mi presentarono il Libro della Legge e dissero: Alessandro Sommo Sacerdote a cui il cielo e la terra, il mare e il mondo intero porgono riverenza, supplichiamo umilmente che la tua santità si degni di confermarci questa legge che Dio Onnipotente rivelò a Mosè sul monte Sinai e i privilegi che ci concessero i tuoi predecessori, allora il papa rispose: Ebrei, lodiamo e rispettiamo la vostra santa legge che Dio Onnipotente diede ai vostri antenati tramite Mosè, tuttavia disapproviamo e condanniamo la maniera in cui la osservate e la interpretate perché la fede apostolica ci insegna che il Redentore, che voi ancora aspettate invano, è già venuto prima del nostro tempo ed è il Signore Nostro Gesù Cristo, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli, quindi buttai a terra il loro Libro della Legge, come era consuetudine, ma confermai loro il privilegio di risiedere a Roma e tenere per sé quella stessa legge che il papa rifiutava, io non li espellerò mai dai miei domini come hanno fatto il re d'Aragona e la regina di Castiglia che anche per questo, per non essere stato io fanatico e duro di cuore come loro, sono pieni d'ira e risentimento contro di me, a volte penso che non avrei mai dovuto concedergli il titolo di Cattolici, ci fu un bel tafferuglio tra i rabbini e i soldati della guardia perché il Libro della Legge aveva le copertine d'oro e i soldati se ne erano impadroniti e chiedevano il riscatto, alla fine gli ebrei pagarono come sempre e noi, dopo l'omaggio dei rabbini, potemmo finalmente attraversare il Tevere e entrare in città. Alle tre del pomeriggio, quando passammo il ponte, il sole era rovente e abbagliante e di tutto il corteo io solo procedevo in ombra, sotto un baldacchino di seta, e allo stesso modo tra tutti i cavalli solo il mio era immacolatamente bianco come la pelle di un ermellino, il colore dei sovrani, epperò se gli altri dovevano sopportare il sole a piombo sulla testa, io dovevo sopportare il peso di una tiara di tre corone d'oro che mi obbligava a portare il collo ben dritto e la schiena stirata e potevo solo muovere il capo con estrema lentezza, tanto che mi sarebbe piaciuto in quei momenti poter ridere e salutare in libertà, ma la maestà di un papa è più alta di quella di tutti i monarchi della terra e nel giorno in cui lo incoronano la deve mostrare al popolo così com'è, impassibile e sacra, e deve sopportarne il peso, per greve che sia, perché in quel frangente si presenta ai romani la persona del sovrano come lo spettacolo più desiderato e atteso ovvero la sfilata del principe con la sua corte e quanto più fastoso e magnifico è il corteo tanto più grato gli sarà il popolo che lo vede passare, i sudditi si sentono più contenti e sicuri quando possono contemplare da vicino la maestà del loro signore e applaudire al suo passaggio e ancor di più se è un signore davanti al quale possono inginocchiarsi e riceverne benedizione, a loro non importava il passaggio del santo sacramento nel tabernacolo che avevo giusto davanti, ma solo il passaggio della mia persona, la magnificenza e la maestà con cui portavo la tiara, la benigna serenità del mio volto, i ricami di oro e perle del piviale, la ricchezza dei finimenti dei miei cavalli e la grandezza del diamante dell'anello di San Pietro, questo popolo non vuole un signore fragile e povero perché fragili e poveri sono essi stessi, lo vogliono forte e coperto di magnificenza, così feci il mio ingresso nella mia città di Roma, che, quando arrivai io, più di quaranta anni prima di quel giorno, avevo trovato mezzo vuota e triste, sporca, spogliata, decaduta e violenta, ma in quello stesso istante seppi che quella e non València né nessun'altra sarebbe stata per sempre la mia città, il luogo dove io sarei diventato quello che sarei diventato, per più di quarant'anni c'eravamo amati e odiati, osservati con sospetto e gelosia, mentre piantavo le mie radici in questa terra molle e traditrice, la lavoravo come si lavora un orto