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| << | < | > | >> |Indice9 Introduzione all'edizione italiana Anna Camaiti Hostert 26 Ringraziamenti 27 Introduzione Cos'è la visual culture? 32 Visualizzare 38 Potere e piacere del visivo 44 Visualità 57 Cultura 63 Vita quotidiana Prima parte Visualità 73 Capitolo primo Definizione d'immagine: linea, colore, visione 74 Prospettive 92 Disciplina e colore 96 Normalizzare il colore: il daltonismo 99 La prevalenza della luce sul colore 103 Bianco 107 Coda 111 Capitolo secondo L'era della fotografia (1839-1982) 112 La morte della pittura 119 La nascita dell'immagine democratica 122 Morte e fotografia 129 Dalla foto noir alla post-fotografia 142 La morte della fotografia 145 Capitolo terzo Virtualità: dall'antichità virtuale alla pixel zone 146 Interfacce con la virtualità 152 La virtualità diventa globale 157 Telesublime 160 Realtà virtuale 164 Realtà virtuale e vita quotidiana 168 Identità virtuale 174 Vita di Rete 178 Qualcuno vuole più pixel? 182 Corpi virtuali Seconda parte Cultura 195 Capitolo quarto Transcultura: dal Kongo al Congo 200 L'invenzione del cuore di tenebra 220 Resistenza attraverso il rituale 227 Memoria culturale 232 Nuove visioni dal Congo 239 Capitolo quinto Vedere il sesso 240 Feticizzare lo sguardo 246 Dall'inversione a opposti e ambiguità 251 Vedere il sesso femminile 257 Mescolanze: le politiche culturali di razza e riproduzione 270 Lo sguardo omosessuale: gli occhi di Roger Casement 281 Capitolo sesto Il primo contatto: da Independence Day a 1492 e Millennium 283 Arrivano gli extraterrestri 293 Il ritorno dell'impero 300 Gli alieni visti come il male 306 Trekking 322 Il passato e il presente della Tv Terza parte Globale/Locale Capitolo settimo La morte di Diana: il genere, la fotografia e la nascita di una visual culture globale 332 La popolarità e i cultural studies 336 La fotografia e la principessa 340 Le fotografie in India 344 Il punctum della celebrità 350 Le bandiere e il protocollo: il diavolo nei dettagli 354 La morte e la fanciulla: il simbolo della Nuova Gran Bretagna 356 Il pianeta dei pixel 365 Coda Fuoco 373 Bibliografia 387 Indice dei nomi 397 Indice delle illustrazioni |
| << | < | > | >> |Pagina 27Introduzione
Cos'è la visual culture?
La nostra vita ha luogo sullo schermo. La vita nei paesi industrializzati è sempre più vissuta sotto la costante sorveglianza di telecamere: dagli schermi sugli autobus a quelli negli shopping malls, da quelli sulle autostrade o sui ponti a quelli accanto ai bancomat. Sono sempre più le persone che tornano a guardare il passato affidando i propri ricordi a strumenti che vanno dalle tradizionali macchine fotografiche a videocamere e Webcam. Allo stesso tempo, lavoro e tempo libero sono sempre più imperniati sui media visivi, dai computer ai video-dischi digitali. L'esperienza umana è adesso più visuale e visualizzata di quanto lo sia mai stata nel passato: dalle immagini satellitari a quelle mediche delle sonde ecografiche che possono penetrare nel corpo umano. Nell'era degli schermi visuali il vostro punto di vista è cruciale. Per la maggior parte delle persone negli Stati Uniti, la vita è mediata dalla televisione e, in misura minore, dai film. Il diciottenne medio americano vede solo otto film l'anno, ma guarda quattro ore di televisione al giorno. Oggigiorno queste forme di visualizzazione sono messe a dura prova da media visivi interattivi, come Internet e le applicazioni della realtà virtuale. Nel 1998, Internet aveva già 23 milioni di utenti negli Stati Uniti, un numero che comunque cresceva di giorno in giorno. In questo turbinio di immagini, vedere è molto più che credere. Non è solo una parte della vita quotidiana, è la vita quotidiana stessa. Prendiamo alcuni esempi dal vortice continuo del villaggio globale. Il rapimento del piccolo Jamie Bulger, in un grande magazzino di Liverpool, è stato filmato da una videocamera di sorveglianza, fornendo l'agghiacciante prova della facilità con cui il crimine era stato commesso ma anche scoperto. Tuttavia, a dispetto della teoria secondo la quale una sorveglianza costante determinerebbe un aumento della sicurezza, in questo caso le telecamere non sono state di alcun aiuto nell'impedire il rapimento del bambino e il conseguente omicidio. L'esplosione della bomba alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 è stata filmata, e poi mostrata in una serie di infiniti replay, grazie alle riprese fortuite di un videoamatore e di un'emittente televisiva via cavo tedesca che stava intervistando la nuotatrice americana Janet Evans. C'è qualcuno che guarda e registra in qualsiasi momento. Ma nessuno è ancora stato chiamato a rispondere del crimine. La visualizzazione della vita quotidiana, infatti, non determina necessariamente la comprensione di ciò che vediamo. Quando nel luglio del 1996 il volo 800 della TWA precipitò al largo di Long Island, nello Stato di New York, un gran numero di persone fu testimone dell'evento. I loro resoconti, tuttavia, differivano così tanto che l'FBI finì per dare credito soltanto a quelli meno coloriti e sensazionalistici. Nel 1997, l'FBI realizzò un'animazione computerizzata dell'incidente, servendosi di materiali vari, dalle immagini radar a quelle satellitari. Fu possibile mostrare tutto, eccetto la vera causa dell'incidente — e cioè per quale motivo il serbatoio di carburante fosse esploso; priva di questa risposta, l'animazione fu sostanzialmente inutile. In modo ancora più sorprendente, nel 1991, il mondo ha visto, grazie alle riprese effettuate dalle forze armate americane, le bombe "intelligenti" che si dirigevano verso i loro obiettivi durante la guerra del Golfo. Il filmato sembrava mostrare ciò che Paul Virilio ha definito l'"automazione della percezione", macchine che possono "vedere" il percorso verso la loro destinazione (Virilio 1988, p. 123). Ma cinque anni dopo è emerso che, anche se queste armi "vedevano" sicuramente qualcosa, non erano più precise delle munizioni tradizionali nel raggiungere effettivamente gli obiettivi prefissati. Nel settembre del 1996, i missili Cruise americani colpirono la contraerea irachena due volte in due giorni, ottenendo soltanto che, alcuni giorni dopo, gli aerei americani fossero colpiti dagli iracheni. È vero che la guerra del Golfo non c'è mai stata, come ha provocatoriamente affermato Jean Baudrillard? A cosa dobbiamo credere, se vedere non vuol dire più credere? Lo scarto tra la proliferazione dell'esperienza visuale nella cultura postmoderna e la capacità di analizzare questo dato sottolinea sia l'opportunità sia la necessità che la visual culture diventi un campo di studio. Mentre i vari media visivi sono stati di solito studiati separatamente, c'è bisogno ora di interpretare la globalizzazione postmoderna dell'immagine come vita quotidiana. Studiosi di varie discipline — dalla storia dell'arte, al cinema, ai media studies, alla sociologia — hanno cominciato a chiamare questo settore emergente visual culture. La visual culture ha a che vedere con gli eventi visivi in cui il consumatore ricerca informazione, significato, o piacere attraverso un'interfaccia di tecnologia visuale. Per tecnologia visuale intendo ogni genere di dispositivo ideato sia per essere osservato sia per aumentare la visione naturale, dalla pittura a olio, alla televisione e Internet. Il postmodernismo è stato spesso definito come la crisi del modernismo; in questo contesto, ciò significa che il postmoderno è la crisi causata dal modernismo e dalla cultura moderna di fronte al fallimento della propria strategia di visualizzazione. In altre parole, è la crisi visuale della cultura che determina la postmodernità, non la sua testualità. La cultura della stampa, certo, non sparirà, ma il fascino del visuale – i cui effetti hanno caratterizzato il modernismo – ha dato vita a una cultura postmoderna che è tale soprattutto quando è visuale. Questa proliferazione del visuale ha reso il cinema e la televisione il secondo più grande settore di esportazione degli Stati Uniti dopo l'industria aerospaziale, con un ammontare di 3,7 miliardi di dollari per la sola Europa nel 1992 (Barber 1995, p. 70). Il postmodernismo non è di certo semplicemente un'esperienza visiva. In quello che Arjun Appadurai ha chiamato l'"ordine complesso, sovrapposto e disgiuntivo" del postmodernismo, non c'è da aspettarsi ordine (Appadurai 1990, p. 51). Neppure lo si può trovare in epoche passate, sia se si guarda alla cultura dei caffè del diciottesimo secolo, celebrata da Jurgen Habermas, sia al capitalismo a stampa dei quotidiani e dell'editoria del diciannovesimo secolo descritto da Benedict Anderson. Così come questi autori hanno evidenziato una caratteristica particolare di un periodo come mezzo per analizzare l'intero periodo – nonostante la vasta gamma di alternative – la visual culture è una strategia con cui studiare la genealogia, la definizione e le funzioni della vita quotidiana postmoderna dal punto di vista del consumatore, piuttosto che del produttore. La cultura disarticolata e frammentata che chiamiamo post-modernismo è immaginata e compresa al meglio visivamente, proprio come il diciannovesimo secolo è stato tradizionalmente rappresentato dalla stampa e dal romanzo. Tuttavia, ciò non significa che si possa tracciare una semplice linea di demarcazione tra il passato (moderno) e il presente (postmoderno). Come ha sostenuto Geoffrev Batchen, "l'incombente dissoluzione di confini e opposizioni che [il postmoderno] si ritiene rappresenti non è una prerogativa di una specifica tecnologia o del discorso postmoderno, ma è piuttosto una delle condizioni di base della modernità stessa" (Batchen 1996, p. 28). Interpretata in questo modo, la visual culture ha una genealogia che necessita di essere esplorata e definita, nel periodo moderno così come in quello postmoderno (Foucault 1971). Per alcuni studiosi, la visual culture è semplicemente "la storia delle immagini" legata a un concetto semiotico di rappresentazione (Bryson et al. 1994, p. XVI). Questa definizione produce una quantità di materiale così vasta che né un singolo studioso né un'intera facoltà potrebbero mai trattare esaurientemente l'argomento. Per altri, la visual culture è un mezzo per creare una sociologia della cultura visuale che costruirà una "teoria sociale della visione" (Jenks 1995, p. 1). Questo approccio sembra prestare il fianco alla critica che al visuale sia attribuita un'indipendenza artificiale dagli altri sensi che ha scarso riscontro nell'esperienza reale. In questo volume, la visual culture è utilizzata in un senso molto più attivo, concentrandosi sul ruolo determinante che essa ricopre nel contesto della più ampia cultura cui appartiene. Una storia della cultura visuale di questo tipo metterebbe in evidenza quelle circostanze in cui il visuale è contestato, dibattuto e trasformato in un luogo sempre stimolante per l'interazione e la definizione sociale in termini di classe, genere, razza o preferenze sessuali. Si tratta di una materia decisamente interdisciplinare, nel senso attribuito al termine da Roland Barthes: "Per effettuare un lavoro interdisciplinare, non è sufficiente prendere un 'soggetto' (un tema) e affiancargli due o tre discipline. Lo studio interdisciplinare consiste nel creare un nuovo oggetto, che non appartiene a nessuno". Come ha recentemente affermato uno studioso di scienze della comunicazione, questo lavoro implica "livelli maggiori di incertezza, rischio e arbitrarietà" di quelli a cui siamo stati abituati comunemente fino a ora (McNair 1995, p. XI). Avrebbe poco senso distruggere le vecchie barriere disciplinari solo per costruirne di nuove al loro posto.
