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| << | < | > | >> |Pagina 9Nel 1974, durante i lavori di restauro di una casa in via Montecavallo nella parte alta di Assisi, venne alla luce una pergamena ebraica risalente al XIV secolo. Il documento consisteva in un disegno policromo raffigurante scene di vita medievale. Molti si interrogarono sul significato di quel ritrovamento, ponendolo in relazione con le vicende storiche dell'insediamento di una comunità ebraica nella città di Assisi.I proprietari dell'abitazione accarezzarono invece l'idea che quel documento fosse una sorta di mappa segreta, in grado di condurre al tesoro appartenuto ad un ignoto banchiere ebreo vissuto nell'Assisi medievale. Gli esiti delle successive analisi condotte sul testo dimostrarono come si trattasse in realtà solo di una vecchia pergamena liturgica riproducente il Salmo 117, sulla quale uno dei proprietari della casa, ignorando il significato religioso del documento, pensò bene di sovrapporre un comune disegno. Eppure l'incertezza rimane. Gli attuali proprietari della casa sono ancora convinti che quell'immagine sia una specie di codice segreto di accesso ad una favolosa fortuna. E magari hanno ragione loro. Forse per davvero quella è una mappa capace di portare coloro che ne seguono le indicazioni ad una conoscenza più elevata, come avviene per quelle raffigurazioni grafiche presenti negli antichi manoscritti cabbalistici. Una sorta di manuale criptato, le cui coordinate, sei secoli più tardi, un gruppo di donne e uomini di religione ebraica hanno fedelmente interpretato e seguito, arrivando ad Assisi e riuscendo così a mettere in salvo la propria vita. | << | < | > | >> |Pagina 11Molto più tardi ripensando ai giorni di Assisi, Lea si stupiva di come una storia come quella, dai toni potenti e maestosi come certi racconti della Bibbia, non avesse avuto un prologo di uguale forza.Avrebbe voluto uno di quegli incipit che lasciano intravedere subito, nascosto dentro una trama segreta di segni e di simboli, il senso profondo che gli avvenimenti saranno poi destinati ad acquistare. Ed invece fu una vacanza negata dalle autorità, la banale circostanza che favorì l'incontro tra Assisi e la famiglia di Elia Vetrelli, ebreo padovano, uno dei tanti docenti colpiti dal decreto fascista di espulsione degli insegnanti di «razza ebraica» dalle scuole pubbliche italiane. Eppure, con il trascorrere degli anni, Lea arrivò a teorizzare come quel sopruso iniziale da cui ebbe inizio la sua storia fosse tutt'altro che insignificante ma, al contrario, riassumesse perfettamente quella frantumazione delle libertà del vivere quotidiano di cui gli ebrei erano vittime anche in Italia. Quelli come lei in quei giorni non erano più titolari di alcun diritto pubblico né di alcuna facoltà privata. Un ebreo non poteva esercitare l'arte della fotografia o commerciare libri; non poteva vendere articoli per bambini o oggetti di cartoleria; per lui era vietato ottenere la licenza di pescatore dilettante o quella per gestire esercizi pubblici; non gli era consentito ricorrere alla pubblicità sulla stampa nazionale né poteva fare inserzioni di avvisi mortuari; non aveva la possibilità di detenere apparecchi radio né poteva essere socio di cooperative. Gli veniva preclusa la possibilità di coltivare anche la più piccola passione o di praticare la più innocente delle attività. Ad una famiglia ebrea non spettava nemmeno poter decidere liberamente delle proprie ferie. Le veniva cioè negata persino quella naturale consuetudine di sedersi intorno ad un tavolo, versarsi un caffè e, dopo aver discusso, scegliere in quale spicchio di mare o lembo di terra trascorrere il tempo delle proprie vacanze. In quell'estate del 1943, ad esempio, i coniugi Elia e Giulia Vetrelli con le figlie Lea di 17 anni e Natalia di 10 avrebbero voluto andare in vacanza in Valsugana, ma la polizia fascista, alla quale obbligatoriamente gli ebrei dovevano comunicare in via preventiva la località di villeggiatura scelta, non concesse loro l'autorizzazione. «La sede è troppo vicina al confine» fu la motivazione ufficiale del diniego. Così, preso atto del divieto imposto loro, i Vetrelli scelsero di andare a Porretta Terme, sull'Appennino emiliano. Dopo l'8 settembre la situazione diventava però anche per loro ogni giorno sempre più pericolosa, con i tedeschi che perlustravano a fondo la zona e con l'incubo della deportazione nei campi di concentramento che assumeva contorni sempre più