e aspettavo il giorno che Roma mi cadesse tra le mani come frutta matura. Ora finalmente si arrendeva dopo un così lungo assedio, si apriva al mio passaggio e mi si consegnava prigioniera e conquistata, come una Pasifae in ginocchio implorante l'amore del toro di Zeus, dato che qui piacciono tanto i miti antichi questo è il più giusto, Roma Regina Arresa al Divo Alessandro Borgia Bou, Roma, fondata con l'aratro aveva trovato un bue in tempi antichi e ora, dopo averlo perso, con un Bou torna a nascere, questo recitavano alcuni degli innumerevoli versi di quel giorno, non erano stati spesi invano i ducati che Marrades, il mio segretario, aveva distribuito discretamente tra gli scrivani della curia, non erano i migliori poeti, ma la propaganda e l'ispirazione non possono andare sempre d'accordo, e neanche erano state vuotate invano le venti borse di monete d'argento che Joan de Girona andava distribuendo al mio passaggio, le lanciava a pioggia e la gente le acchiappava al volo o a terra, guardava e contemplava per la prima volta la faccia impressa del suo nuovo sovrano, il mio profilo incoronato scolpito nel metallo, che al contempo avevano in carne e ossa davanti agli occhi, questo fu di grande effetto, garantirsi un trionfo sicuro costa molti soldi, ma anche ricevere acclamazioni gradite è parte del nostro officio.| << | < | > | >> |Pagina 311. Mio zio Alfons, papa Callisto, era alto e secco, molto ostinato, uomo di fede e sapere giuridico, mangiava molto poco, non beveva mai vino e credeva fermamente che l'alto destino dei Borgia fosse un disegno manifesto del cielo e che questo destino fosse stato deciso dalle parole di un santo. Il regno di València non è una terra estesa come la Castiglia o la Francia, né ricca come Venezia o il ducato di Milano e non so neanche per quali grandi azioni di conquista o di guerra saranno ricordati i valenciani dalle generazioni future, per quali monumenti, grandi opere o grandi nomi, ma mio zio pensava che gli unici valenciani importanti della storia fossero san Vincenzo Ferrer e sé medesimo, perché il primo era il santo più miracoloso del nostro secolo, diceva, e l'altro il papa che avrebbe riscattato Costantinopoli dai turchi, visse fino all'ultimo convinto di questo, io però osservavo che la fama dei santi moderni è mutevole e locale, per questo sapevo che Santa Sofia non tornerà mai ad essere una cattedrale cristiana o, per lo meno, che noi viventi non lo vedremo, il destino dei Borgia non va a Oriente. La prima volta che si incontrarono il futuro papa e il futuro santo fu nella nostra città di Xàtiva, Vicent Ferrer era già un predicatore rinomato, carico di fama e miracoli, mobilitava le folle e ovunque andasse lo seguivano processioni di penitenti, Alfons de Borja era uno dei tanti bambini che le madri presentavano al santo per riceverne la benedizione, quel giorno il frate lo guardò attentamente e disse: votatelo alla Chiesa, fatelo studiare, questo ragazzo arriverà molto in alto, una cosa del genere avrebbe potuto consigliarla a qualsiasi figlio di cavaliere povero, ma mio zio la ricordava come il primo segno di predestinazione, il secondo non fu più un consiglio ma una profezia, Alfons aveva già mosso í primi passi lungo il suo percorso, era prete a València e dottore nei due diritti quando la fama di padre Vicent era già molto grande, i suoi miracoli numerosi e le sue parole tanto influenti che con una mano poteva ottenere che mezza Europa si mantenesse obbediente a uno dei due papi dello scisma e con l'altra far sì che tre regni insieme accettassero una nuova dinastia, il tutto con l'aiuto di Dio e molta diplomazia. Mio zio Alfons, quando era già papa, non prima, ci raccontava spesso con estremo gusto che un giorno, dopo un grande sermone di Vicent Ferrer nella cattedrale di Lleida, si trovò all'improvviso spinto nella prima fila di ascoltatori, invaso da una forza inspiegabile che gli fece gridare: Dio ci ha dato un santo, il grande predicatore