Ad alcuni può sembrare che la
visual culture
richieda un raggio d'azione troppo ampio per essere di utilità pratica. È vero,
infatti, che la
visual culture
troverà con difficoltà posto nelle strutture universitarie esistenti. Essa è
parte di un insieme emergente di tentativi accademici post-disciplinari – dai
cultural sudies,
ai
gay and lesbian studies,
agli
African-American studies,
e così via – il cui centro d'interesse supera di gran lunga i confini delle
discipline accademiche tradizionali. In questo senso la
visual culture
è una strategia, non una disciplina accademica. È una struttura interpretativa
fluida, basata sulla comprensione della risposta di singoli individui e gruppi
ai media visivi. La sua definizione deriva dalle domande che pone e dalle
questioni che solleva. Come gli altri approcci menzionati, essa ambisce a
estendersi oltre i tradizionali confini universitari per interagire con la vita
quotidiana delle persone.
Visualizzare Una delle più sorprendenti caratteristiche della nuova visual culture è la crescente tendenza a visualizzare cose che di per sé non sarebbero visive. Alleata di questo movimento intellettuale è la crescente capacità tecnologica di rendere visibile ciò che i nostri occhi non potrebbero vedere da soli, dalla scoperta accidentale dei raggi X da parte di Roentgen nel 1895, alle "fotografie" del telescopio Hubble di galassie distanti che, in realtà, sono trasposizioni di frequenze non percepibili dai nostri occhi. Uno dei primi a richiamare l'attenzione su questi sviluppi è stato il filosofo tedesco Martin Heidegger, che ha parlato di nascita dell'immagine-mondo. Egli afferma che "l'immagine del mondo (...) significa quindi non una raffigurazione del mondo, ma il mondo concepito come immagine (...) Non è che l'immagine del mondo da medievale che era divenga moderna; ma è il costituirsi del mondo a immagine ciò che distingue e caratterizza il Mondo Moderno" (Heidegger 1950, pp. 87-89). Prendiamo un automobilista su una tipica autostrada nordamericana; la progressione del veicolo dipende da una serie di giudizi visivi effettuati dall'automobilista circa la velocità relativa degli altri veicoli e da qualsiasi altra manovra necessaria a portare a termine il viaggio. Allo stesso tempo, egli è bombardato da altre informazioni: semafori, cartelli stradali, segnali di svolta, cartelloni pubblicitari, prezzi di carburanti, insegne di negozi, ora locale e temperatura, e così via. La maggior parte delle persone, tuttavia, considera questo processo così di routine da ascoltare musica per evitare di annoiarsi. Persino i video musicali, che saturano il campo visivo di elementi di distrazione, e che hanno una colonna sonora, adesso devono essere arricchiti da sovrimpressioni testuali. Questa notevole capacità di assorbire e interpretare l'informazione visiva è la base della società industriale e sta diventando ancor più importante nell'era dell'informazione. Non è un normale attributo umano, ma una capacità appresa relativamente di recente. Per il filosofo medievale san Tommaso d'Aquino, non si doveva confidare solo nella vista per effettuare giudizi percettivi: "come si inganna la vista, se l'uomo vuole giudicare per mezzo della vista che cosa è l'oggetto colorato o dove si trova" (Tommaso d'Aquino 1265 ca., II, 385; trad. it. 1975, p. 116). Secondo una recente stima, la retina contiene 100 milioni di cellule nervose, capaci di circa 10 miliardi di operazioni di elaborazione al secondo. L'iperstimolazione della cultura visuale moderna, dal diciannovesimo secolo a oggi, ha tentato in ogni modo di saturare il campo visivo, operazione che continua a fallire, visto che noi impariamo a vedere ed elaborare sempre più velocemente. | << | < | > | >> |Pagina 60Nel cercare una via d'uscita dal labirinto della cultura, la visual culture sviluppa l'idea di cultura espressa da Stuart Hall: "La pratica culturale diviene quindi un regno dove attaccare battaglia ed elaborare una politica". Politica non in riferimento a partiti politici, ma nel senso che è nella cultura che le persone definiscono la loro identità, e che proprio la cultura cambia a seconda dei bisogni di individui e comunità nell'esprimere quell'identità. Nella globale diaspora del mondo postmoderno, gli approcci trans-culturali saranno uno strumento chiave. Sia il modello antropologico di cultura che quello artistico si basano sulla capacità di effettuare una distinzione tra la cultura di un'etnia, una nazione, o un popolo, e un'altra. Sebbene sia stato importante usare quello che Gayatri Spivak ha chiamato "essenzialismo strategico", al fine di legittimare di diritto lo studio della cultura visiva non-bianca e non-occidentale, è ora importante compiere il duro lavoro di portarsi oltre questo essenzialismo, verso una comprensione delle molteplici realtà che coesistono e sono in conflitto l'una con l'altra, sia nel presente che nel passato. Il modo sbagliato di fare ciò è già molto evidente, cioè l'insistenza sul ritorno alla tradizione "alta" del modernismo. La visual culture, al contrario, deve descrivere soprattutto quello che Martin J. Powers ha chiamato "una rete frattale, pervasa di modelli provenienti da tutto il mondo". Ci sono molte implicazioni nel ridefinire la visual culture come frattale, piuttosto che lineare. In primo luogo, ciò preclude ogni possibilità che un unico resoconto chiuso possa contenere tutte le possibilità del nuovo sistema locale/globale, poiché i frattali possono sempre essere estesi. In secondo luogo, una