reali. Chi veniva sorpreso a nascondere o ad aiutare gli ebrei rischiava pene severissime. Per questo il proprietario dell'hotel dove i Vetrelli soggiornavano, un federale dal profilo severo e dalla voce roca, spiegò loro che non se la sentiva più di ospitarli. Tuttavia propose di trasferirli temporaneamente in una specie di rifugio montano dove, per sfuggire ai controlli, aveva fatto nel frattempo installare l'insegna di clinica privata. Il professore accettò di buon grado e si sistemò con la sua famiglia in quell'edificio disadorno ed assolutamente privo di riscaldamento. Dopo cena, l'ingresso del rifugio, ormai adibito a dependance d'albergo, si animava delle conversazioni degli ospiti, per larga parte ebrei in incognito. Era questo il momento più bello e più atteso. Lea paragonava quell'alternarsi di angoscia e di speranza che scandiva le loro interminabili giornate, ai bagliori intermittenti delle lucciole rincorse da bambina nelle notti della campagna veneta. I loro stessi corpi, che a tratti erano come assorbiti nelle tenebre di un dolore immobile e senza progetti, in altri momenti riuscivano a prendere vigore, trasmettendo, se non proprio una luce, almeno piccoli e incerti fuochi di speranza. In quei dopocena al rifugio, sembrava per qualche momento che il buio lasciasse il posto al calore di quelle parole conquistate e scambiate, attraverso le quali si cercava di condividere informazioni, si immaginavano nuovi e più sicuri rifugi, si elaboravano strategie per sfuggire ai tedeschi. Fu proprio in una di quelle serate che il professore ascoltò senza volerlo la conversazione di due signori, presumibilmente ebrei anche loro, seduti a un tavolo vicino. «Fosse per me» osservava il primo con un tono solenne «saprei bene dove nascondermi per non correre rischi. Me ne andrei dritto dritto ad Assisi. Dicono che c'è un podestà sui generis, uno scrittore amante di San Francesco: una gran brava persona. E poi Assisi è fuori dalle rotte pericolose». Il professore Elia era, prima dell'espulsione, docente di chimica all'Università di Padova, ordinario dell'unica cattedra di chimica fotografica esistente in Italia. Il suo principale filone di ricerca era costituito dai raggi ultravioletti, attraverso i quali si riusciva a fotografare anche nella nebbia. Si trattava evidentemente di una materia di grande interesse bellico se, qualche tempo dopo il suo licenziamento, l'Aeronautica italiana arrivò ad offrirgli una consulenza per potere continuare i suoi studi senza violare (non essendo quella proposta un'assunzione formale) i rigori della legislazione antisemita. Il professore rifiutò sdegnato l'offerta: «Questo razzismo a mezzo servizio» borbottò «mi ferisce ancora più di quello a tempo pieno». Forse proprio in ragione dei suoi studi, egli si attribuiva l'istinto felice di guidare la propria condotta orientandola nella giusta direzione, anche quando la rotta gli appariva oscura ed imperscrutabile come un cielo immerso nelle nebbie. Nella sua indole il rigore scientifico conviveva miracolosamente con un'impulsività molto vicina al fatalismo. Per questo, quando quella sera a Porretta Terme ascoltò la conversazione dei due vicini di tavolo, decise all'istante di seguire l'eco leggera di quelle parole, come se fossero il frutto di chissà quale riflessione approfondita o complesso ragionamento. E fu così che immediatamente comunicò alla famiglia la sua decisione di partire per Assisi. | << | < | > | >> |Pagina 22Forse non fu un caso se il Vescovo, Monsignor Giuseppe Placido Nicolini, scelse proprio Don Aldo come prima persona alla quale rivelare il piano di soccorso agli ebrei. Lo chiamò in disparte, subito dopo la riunione mensile del clero nei locali del Seminario Diocesano. «Ho ricevuto disposizioni dalla Segreteria del Santo Padre» gli disse. «Mi si chiede di offrire assistenza ed aiuto ai perseguitati, in particolare agli ebrei. È questo il volere di Pio XII. Mi raccomando dobbiamo agire con la massima cautela e segretezza».Questo annuncio coincise con la constatazione di come sempre più frequentemente famiglie ebree perseguitate cercavano scampo ad Assisi. Questo poteva apparire strano considerando che, prima dell'8 settembre, non viveva nella città di San Francesco nemmeno un cittadino di religione ebraica. In realtà, Assisi appariva agli occhi degli ebrei perseguitati un rifugio sicuro per tutta una serie di motivi. Innanzitutto vi era la convinzione che la città, grazie al suo enorme patrimonio artistico e