sentì, lo guardò e disse: se Dio mi ha concesso la santità, e io lo spero, voi me ne confermerete la gloria, la più grande del mondo, questo disse o parole dall'effetto simile, la storia era sempre la stessa, ma a seconda di come la raccontava, a volte finiva a questo punto, altre volte il santo aggiungeva: tu sarai papa e mi canonizzerai, anche se la glossa non era necessaria perché si capiva bene anche senza. Io in tutti i miei anni di pontificato non ho fatto nessun santo né ne farò mai, perché la Chiesa ha già in calendario troppi martiri e confessori della fede e troppi eremiti, vescovi e vergini, sono tanti che nessuno ne conosce il numero, tuttavia se ci fosse qualcuno da elevare agli altari della gloria non sarebbe un predicatore impulsivo e profetico, patrono di flagellanti e convertitore di ebrei a tutta forza, non sono questi i santi a cui sono devoto, ma è giusto che, una volta papa, Alfons de Borja canonizzasse il suo profeta personale e sia che le parole del santo furono pronunciate come le ricordava lui, sia che la sua memoria le ricostruì o interpretò così, l'effetto non cambia e va detto che un ragazzino di Xàtiva non diventa papa di Roma senza l'intervento speciale di Colui che muove tutte le ruote che governano la terra e i pianeti, è un prodigio più grande degli stessi miracoli di san Vincenzo e più difficile dell'avverarsi di qualsiasi profezia, e se è vero questo, anch'io sono papa, a ben vedere, in virtù dello stesso prodigio, non so se il santo poteva prevedere che quel prete e futuro pontefice avrebbe avuto anche un nipote, ma se lo avesse previsto non sono sicuro che avrebbe fatto partire la nostra storia con la sua profezia. Li ho sempre visti come un pericolo per la pace pubblica questi predicatori che vagano da una parte all'altra riempiendo piazze e chiese, si presentano come portavoce della collera divina e sanno parlare solo dei grandi peccati del mondo, della penitenza e del terrore delle fiamme dell'inferno, così esaltano il popolo e lo rendono ancora più infelice, come se la gente non ne avesse già abbastanza con le paure e le afflizioni che deve subire in vita, come se avesse bisogno anche di qualcuno che venga a renderle più duro il peso e più aspro il cammino, ma forse sbaglio io, visto il successo enorme di questi sermoni pieni d'ira e condanne, san Vincenzo non divenne il predicatore più celebre d'Europa per aver detto: Dio vi ama, ma per aver alzato un dito minaccioso e aver detto: temete Dio, questo lo capivano tutti e in tutte le lingue del mondo. È più facile parlare di paura che di amore, temete Dio che vi castigherà duramente perché siete sporchi e perversi, avrete peste e fame in questa vita e nell'altra i tormenti dell'inferno, questo deve essere ciò che a molti piace ascoltare più di ogni altra cosa perché è la passione più bassa di tutte, la passione del terrore, quella che questi oratori iracondi sanno sfruttare meglio, disgraziata la gente e la città che finisce nelle loro mani, i fiorentini ricorderanno per molti anni Savonarola, essi dicono che al rogo ce lo mandai io, ma, a parte che non è vero, non dicono che avevo anche avuto molta pazienza e che in realtà feci loro il favore di liberarli dal governo di un fanatico, se Savonarola non fosse caduto i cittadini di Firenze andrebbero ancora in giro vestiti di nero e picchiandosi l'un l'altro per le strade, che ne sarebbe stato dei loro pittori e scultori e della libertà di parlare e scrivere? | << | < | > | >> |Pagina 4810. La Roma che l'estate del 1449 trovammo io e Pere Lluís non era una città ma quel che restava di stantio e dimenticato di una città, non aveva più di trentamila anime, la metà di València, e per lo più si trattava di anime impaurite e tristi che vivevano stipate nell'ansa che il Tevere forma tra il mausoleo di Augusto e il Campidoglio, in quartieri di vicoli ignobili, pieni di umidità e sporcizia, occupando tutti neanche la sesta parte dell'antico recinto intramurale, per