rete frattale ha punti chiave di interfaccia e interazione che sono di complessità e importanza superiore al consueto. Ad esempio, un particolare di un modello di Mandelbrot può essere osservato sempre più da vicino fino a che improvvisamente esso rivela un'altra configurazione del modello. Perciò la sezione "cultura" di questo volume esamina una serie di esempi specifici dell'intersezione di razza, classe e genere nei media visivi, al fine di delucidare le loro complesse operazioni. Anche se il modernismo potrebbe aver sistematizzato questi esempi in una griglia disciplinare, la rete è oggi un modello molto più soddisfacente per la divulgazione della visual culture. Powers non insiste semplicemente su un World Wide Web globale dell'immagine visuale, ma enfatizza i differenziali di potere lungo la rete. Attualmente, si deve riconoscere che la visual culture rimane un discorso dell'Occidente sull'occidente, ma in quella cornice "il punto", come David Morley ci ricorda, "è il modo di pensare la modernità, non tanto come specificamente o necessariamente europea (...) ma solo come contingentemente tale" (Morlev 1996, p. 350) – si vedano i capitoli da 4, 5 e 6. Nel lungo arco della storia, gli euro-americani, per usare un'espressione giapponese, hanno dominato la modernità per un periodo di tempo relativamente breve, che ora potrebbe volgere al termine.La cultura occidentale ha cercato di naturalizzare queste storie di potere. L'esempio forse più lampante di questa condiscendenza, in tempi recenti, è stata l'esposizione del 1984 Primitivismo nell'arte del ventesimo secolo: affinità del tribale e del moderno al Museo di Arte Moderna di New York. Qui le opere dei principali modernisti europei, come Picasso e Giacometti, furono esposte accanto a quelle di culture africane e dell'Oceania, come se l'unica funzione di questi oggetti fosse di essere pertinenti in quanto fonte di influenza formale degli artisti occidentali. Ai pezzi esposti non fu attribuito alcun valore o significato intrinseco, eccetto quello di essere fonte di ispirazione per i superiori artisti modernisti, sui quali la mostra voleva che il pubblico focalizzasse l'attenzione. Dieci anni dopo, il curatore William Rubin non vede nulla di sbagliato in questa strategia: "Il modernismo è una tradizione occidentale moderna, non africana o polinesiana. Cosa dovrebbe esserci di sbagliato se il MoMA mostra arte tribale all'interno dell'ambito dei suoi interessi?" (Grimes 1996, p. 39). Il problema risiede nel credere che l'"Occidente" sia un'entità culturale ermeticamente sigillata, le cui ricognizioni di confine possono far entrare altre culture come fonti per idee occidentali, ma mai come entità equivalenti e interattive. Nel costruire gli approcci alla visual culture, un compito fondamentale è trovare strumenti di scrittura e narrazione che tengano conto della permeabilità trans-culturale delle culture e dell'instabilità dell'identità. Perché, malgrado il recente focalizzarsi sull'identità come un mezzo per risolvere dilemmi culturali e politici, è sempre più chiaro che l'identità è sia un problema che una soluzione per coloro che si trovano tra diverse culture – il che, nella diaspora globale del tempo presente, significa quasi tutti noi. L'artista Verlade Barrionuevo, nato in Perù, ha espresso eloquentemente questo dilemma: Io sono un individuo occidentalizzato. Non dico di essere un individuo occidentale, perché non ho creato questa cultura — io sono un prodotto della colonizzazione (...) Dobbiamo affrontare la realtà. Affrontarla vuol essere consapevole della mia razza mista, riconoscere che io non sono indiano, e che non sono bianco. Il che non significa che ho un'ambiguità, ma che ho una nuova identità: l'identità di un individuo colonizzato. Provo dolore quando vedo cosa la colonizzazione ha fatto delle persone di cui faccio parte — la razza mista. Io non sono un indiano, io ho entrambe le eredità (Miller, 1995, p. 95). Questa esperienza di due o più eredità culturali che contribuiscono a formare una nuova terza forma, è ciò che chiamerò "transcultura", seguendo Fernando Ortiz. Il termine "cultura", nella visual culture, cercherà di rappresentare questa dinamica costantemente mutevole della transcultura, piuttosto che l'edificio statico della cultura antropologica (vedi il quarto capitolo). | << | < | > | >> |Pagina 196Al contrario, il modernismo europeo ha visto se stesso come il logico prodotto finale di una lunga evoluzione lineare. Nell'opinione di George Stocking, i vittoriani hanno cercato di creare "un'unica scala culturale con cui l'uomo sarebbe potuto avanzare facilmente dal gradino dei selvaggi brutali a quello della civilizzazione europea" (Stocking 1987, p. 177). Far riferimento alla cultura come cornice per la spiegazione storica è perciò, come osservato nell'introduzione, un passo pericoloso, ma inevitabile. Nel diciannovesimo secolo e agli inizi del ventesimo, l'antropologia creò un sistema visualizzato di differenziazione culturale i cui effetti sono ancora tra noi, anche se la sua base "scientifica" è stata screditata da tempo. Legata a un concetto di evoluzione che procede in avanti, questa antropologia visiva usò la cultura per uguagliare i differenziali di tempo e di spazio: cioè, le nazioni designate come "occidentali" erano e sono considerate moderne, mentre i paesi "non-occidentali" non sono moderni (Shoahat, Stam 1994). Uno degli esempi più evidenti di questa convinzione ci giunge dalla disposizione dei nuovi musei