monumentale simboleggiato dalla Basilica di San Francesco, avrebbe goduto da parte dei soggetti belligeranti di un trattamento speciale. Un altro fattore che alimentava la fiducia degli ebrei era la presenza in Assisi di un grandissimo numero di sfollati provenienti da tutta Italia che, dopo aver viste distrutte le proprie case a causa dei bombardamenti, avevano iniziato ad affluire a partire dal novembre 1942. Gli sfollati registrati dal Comune verso la fine del 1943 toccavano le 4000 unità. Se a questi si aggiungono le persone ospitate da parenti o amici (quindi non registrate ufficialmente) e quelle rifugiate nei monasteri e nei conventi, ci si accorge di come i profughi avessero ormai raggiunto la stessa consistenza numerica della popolazione residente stabilmente in Assisi. In una simile densità abitativa era più semplice mimetizzare qualche centinaio di ebrei, anche perché la città, grazie alla sua vocazione turistica e spirituale, era abituata ad accogliere forestieri. Per far fronte all'emergenza, in Vescovado operava un Comitato di assistenza profughi che vedeva coinvolti molti volontari. In quei giorni dai camion che arrivavano in Piazza del Comune venivano scaricati centinaia di profughi, come si trattasse di cassette di frutta e di verdura. Occorreva farsi carico di tutti i bisogni di quella povera gente: alloggio, viveri, vestiti; c'erano delle volontarie che insegnavano loro perfino come rammendare gli indumenti. Fu così che, accanto al Comitato Profughi, iniziò ad operare un'organizzazione parallela ma assolutamente segreta, la quale aveva come unico scopo sociale quello della protezione dei rifugiati ebrei. Anima di questo gruppo segreto era appunto il vescovo di Assisi, un trentino di sessantacinque anni, il cui volto rosa e serafico era come rinvigorito da due occhi piccoli e vivaci. Prima di diventare vescovo, Nicolini era stato per molti anni monaco benedettino e di questa sua formazione aveva mantenuto intatto il rigore quasi ascetico. Un alto prelato come lui, che in una Diocesi prestigiosa come quella di Assisi avrebbe potuto ambire ad un'assistenza di prim'ordine, aveva rinunciato persino all'ausilio di un segretario o della governante. Pensavano a tutto sua sorella vedova, Margherita Cagol, e sua nipote Irma. Durante gli anni bui della guerra e della persecuzione nazista, il Vescovado di Assisi fu un punto di riferimento insostituibile per coloro che invocavano un aiuto. Non c'era persona in difficoltà che non provasse a fargli visita, per ottenere da lui un consiglio, acquisire un'informazione, ricevere un contributo economico. La sua opera diventava ancora più preziosa ora che in ballo c'era la sorte di centinaia di ebrei, dei quali proprio lui decideva l'invio in gran segreto presso conventi o monasteri assisani, in attesa di poter procurare loro documenti falsi. Non arretrava di fronte a nessuna necessità, fedele al principio dell' ora et labora. Un giorno, il suo più fedele collaboratore, Don Aldo Brunacci, gli fece presente la necessità di nascondere in un luogo sicuro tutti gli oggetti preziosi degli ebrei rifugiati: libri sacri, ricordi di famiglia, oggetti liturgici. «Bene, Don Aldo, dovremo armarci di coraggio e di cazzuola». Così i due convennero che l'unico modo per depositare in un luogo inaccessibile quegli oggetti sacri fosse murarli dentro gli enormi sotterranei del Vescovado. Come una piccola squadra di muratori, si cimentarono nell'impresa. Il Vescovo voleva a tutti costi provvedere egli stesso all'opera di muratura, mentre il canonico della Cattedrale teneva la candela. Quando invece c'era da usare il piccone, Don Aldo insisteva per eseguire lui il lavoro, con il Monsignore che si limitava ad illuminare. Monsignor Nicolini assunse sopra di se la grande responsabilità di far aprire, per mettere al riparo i profughi ebrei, le porte dei conventi, dei monasteri e, nei casi di estrema necessità, persino quelle delle clausure. I Monasteri delle Clarisse di San Quirico, quello delle Colettine, delle Stimmatine, delle Suore Cappuccine Tedesche e delle Benedettine di S. Apollinare, strutture dotate di una foresteria, erano i più adatti al bisogno perché più sicuri. È evidente come nessuna Superiora o Abbadessa si sarebbe mai spinta fino ad acconsentire ad un'apertura che equivaleva al tradimento per carità di una Regola secolare se non avesse avuto l'assoluta certezza di avere dietro di sé il sostegno della massima autorità ecclesiastica all'interno della Diocesi.