il resto erano campi di rovine coperte di erba e rifiuti, boschi intra moenia, pascoli e vigne, ogni quartiere o manciata di strade era territorio di una famiglia nobile e in città c'erano più fortezze e castelli che campanili e chiese, questa era la città dove regnava il pontefice sovrano, la capitale della cristianità. Lo zio Alfonso era titolare dei Quattro Santi Incoronati e non risiedeva in un palazzo civile e urbano come il vescovo di València, ma in un convento che sembrava una piccola fortezza in cima al Celio, che è uno dei sette colli di Roma e domina la strada che va dal Campidoglio a San Giovanni in Laterano, da lì la vista si apre su una desolazione di estesi paesaggi di vegetazione selvatica e terrapieni mal coltivati che sembrano piuttosto valli abbandonate dall'uomo che non parti di una città antica dove non avresti mai detto che si levavano i fori imperiali, il circo massimo, i templi, palazzi e luoghi che erano stati la gloria di Roma, non l'avresti mai detto se non fosse stato per i capitelli di marmo che emergevano dal verde, per i tronchi di colonna e gli archi, ma ciò che resta del grande Colosseo ai piedi del Celio è un castello senza forma che i Frangipane all'epoca ancora si contendevano con gli Annibaldeschi, il teatro di Marcello è la fortezza dei Savelli, quello di Pompeo la piazzaforte degli Orsini, nei giardini del Quirinale e sulla tomba di Augusto sorgono i castelli dei Colonna. La residenza di mio zio l'aveva fortificata molti anni prima il cardinale guerriero Carrillo de Albornoz e lì, nel piccolo chiostro del convento e nei cortili, non sembrava di essere al centro di Roma, era come essere in un monastero sperduto o in una rocca isolata tra le montagne, il chiostro aveva un giardinetto con roseti e una fontana al centro, non si sentiva nessun rumore né arrivavano le zanzare, che tanto mi hanno torturato, né le febbri del fiume da cui a Roma bisogna fuggire più che dalla stessa peste.
11. Mio zio aveva un'idea molto angusta del potere del papato, pur non
credendo, come non ci credo io, nella leggenda
della donazione di Costantino, la prima cosa che ci mostrò, a
me e mio fratello, fu la cappella di San Silvestro, che è situata
nello stesso perimetro dei Quattro Santi Incoronati, lì ci sono
dei dipinti molto vecchi sui muri della chiesa che raffigurano
in ordine la storia della donazione, prima si vede l'imperatore
malato a letto, con la corona e il mantello di broccato, e la faccia e le mani
piene di macchie rosse che rappresentano delle
pustole, poi ai piedi del letto gli appaiono san Pietro e san
Paolo, rappresentati nell'atto di compiere il miracolo, e lo guariscono, nella
scena successiva Costantino riceve il battesimo
dal papa Silvestro, l'imperatore è raffigurato nudo in una tinozza dalla forma
di una grande coppa di pietra, poi lo stesso
imperatore, ormai guarito e cristiano, consegna al pontefice la
tiara delle tre corone e infine, nell'ultimo pannello sul muro,
lo stesso Costantino a piedi apre le porte di Roma al papa Silvestro, incoronato
e a cavallo, e gli fa dono della città e dell'impero, sono dipinti molto belli,
dai colori vivi e di stile antico, ma la storia è falsa, lo aveva dimostrato
pochi anni prima Lorenzo Valla nella sua
Declamatio,
che gli era costata processi e persecuzioni, mio zio aveva conosciuto Valla alla
corte di re Alfonso, erano diventati amici, così che quando divenne papa prese a
proteggerlo e gli diede buoni incarichi a Roma, per
lo scandalo di mezza curia apostolica, incarichi a un uomo che
minava l'autorità temporale dei pontefici romani? Sì, diceva
mio zio, il mio amico Lorenzo ha fatto un gran favore ai papi
e questo per due ragioni, di cui la prima: perché mai dovremmo perdere tempo
rivendicando un'autorità impossibile su un
impero che non è più né sacro né romano ma solo germanico
e che in verità non è più neanche un impero? Seconda ragione: se i diritti del
papa come sovrano dei suoi Stati sono validi