costruiti all'epoca in Europa, spesso con l'aiuto dello stato. A partire dai progetti di Karl Friedrich Schinkel per l' Altes Museum di Berlino (1822-30), tutte queste istituzioni iniziavano le loro esposizioni con le epoche più lontane e procedevano verso il presente. Il visitatore era guidato attraverso sale ordinate per paese e periodo, in base al principio che ogni epoca avesse il suo spirito peculiare, chiamato Zeitgeist, o spirito del tempo, dal filosofo Hegel. Questa concezione lineare del trascorrere del tempo, scandita dai differenti spazi nazionali, è arrivata a sembrare così naturale, che può essere difficile concettualizzare cosa comporterebbe abbandonarla. Conseguentemente, come ha messo in guardia Foucault, non è più "possibile misconoscere questo intreccio fatale del tempo con lo spazio" (Foucault 1984, p. 11). Lavorare con materiali visuali, in una cornice culturale, significa trovare nuovi modi di intersecare il visivo con tempo e spazio.La concezione antropologica della cultura si fondava su una netta distinzione tracciata tra la "loro" cultura e la "nostra" civilizzazione. Ricercare e scoprire tutti i diversi modi in cui queste culture erano organizzate è stato il compito dell'antropologo. Il presupposto di questo lavoro poteva essere più o meno esplicitamente razzista, ma si fondava sempre su una distinzione spaziale e temporale: là vivono in modo diverso da noi, che equivale ad andare indietro nel tempo. James Clifford ha chiamato questa struttura interpretativa il "sistema arte-cultura", in cui lo status dell'arte occidentale dipende dal suo essere distinta dalla cultura non-occidentale. Entrambe sono inoltre distinte dalle loro controparti negative – ad esempio le riproduzioni commerciali, nel caso dell'arte. Se gli oggetti non-occidentali sono abbastanza apprezzati, come i bronzi del Benin o i vasi Ming, possono essere collocati sul versante dell'"arte" senza disturbare il sistema. Inoltre, Clifford suggerisce che è possibile che l'arte si sposti dalla parte della cultura – come è accaduto al Musée d'Orsay di Parigi, dove l'arte impressionista è stata esposta "nel panorama di un 'periodo' storico-culturale" (Clifford 1988). Nella prospettiva odierna, i monumenti dell'élite culturale e i dati antropologici puntano entrambi in una direzione diversa, verso una moderna cultura visiva che è sempre culturalmente trasversale, e sempre ibrida – in breve transculturale. In questo capitolo, voglio suggerire che i visual culture studies dovrebbero usare la cultura nel senso dinamico, fluido suggerito da Langston Hughes piuttosto che nel senso antropologico tradizionale. Questa concezione è ciò che il critico cubano Fernando Ortiz ha chiamato "transcultura", che non implica "meramente l'acquisizione di un'altra cultura, che è ciò che la parola inglese acculturation in realtà indica, ma il processo deve anche necessariamente includere la perdita o lo sradicamento di una precedente cultura, che si potrebbe definire deculturazione. Inoltre, essa porta con sé l'idea della conseguente creazione di un nuovo fenomeno culturale, che potrebbe essere chiamato neo-culturazione" (Ortiz 1947, p. 103). La transculturazione è dunque un processo a tre vie che comporta l'acquisizione di alcuni aspetti di una nuova cultura, la perdita di alcuni di quelli precedenti, e una terza fase in cui questi frammenti di vecchio e nuovo si risolvono in un corpo coerente, che può essere più o meno completo. Anche se questo processo sembra tipicamente "postmoderno", va ricordato che Ortiz scriveva nel 1940. Data la natura della transculturazione, essa non è un'esperienza che si verifica una volta per sempre, ma un processo rinnovato da ogni generazione a proprio modo. La differenza, alla fine del ventesimo secolo, è che quei luoghi che in precedenza consideravano se stessi come il centro della cultura stanno sperimentando cosa vuol dire passare attraverso la transculturazione. Infatti, come ha osservato Antonio Benítez-Rojo, la transcultura "ci porta verso ciò che giace al cuore dell'analisi postmoderna: mettere in discussione il concetto di 'unità' e smantellare, o piuttosto smascherare, il meccanismo che conosciamo come 'opposizione binaria"' (Benítez-Rojo 1996, p. 154). Piuttosto che continuare a lavorare all'interno delle opposizioni moderniste tra cultura e arte, o civilizzazione, la transcultura offre il modo di analizzare la diaspora globale, ibrida, unita da un trattino, sincretica, in cui viviamo. L'artista cubano contemporaneo José Bedia, che ha lavorato a Cuba, in Messico e negli Stati Uniti, ha descritto come questa esperienza abbia influenzato il suo lavoro: "Il processo – transculturale, per chiamarlo in qualche modo – che è generalmente prodotto nel cuore di molte culture autoctone, ho cercato di produrlo in me in un modo simile, ma inverso. Io sono un uomo con un bagaglio culturale occidentale che, per mezzo di un metodo premeditato e volontario, si sforza di riavvicinarsi a queste culture e per di più le sperimenta in un modo ugualmente transculturale" (Mesquita 1993, p. 9). Nonostante il suo rigore teorico, il lavoro di Bedia fa anche grande uso dell'umorismo. Nella sua opera La piccola vendetta della periferia (1993) Bedia riconosce la fondamentale importanza del viaggio aereo nell'ampliare il mondo transculturale, ma all'interno del cerchio il fulcro dell'attenzione è sul passato. Una stampa che mostra la classificazione delle razze del diciannovesimo secolo colloca un nativo americano, un africano, un