Il Vescovo conosceva la portata di quel vero e proprio
«strappo» al quale sottoponeva gli ordini religiosi. Tuttavia
sentiva anche che, in quel particolare momento, tutto era ormai diverso e più
difficile. Ora Dio, di fronte allo sterminio e
agli orrori dei campi di concentramento, chiedeva che le preghiere di quelle
donne accogliessero tutto il dolore del
mondo, che fossero in grado di coprire le sirene del coprifuoco, di sovrastare
il fragore delle bombe. Voleva che nelle
loro parole quiete, recitate nel chiuso delle celle, penetrasse
come un vento gelido di morte. Solo così le loro invocazioni
si sarebbero innalzate e avrebbero avuto la forza di raggiungere il Signore,
ponendo fine a quella follia di guerra.
Lavorare clandestinamente per salvare centinaia di persone dalla deportazione, eludere controlli, sventare ispezioni, era tuttavia un genere di attività che richiedeva necessariamente un'organizzazione complessa ed articolata. Non potevano bastare né la carità ispirata del Vescovo né la forza solitaria del canonico. C'erano tutta una serie di compiti pratici da sbrigare. Occorreva reclutare un religioso fidato, poco conosciuto (e quindi meno controllato dai tedeschi) in grado di occuparsi dell'organizzazione logistica dell'attività e dell'approvvigionamento delle risorse. Ci voleva una figura abituata a stare in mezzo alla gente, un uomo di fede e d'azione, capace di gettare nella mischia coraggio, carità cristiana ed una considerevole dose di faccia tosta, sia pure applicata al perseguimento di nobili fini. | << | < | > | >> |Pagina 55Nel Monastero delle Suore tedesche di Clausura di Santa Croce, a due passi dalla Basilica di San Francesco, la famiglia Cohen arrivò in un mattino di novembre. I coniugi Giorgio e Hella Cohen e le due figlie Deborah di 15 anni ed Anna di 18 vennero sistemati in due camere della foresteria. Erano fuggiti frettolosamente da Trieste dopo gli avvenimenti dell'8 settembre. La situazione in quella città stava diventando sempre più pericolosa e l'intolleranza antisemita montava ogni giorno di più. Qualcuno aveva tentato di incendiare il Tempio, mentre l'aria intorno alla Scuola Ebraica di Via dei Monti si era fatta irrespirabile. Il periodo della pacifica convivenza tra le due comunità precedente all'emanazione della legislazione razziale, il tempo sereno in cui le madri ebree durante la Guerra d'Abissinia donavano gli anelli d'oro alla patria mentre ai loro figli era consentito santificare il Sabato nelle scuole italiane astenendosi dalla scrittura sembravano tramontati per sempre.I Cohen erano arrivati ad Assisi ricordandosi delle parole del fratello di Giorgio, Primo. Proprio a lui infatti, un padre francescano del Sacro Convento di Assisi, Padre Michele Todde, aveva promesso qualche anno prima aiuto e protezione, nel caso in cui gli ebrei italiani fossero stati perseguitati. Padre Todde tenne fede a quella promessa ed indirizzò Giorgio e la sua famiglia verso Padre Nicacci e Don Brunacci. Padre Rufino accompagnò il giorno seguente i Cohen nella Foresteria. Raccontò alle suore che solo il padre era di religione ebraica, mentre moglie e figlie erano cattoliche. «Mi raccomando,» ripeté più volte a Suor Olga che non era in clausura e fungeva un po' da responsabile dell'organizzazione del Monastero di Santa Croce «non fatevi uscire una parola con nessuno. Se i nazisti scoprono che il padre è ebreo, li sbattono tutti in un campo di concentramento senza aspettare un secondo». L'organizzazione del monastero si divideva in due mondi separati. C'era la clausura, le cui sorelle avevano consacrato la loro vita alla meditazione e alla preghiera; e poi c'era la foresteria, curata da alcune suore (le Schwester) che garantivano un collegamento con la clausura e che si occupavano del funzionamento concreto della struttura. Furono quest'ultime a prendersi cura dei nuovi ospiti ed in particolare di Deborah ed Anna. Le due ragazze vennero mandate a lezione di latino ed italiano da Don Aldo per non farle rimanere troppo indietro nei loro studi. Debora acquistò una grande abilità con il lavoro a maglia, che Suor Olga mise a frutto facendole confezionare guanti per alcune famiglie contadine della zona, in cambio di prodotti alimentari come olio o farina. Deborah era molto incuriosita da quel mondo misterioso e carico di segreti che era la