perché glieli ha conferiti un imperatore di Roma, dovrebbe essere intoccabile a
fortiori il potere dei nobili che assicurano di
discendere da senatori più antichi dello stesso Costantino, a
mio zio piaceva parlare con parole esatte, partendo da primo,
secondo e terzo, a, b, c, alla maniera delle dispute logiche, quel
giorno nella cappella di San Silvestro imparai una lezione importante e cioè che
in materia di politica gli unici argomenti
che contano sono quelli che hanno effettiva possibilità di applicazione e
l'unico diritto che vale è quello che si fa rispettare. Il cardinale Borgia a
quei tempi pensava che Roma non poteva offrire granché di buono a due giovani
come noi, stranieri e ancora con pochi studi, dovete fare tutto da soli, disse,
se fossi un cardinale ricco vi potrei comprare un posto in curia o
procurarvi in poco tempo una diocesi e se fossi papa ve la potrei regalare, ma
sono povero e vecchio e ho poche amicizie a
corte, così il miglior regalo che poté farci fu di mandarci a Bologna a studiare
legge, Pere Lluís non lo capì e non fu mai un
bravo studente, ma io sì, sono ancora in grado di citare a memoria l'articolo
opportuno delle Pandette o delle Istituzioni di
Giustiniano, conosco tutti i segreti dei canoni di Graziano e
delle Decretali di Ramon de Penyafort, e se ce n'è bisogno
posso allegare senza impaccio i commenti del grande Bartolo
e di Baldo degli Ubaldi, nella vita delle Repubbliche e nel governo dei principi
la scienza del diritto è la prima e più necessaria delle arti maggiori, io sono
dottore
utriusque juris,
canonico e civile, condizione che a volte i miei nemici dimenticano,
peggio per loro.
12. Anche Bologna era una città di alte torri e famiglie ostili, ma non aveva la desolazione e le bassezze di Roma e anziché essere piena di ladri e pellegrini, era piena di studenti che venivano da tutti i regni d'Europa, ci ricevette il cardinale Bessarione, che era legato papale e grande amico di Alfonso Borgia, avevamo sempre accesso al palazzo del legato, ma risiedevamo nel collegio della nostra nazione e così, dopo essere vissuto tra donne profumate, ora dovevo vivere tra uomini che si lavavano poco sia il corpo che i vestiti, a Bologna ci sono tre repubbliche, l'università o comune di studenti e professori, la repubblica dei mercanti e quella degli osti e delle cortigiane, non sempre c'è buon equilibrio tra loro, il legato pontificio non ricopre autorità alcuna, pur facendo parte questa città dello Stato della Chiesa, l'unico potere superiore è la volontà dei signori Bentivoglio, che in famiglia vantano più orgoglio e crimini che se fossero stati di pura schiatta reale, un giorno chiesi a Bessarione con quale diritto governava Bologna quella razza di criminali, ma mi rispose che non dovevo farmi il sangue amaro perché non erano peggiori dei Gonzaga, dei Malatesta o degli Este e che inoltre il popolo preferisce un signore forte a un papa lontano e impotente. Bessarione era straniero come me, ma capiva le cose italiane, a lui devo le poche letture di greco che ho fatto, troppo poche, non riuscì mai a farmi avvicinare con simpatia ai libri di Platone, io ero un bravo studente di diritto, non di filosofia, e gli unici autori greci che ho letto con relativo piacere e profitto sono stati Aristotele, per la Politica, Tucidide, per la Storia delle Guerre del Peloponneso e Plutarco, per le Vite Parallele, i primi due per imparare e l'ultimo per disporre di una scorta di proverbi e per svago, se è per questo che affermano che sono un mediocre uomo di lettere, hanno tutta la ragione di parlare, perché le mie lettere sono i canoni e i codici, e comunque a Bologna mi guadagnai i gradi accademici con molti anni di lezioni e lunghissime ore di studio che non volli abbreviare allentando i cordoni della borsa, come vidi fare a tanti figli di nobili e mercanti ricchi, né tantomeno mi regalarono il titolo, come a Giovanni de' Medici, che per la simpatia e i fiorini di suo padre si laureò a tredici