asiatico e una scimmia in orbita intorno alla figura di un maschio bianco. La piccola vendetta del titolo deriva dal fatto che la figura bianca è colpita da frecce e da una scure di pietra, strumenti che evocano deliberatamente la tensione tra la presunta modernità del centro e il suo contrario, la periferia primitiva. Bedia riconosce che le categorie razziali continuano a collocare nel passato le persone non-bianche, rispetto all'euroamericano postmoderno. La sua strategia è allo stesso tempo quella di minare alla base queste presupposizioni con l'umorismo, e quella di creare una nuova mappa delle culture nello spazio e nel tempo che non ruoti intorno al maschio bianco. La transcultura è infatti l'esperienza della periferia nei molti secoli passati che è ora ritornata al mittente, attribuendo un nuovo significato alla cultura stessa come, per citare Benítez-Rojo, ciò che "non ha inizio o fine ed è sempre in trasformazione, dal momento che è sempre in cerca di un modo di esprimere quello che non può riuscire a esprimere" (Benítez-Rojo 1996, p. 20). | << | < | > | >> |Pagina 239Capitolo quinto
Vedere il sesso
La sessualità irrompe. Se la cultura è spesso presentata come un oggetto
discreto, una rete senza cuciture di relazioni sociali, la sessualità è la
questione irrisolta che disfa la trama. La coesistenza di cultura e potere evoca
necessariamente un interessamento moderno verso genere, sessualità e "razza".
Piuttosto che vedere la sessualità come un mezzo di formazione dell'identità,
essa può invece essere oggi descritta, per dirla con Kobena Mercer, "come
fattore che costantemente inquieta e sconvolge qualcosa di presumibilmente tanto
stabile quanto l'identità" (Mercer 1996, p. 119). Sebbene le categorie di genere
e sessualità siano state strumenti enormemente creativi per condurre una nuova
ricerca culturale negli anni Settanta e Ottanta, la loro continua instabilità
sta portando verso nuove definizioni della cultura stessa. Infatti, le funzioni
personali e culturali di genere e sessualità non sono coerenti in uno schema
stabile; anzi, posto che queste categorie segnano alcune delle più importanti
distinzioni all'interno dell'umanità, è sorprendente quanto spesso le loro
definizioni siano cambiate nell'epoca moderna. In questo capitolo, esaminerò i
modi in cui la cultura occidentale ha cercato di visualizzare le distinzioni di
genere e sessualità, mentre, allo stesso tempo, creava "fantasmatici" modi di
guardare che sono costruiti attraverso genere e sessualità. In quello che io
chiamo feticismo dello sguardo, ciò che si percepisce non è mai esattamente
uguale a ciò che esiste in senso materiale. Questo fallimento dello sguardo
classificatorio in nessun ambito è più evidente quanto in quello che interessa
di più in questo campo: la vista degli organi sessuali stessi, della
riproduzione e dei suoi frutti.
Feticizzare lo sguardo È un fatto curioso che le due più importanti teorie psicoanalitiche, vale a dire quella del feticismo e quella dello sguardo, si basino sul fraintendimento di ciò che è visto da parte dell'osservatore (soprattutto maschile). Nel suo saggio del 1927 sul Feticismo, Sigmund Freud tentò di dare una spiegazione riguardo al fatto che molti uomini potessero ottenere gratificazione sessuale soltanto mediante uno specifico oggetto materiale, ad esempio la pelliccia o il velluto. Usando il termine coloniale "feticcio", creato dagli europei per (fra)intendere oggetti rituali africani, come i minkisi descritti nel capitolo precedente, Freud creò una sovrapposizione tra razza e sessualità, su cui si ritornerà più avanti. | << | < | > | >> |Pagina 245Infatti, l'aspetto forse più sorprendente sia del feticismo che dello sguardo come sistemi di analisi è il modo in cui le donne sono sistematicamente escluse. Sia Freud che il suo discepolo francese Lacan concordano sul fatto che non esista un feticismo femminile (Apter 1991, p. 103), perché l'intero meccanismo fisico ruota attorno al pene reale e alla paura della castrazione. Dal momento che nello schema freudiano diventare una donna consiste, in parte, nell'abbandonare il desiderio infantile di possedere il fallo, o di essere la madre fallica, in favore di una femminilità passiva, segnata dal passaggio dalla sessualità clitoridea a quella vaginale, non esiste un sistema corrispondente per le donne. Nel sistema lacaniano, la donna è definita, in modo simile, dalla mancanza, dalla sua incapacità di possedere il fallo, che la esclude inevitabilmente dal sistema di significato. Le femministe hanno interpretato questa esclusione delle donne come prova del fatto che l'opposizione binaria della psicoanalisi tra maschio e femmina non sia in realtà niente di più che una ridefinizione del sesso, in quanto sempre e comunque maschile. In questa visione, il sesso femminile non esiste, perché l'intero sistema è organizzato intorno agli uomini e per loro. Nel suo celebre saggio Questo sesso, che non è un sesso, Luce Irigaray afferma che: "La sessualità femminile è sempre stata pensata in base a parametri maschili. Così l'opposizione tra attività clitoridea 'virile' e passività vaginale 'femminile' di cui parla Freud – e molti altri – come tappe o alternative del divenire una donna sessualmente 'normale', sembra un po' troppo richiesta dalla pratica della sessualità maschile" (Irigaray 1977, p. 17).Dall'inversione a opposti e ambiguità Sia la teoria del feticismo di Freud che quella di Lacan della fase dello specchio assumono come origine primaria l'esperienza