clausura. Spesso provava ad immaginare quello spazio, cercando di accordarsi al ritmo di quelle vite sospese, a quel loro vibrare sotterraneo, solo in apparenza sommesso. Proiettava nel suo sguardo le immagini e i personaggi che gli scarni racconti di Suor Olga consegnavano alla sua avida curiosità. Come la storia di Caterina, la suora ormai vecchia che, entrata tanti anni prima in clausura, non aveva mai visto un'automobile. Caterina chiedeva spesso a Sorella Olga di descriverle l'incedere di quel demone a motore, l'affanno del suo respiro meccanico, tutta felice in cuor suo che Dio avesse pensato bene di dispensarla da quel singolare e pauroso spettacolo. Un giorno, madre e figlie Cohen vennero ammesse al colloquio con la Madre Superiore, attraverso le grate della clausura. Suor Helene le accolse aprendo la tenda che separava le due grate, in un gesto che a loro sembrò un supremo segno di accoglienza. Parlava con un tono che né Anna né le sue figlie avrebbero mai più ascoltato nelle loro vite. Senza peso né accento. Come sterilizzato dal presente. Era come se per parlare lei attingesse da sonorità remote, dove ogni voce esprime e contiene il suo spazio di silenzio. La Superiora confortò i suoi ospiti, rassicurandoli sul fatto che presto la tempesta del mondo si sarebbe placata e che tutte loro stavano pregando giorno e notte perché questo accadesse. Nel frattempo l'organizzazione clandestina assisana si era messa in moto, ed in poco tempo i Cohen riuscirono ad ottenere carte d'identità false che li qualificavano come sfollati di Campobasso. I nuovi documenti riuscirono a regalare loro un briciolo di maggior tranquillità. Avevano preso anche a fare qualche passeggiata nei pressi del monastero. La loro meta preferita era la zona del cimitero, che si apre in mezzo a più valli sotto lo sguardo severo della Rocca Maggiore. Tutto era pace lì intorno. Difficile dirlo per un cimitero, ma era per loro un luogo davvero speciale, un territorio franco in cui ci si poteva perdere ad ascoltare la natura. «Non so se la morte possa essere davvero accogliente» osservò un giorno Giorgio «ma da qui sarei davvero tentato di crederlo». Il giorno prima di Natale, i sedicenti componenti cattolici della famiglia Cohen vennero invitati da Suor Olga a partecipare alla Messa solenne della notte del Santo Natale, celebrata nella bella cappella del monastero. Hella era molto preoccupata e per questo passò in rassegna dentro di sé tutti i modi leciti per declinare quell'invito, ma serza successo. Verso le dieci gli ospiti triestini presero posto nella piccola chiesa. Si sedettero un po' impacciati, mentre un buon numero di militari tedeschi li osservavano dai banchi vicini. Il problema principale per loro era come riuscire a partecipare alla celebrazione senza destare sospetti, dal momento che non conoscevano affatto né i gesti né le parole della liturgia cattolica. Deborah ed Anna avevano deciso di osservare attentamente i movimenti e di ascoltare le parole dei fedeli presenti, per poi ripeterli minuziosamente. Un metodo empirico, che richiedeva però prontezza ed una buona dose di improvvisazione.
Hella non voleva né riusciva a rispettare quel canovaccio.
La frenava il timore di non rispettare il proprio Dio né quello
degli altri, così come il terrore di essere scoperta. Nel dubbio
si convinse che la cosa migliore fosse restarsene per tutta la
durata della Messa inginocchiata, con il volto serrato tra le
mani, come in un eccesso di zelo osservante o addirittura
come in preda ad una sorta di estasi mistica. Raramente riusciva a sollevare lo
sguardo, per il terrore di imbattersi in
quello dei soldati. Aveva come la percezione di assistere dall'esterno a quei
fatti, tanto forte era la sensazione di estraneità per quello che le stava
accadendo. Tutto era irreale: le sue due figlie che ripetevano il Pater Noster,
l'espressione di beatitudine degli aguzzini del suo popolo raccolti in
meditazione a pochi passi da lei, le voci dolci ed ovattate che si levavano da
dietro le grate della clausura. Solo il freddo acuto,
che penetrava nelle ossa nella penombra della cappella rischiarata dalle
candele, conservava il morso della realtà. E a quel freddo Hella si aggrappò con
tutta sé stessa, per tornare a vivere e per riemergere dal fondo.
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