anni, così come divenne cardinale della Chiesa prima di compierne quattordici, ma ciononostante ho sempre rispettato la memoria del magnifico Lorenzo, l'Italia ci avrebbe guadagnato molto se non fosse morto pochi mesi prima che io diventassi papa, ci intendevamo molto bene. Dei miei maestri ricordo con molto affetto Andrea Barbazzo, di cui frequentai le lezioni assiduamente per quattro anni, tre ore al giorno, ma ricordo soprattutto Gaspare da Verona, l'unico che mi ispirò sentimenti da discepolo, faceva parte del circolo o modesta corte di mio zio ai Quattro Santi Incoronati e d'estate portava me e mio fratello Pere Lluís da nostro cugino Lluís Joan del Milà a fare lunghissime passeggiate tra le rovine e i monumenti di Roma, ci spiegava di che tempi e imperatori fossero gli archi di trionfo, i templi e le terme, commentava stralci di Orazio e Virgilio e faceva tutto il possibile per far nascere in noi ragazzi un po' d'amore per le cose della latinità antica, riconosco che non fummo i migliori dei suoi discepoli, mio cugino del Milà faceva una faccia annoiata e pensava solo a quando sarebbe finito quell'esilio per potersene tornare a València, Pere Lluís ascoltava solo quando si parlava di conquiste, guerre civili e parate di generali in trionfo e quanto a me, posso dire solo che quell'uomo mi riconciliò con una città che all'inizio avevo trovato incomprensibile e odiosa, forse gli antichi romani fecero in modo da farmi guardare ai moderni con occhi più indulgenti, ma quell'eccellente maestro non riuscì mai a trasmettermi la passione che sentiva per le rovine e i versi. Grazie a lui so com'era il mausoleo di Adriano prima di diventare Castel Sant'Angelo e il significato del Panteon prima di trasformarsi in Santa Maria dei Martiri, è possibile che un qualsiasi scolaro sappia meglio di me la storia degli imperatori antichi, ma dei pochi che conosco io, il mio preferito è Adriano, non per la sua vita privata né per la sua devozione agli stoici, perché tanto la prima come la seconda cosa mi sono estranee e indifferenti, ma perché più di tutti si dedicò all'occupazione più ingrata tra i doveri di un principe, la buona e e ordinata amministrazione dello Stato. | << | < | > | >> |Pagina 835. Non ha mai smesso di meravigliarmi che in questo secolo e in questa Italia siano una legione infinita quelli che hanno una stima altissima del proprio nome e quindi cercano di lasciarne fama e memoria alle generazioni future, non solo papi, poeti o principi, ma anche sacerdoti, mercanti, pittori di immagini o semplici cavalieri, tutti vogliono lasciare un segno perpetuo su questa terra e sembra, il Signore ci perdoni, che non ci basti la fede nella vita eterna e nella resurrezione della carne gloriosa, vogliamo come una garanzia visibile di perpetuità, che sia un libro scritto, un monumento di pietra o un principato per la continuità del nome. Pio II Piccolomini partecipava corpo e anima a questo fervore dei nostri tempi, dovette pensare che degli anni di austerità e santo operato non erano abbastanza per garantirgli un posto nella lista dei santi e volle assicurarsi la futura memoria trasformando il suo paesino natale in una città di fondazione con cattedrale, piazze porticate e palazzi, diceva: è strano che nessuna città italiana porti il nome di un papa tranne Alessandria, in Piemonte, in onore del nostro predecessore Alessandro III, che era di Siena come noi, evidentemente pensava anche che fondare città e dare loro il nome fosse una prerogativa dei senesi, finché si mise in moto, era gennaio, spedendo mezza corte in Toscana, nel luogo dove sarebbe sorta la futura gloria di Pienza e del papa Pio che le dava il nome, faceva un freddo penetrante e umido, le strade erano gelate sotto la nebbia e gli Appennini erano coperti di neve, ma quell'uomo aveva un'esperienza di grande viaggiatore e non si intimoriva davanti a niente, molti anni prima si era trovato coinvolto in una torbida storia di tradimenti e