di riconoscimento che i genitali femminili sono diversi. Forse non era una coincidenza il fatto che Lacan possedesse uno scandaloso dipinto del sesso femminile di Gustave Courbet, intitolato L'origine del mondo, appeso nel suo ambulatorio come se fosse un testamento dell'importanza di questa esperienza visiva. Anche se la differenza biologica tra uomini e donne potrebbe sembrare "ovvia", ci sono stati e continuano a esserci notevoli cambiamenti nel modo di concepire il funzionamento del sistema riproduttivo umano. Questi cambiamenti nell'interpretazione del sesso biologico hanno estese ripercuzzioni. In primo luogo, essi mettono in discussione la convinzione che il sesso sia naturale, mentre il genere sia una costruzione sociale. La logica moderna di sesso, genere e sessualità – che il sesso biologico determini il genere che a sua volta detta la scelta del genere opposto come partner sessuale — risulta essere un castello costruito sulla sabbia. Tuttavia, considerare il sesso come una categoria culturale pone tante questioni quante ne risolve. | << | < | > | >> |Pagina 322Il passato e il presente della TvSi può infatti notare come la televisione popolare americana contemporanea abbia abbandonato la fantascienza in favore dell'opposizione tra un passato eroico e un presente di paranoia. La nozione del futuro come luogo dove i dilemmi contemporanei possano essere risolti è stata semplicemente abbandonata, perché non risultava più convincente per il pubblico contemporaneo. Lo stesso Star Trek era una rielaborazione del mito della frontiera americana in un'ambientazione futuristica ("spazio, ultima frontiera"). La televisione americana ha usato in abbondanza la storia degli Stati Uniti come fonte per storie edificanti, specialmente nel formato del Western. L'ultimo di questi programmi ad apparire sui network è stato Dr Quinn, Medicine Woman, nel quale il Western viene presentato come un luogo aperto e multiculturale, dato che il cliché del massacro degli indiani non è più un elemento accettabile in una trama. Una soluzione più drastica al problema di trovare un'ambientazione convincente per delle azioni eroiche è stata la creazione di programmi ambientati in un passato completamente mitico, come Hercules: The Legendary Journey e Xena: Warrior Princess. In questo passato totalmente fittizio, sia gli uomini che le donne hanno corpi da cartoni animati e muscoli scolpiti. Anche se è un'amazzone, Xena non ha certamente seguito la tradizione di tagliarsi un seno per facilitare l'uso dell'arco e delle frecce. Il programma fantasy per la TV Roar (1997), che ha avuto vita breve, era ambientato nell'Irlanda del IV secolo e cercava di sfruttare la moda degli eroi celtici lanciata da Braveheart, il film di Mel Gibson premiato con l'Oscar. Anche gli eroi di Roar combattono contro gli invasori, i romani, in un mediascape deliberatamente composto di elementi tratti dal fantasy senza tempo Mad Max, dalla moda punk e dai costumi dell'antichità. A differenza della fantascienza, che si affida alla tecnologia per risolvere le situazioni di difficoltà, vedi per esempio la spinta nell'iperspazio e il teletrasporto di Star Trek, questi moderni eroi romantici possono contare solo sul proprio valore. Possiedono, tuttavia, dei poteri straordinari e sono in grado di accrescere le loro capacità attraverso l'intervento di entità magiche o divine. In questo senso, queste serie sono debitrici a giochi come Magic e come il successo commerciale della MUD Dungeons and Dragons. Al contempo, sono portatori di una nostalgia per un passato fantastico nel quale l'essere umano era davvero onnipotente e non era minacciato dalla cibernetica e dalla tecnologia digitale. Come i romantici del diciottesimo secolo, al sorgere dell'era industriale, fantasticavano sulle figure della mitologia celtica e su poeti immaginari come Ossian, così i neoromantici televisivi si sono rifugiati in un passato immaginario per sfuggire ai dilemmi del presente e creare, in quel mondo fantastico, un'umanità più potente, saggia e pienamente autodefinita. A questa fantasia utopica corrono in parallelo serie ambientate nel presente che sfruttano la paranoia e le ansie degli spettatori. Programmi come Millennium e The X-Files ci avvertono rispettivamente che "l'ora è vicina" e che "la verità è là fuori". I superpoteri che Hercules e Xena usano con tanta naturalezza sono ora posti ai margini della società postindustriale, ma le crisi del presente (millennio) li propongono nuovamente. Gli agenti dell'FBI Mulder e Scully in The X-Files (vedi fig. 6.9) sono i Kirk e Spock dei nostri tempi, con l'approccio razionale, scettico e logico di lei che si scontra con la fede emotiva di lui nella "verità" di quello che vede. All'interno di uno scenario che mescola le paranoie dei teorici di sinistra della cospirazione e quelle delle milizie di estrema destra, il governo ha accesso a una notevole quantità di informazioni su attività paranormali che sono classificate X-Files. Mentre Scully e Mulder investigano sull'intricata ragnatela di cospirazioni, fatti e fantasie creata dal programma, la tensione sessuale tra i due personaggi è costantemente trasferita sul piano delle loro differenti opinioni sul soprannaturale. Secondo Mulder, e secondo i suoi fan, quello che è successo nel 1947 a Roswell, New Mexico, sarà sempre la prova della presenza degli extraterrestri, a dispetto della mole di prove portate dal governo per smentirla; al contrario, questi tentativi sono semplicemente la prova di quanto estesa sia la cospirazione per mettere il tutto a tacere. Secondo Scully, un pallone meteorologico è solo un pallone. Il successo del programma dipende dalla rappresentazione di queste posizioni diametralmente opposte, anche se sembra che sia quella di Mulder a essere favorita dagli autori. Sia Millennium che The X-Files si articolano sulla base di un struttura sempre aperta della trama, così che i fan fanno poca fatica a creare filoni narrativi paralleli alla serie; anzi, guardare gli episodi richiede agli spettatori uno sforzo per dare un senso a delle trame intrinsecamente incomprensibili. La rete di fan di Star Trek è sempre stata in contrasto con la Paramount, che produce la serie, al punto che l'ultimo dei molti scontri ha avuto origine dal fatto che la Paramount ha rivendicato il "diritto" all'esclusiva sull'uso del nome Star Trek su Internet, cosa che renderebbe illegali migliaia di siti web creati dai fan. D'altra parte, il network Fox, che trasmette sia The X-Files che Millennium, si è proposto di creare dei programmi che producano un'intensa risposta da parte dei fan. Il regista Chris Carter, proseguendo nella strada intrapresa con il suo successo cult Twin Peaks, inserisce spesso nei programmi dei dettagli provocatori per suscitare la reazione dei fan. Per esempio, nella puntata di Halloween 1997 di Millennium si vede il fantasma che legge il romanzo dell'esistenzialista Jean Paul Sartre L'Età della Ragione in francese, un dettaglio che non aggiungeva nulla alla trama, ma che dava nuovo alimento alla macchina delle speculazioni dei fan. Similmente, in un episodio del 1998 di X-Files un esausto Mulder canta a Scully il classico del soul Shaft, giocando sulla tensione sessuale tra i due che viene attentamente coltivata non dal programma in sé ma dai suoi fan. I programmi di Carter non provano nemmeno a presentare delle risoluzioni drammatiche. Quando sembra che ci si avvicini a una conclusione, si apre semplicemente la porta a un altro intreccio di trame e contro-trame, che riflettono le teorie della cospirazione molto in voga nella vita moderna americana. Il sovraccarico mediatico della vita quotidiana viene intenzionalmente rimandato allo spettatore di X-Files, creando una serie di specchi che sviano apertamente l'interpretazione. In un episodio ormai classico di X-Files "Jose Chung's From Outer Space", un personaggio noto solo come l'Uomo in Nero si fa beffe dei tentativi degli agenti dell'FBI di comprendere l'attività extraterrestre: "I vostri scienziati devono ancora scoprire come le reti neurali possano generare l'autocoscienza, per non parlare della maniera in cui il cervello umano trasforma le immagini retiniche bidimensionali nel fenomeno tridimensionale della percezione. Nonostante questo voi dichiarate con una certa sfacciataggine che vedere equivale a credere" (Lavery, Hague, Cartwright 1996, p. 13). La teorica femminista Donna Haraway ha lanciato un'altra sfida alla nozione scientifica di osservazione, sostenendo che "la visione è sempre una questione del potere di vedere". La studiosa propone invece la creazione di "saperi situati" che riconoscano il punto di vista inevitabilmente parziale di tali saperi: "La visione richiede degli strumenti di visione; un'ottica è una politica di posizionamento. Gli strumenti di visione mediano delle posizioni; non c'è una visione immediata dal punto di vista di coloro che sono soggiogati" (Haraway 1991, p. 193).
Chi guarda un film o sta seduto davanti alla televisione è all'inizio nella
posizione di chi è soggiogato, costretto a seguire la trama così come viene
proposta dagli autori cinematografici o televisivi. Tuttavia molti fan si
rifiutano di rimanere vincolati a un punto di vista dato: estendono la
narrativa, creano interpretazioni alternative e immaginano nuovi finali. In un
certo senso, non accettano di restare nel corpo degli spettatori, come imposto
dall'apparato cinematografico e televisivo, e diventano alieni, mettendo in atto
modi di vedere che non dovrebbero essere possibili. In diversi film della prima
fantascienza, quali
Destinazione Terra (It Carne from Outer Space)
e
L'Esperimento del Dottor K (The Fly,
1958), era in effetti presente un tentativo di rappresentare il punto di vista
alieno (Sobchak 1987, pp. 93-94). Anche se in
First Contact
è rappresentato il modo in cui il borg vede il capitano Picard, non è presente
l'implicazione di invitare lo spettatore a identificarsi con quel punto di
vista. In
Independence Day
viene mostrato un alieno che guarda il conto alla rovescia di un missile, ma
solo per enfatizzare la superiorità umana. Il punto di vista degli alieni è
escluso dalle moderne strutture di potere, così come la cultura coloniale
eliminava il punto di vista dei colonizzati. Nei termini di una sfida alle
strutture di potere geopolitiche, questo è naturalmente un punto di vista debole
da adottare. La maggior parte dei fan di
Star Trek
non aspirano a rovesciare la Federazione dei Pianeti Uniti. Nella vita
quotidiana, però, dove tante persone sono trattate come alieni nelle loro stesse
società, assumere attivamente il punto di vista degli alieni può portare una
forte istanza di liberazione, perché vuol dire avere il coraggio di andare
in una direzione che nessuno aveva osato prendere. In un'epoca dove sembra non
esserci politica nella politica stessa, l'atto di immaginare un futuro diverso è
una pratica sociale che ha effetti culturali estesi ma imprevedibili.
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