falsificazione di documenti e dovette fuggire in tutta fretta dalla Germania al regno d'Inghilterra e di lì in Scozia e dalla Scozia in Norvegia, dove arrivò, dopo essere naufragato, una notte d'inverno e dovette camminare per ore e ore quasi nudo, con i piedi quasi congelati, durante il viaggio a Siena prelati e cardinali protestavano ogni giorno e maledicevano il Santo Padre che gli aveva imposto quell'inutile sperpetuo, lui sorrideva in silenzio e io ero sempre al suo fianco, cercando di fare buon viso. Pienza non ha mai smesso di chiamarsi Corsignano e di essere una città fantasma, Pio II vi fece edificare molto rapidamente una cattedrale e vari palazzi per i parenti Piccolomini e per il consiglio comunale, e io stesso, per amore al papa e per farlo contento, ci costruii il palazzo del nuovo vescovo, ma con un bello scudo in pietra nel muro raffigurante le armi del cardinale Borgia, giusto perché con il tempo non venisse dimenticato chi l'aveva pagato, oblio che sarebbe stato molto ingiusto perché un conto è la fama dei santi che non costa denari o quella di saggi e eroi antichi e un altro è la fama che perseguono tanti nostri contemporanei, siano capitani di ventura, cardinali o papi, quella che si paga a suon di ducati, per soldi scrivono epigrammi e lodi i poeti, i pittori raffigurano il loro cliente a fianco alla Madonna e gli scultori vi immortalano sui sepolcri di marmo, con i soldi hanno unito i Medici il loro nome alla giusta fama di Firenze, i Montefeltro hanno speso una fortuna per tenere a Urbino una corte più elegante di quella del re di Francia e Sigismondo Malatesta andò in rovina per edificare un mausoleo per sé e la sua amante Isotta e più tardi ebbe il raro privilegio di essere canonizzato al contrario, quando il papa incluse solennemente il suo nome nella lista ignota di condannati e reprobi eterni, Malatesta si divertì molto quando seppe che Roma lo aveva proclamato demonio pubblicamente, e disse che quello valeva quanto tutto l'oro del mondo e che lui non avrebbe mai osato sollecitare un onore simile, ognuno pianta dove più gli conviene le fondamenta della propria celebrità. In quello stesso viaggio, durante i giorni che stemmo a Firenze, conobbi Marsilio Ficino, la cui gloria consisteva nel vivere al servizio di Platone, era figlio del medico di Cosimo de' Medici e mi invitò un giorno ad assistere a un banchetto, cioè a una seduta privata della nuova Accademia che in quegli anni si stava costituendo, Ficino doveva avere più o meno la mia età ed era bellissimo di membra e volto, sembra che le fiorentine gli si arrendessero senza condizioni, ma lui si vantava di non aver mai accettato nessuna resa femminile perché avrebbe significato venir meno alla purezza del culto platonico, adoravano un busto di marmo del filosofo, lo chiamavano san Platone, gli accendevano ceri e gli mettevano fiori davanti e lo leggevano come la parola di Dio nel santo vangelo, solo la cortesia mi impediva di sbadigliare ascoltando quei ragazzi e la loro verbola vacua, il mondo è fatto di luce, amore e bellezza razionale, la vita cosmica piove dal cielo e feconda la terra nelle nozze universali di tutti gli esseri e altre frasi gonfie e vuote di sostanza e pensieri, questo chiamavano teologia platonica e qualcuno dei miei predecessori ha voluto perseguitarla per scarsa ortodossia, ma a me non dà fastidio, semplicemente mi annoia, questo Ficino non sarebbe stato altro che un buon traduttore di greco se non fosse stato per i Medici, che hanno sempre voluto vanagloriarsi di essere mecenati e promotori di spiriti fantasiosi, senza troppo distinguere tra un pacifico Ficino e un pericoloso e lunatico Savonarola, ho già detto che ognuno è padrone di spendere il proprio denaro come vuole e di riporre il proprio nome e la stima in chi gli pare, il mio nome però non sarà mai legato a quello di un passeggiatore di nuvole né di un agitatore di folle ignoranti, riposino sia l'uno che l'altro nell'oblio.| << | < | |