Copertina
Autore Guido Moltedo
CoautoreMarilisa Palumbo
Titolo Politica è narrazione
SottotitoloDa Obama a Vendola
Edizionemanifestolibri, Roma, 2011, Contemporanea , pag. 160, cop.fle., dim. 14,4x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-672-7
LettoreElisabetta Cavalli, 2011
Classe politica , comunicazione , paesi: USA , paesi: Italia: 2000 , paesi: Italia: 2010
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Indice


Capitolo 1                                                7
La comunicazione politica nel mondo post-fattuale

Capitolo 2                                               25
"It's the narrative, stupid"

Capitolo 3                                               75
Una narrazione collettiva

Capitolo 4                                              109
Racconto italiano

Note                                                    151


 

 

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Capitolo 1
La comunicazione politica nel mondo post-fattuale



La narrazione, in politica, non è l'ultima frontiera della manipolazione. Può esserlo, certo, anzi sovente è una forma di mistificazione. Ma è innanzitutto una necessità. Negli Stati Uniti, "narrative" è ormai diventata sinonimo tout court di comunicazione. Perché? Innanzitutto per via delle lunghe, interminabili campagne elettorali che, nel caotico universo mediatico di oggi, sono semplicemente inconcepibili come un assemblaggio o una semplice sequenza di informazioni quotidiane sull'attività, sui programmi e sulla biografia del candidato o come un susseguirsi di attacchi e di imboscate nei confronti degli avversari. Una buona campagna elettorale è una storia, è un racconto, nel quale è collocata ogni singola iniziativa, ogni singola parola, ogni singola immagine, come brani di una trama coerente e comprensibile e "vendibile". Ma poiché l'attività stessa di governo — a livello presidenziale e parlamentare, ma perfino locale — ha oggi un'altissima componente di comunicazione, deve anch'essa rispondere ai criteri più sofisticati della "narrative". Il presidente Barack Obama è l'artefice e il protagonista di una storia, così come lo sono le facce più note della politica americana, dall'ex-speaker della camera Nancy Pelosi all'ex governatore della California Arnold Schwarzenegger, dal sindaco di Chicago, Dick Daley, l'ultimo dell'inossidabile dinastia che ha governato la città ventosa per decenni, all'ex-capo dello staff obamiano, Rahm Emanuel, il suo possibile successore.

Il ragionamento dei consulenti politici statunitensi è molto semplice. Non c'è bisogno, dicono, di tirare in ballo le fiabe, che incantano i bambini e li aiutano a misurarsi con una realtà difficile e spesso paurosa: è un tema a cui sono dedicati scaffali di biblioteche. Il racconto è il modo in cui ciascuno di noi, anche da adulti, organizza il proprio vissuto e si mette in relazione con il vissuto degli altri e con la società. La politica deve avere la capacità di "connettersi" con questa attitudine primordiale, specie in un'epoca, come quella attuale, dove tutte le attività umane immateriali, e non solo, sono intimamente intrecciate con la comunicazione, una comunicazione sempre più sofisticata e sempre più pervasiva.

Eppure non siamo affatto di fronte a una strabiliante novità. Da che mondo è mondo, il racconto è sempre stato la forma di comunicazione più diffusa, sotto tutte le latitudini. Ed è noto che le storie sulle vicende dei capi politici si sono sempre scritte. Anzi, molti protagonisti della Grande Storia hanno tenuto a scriverle in prima persona, le loro gesta, o a farle scrivere da resocontisti di fiducia. Θ evidente, peraltro, che le storie sono comunque scritte sul conto di un personaggio pubblico. Ecco perché è suo interesse – questo sostengono gli strateghi politici statunitensi – che sia egli stesso a condizionare al massimo la scrittura del racconto che lo riguarda. Perché comunque saranno gli altri a farlo.

«Raccontare una storia – osserva Carlo Santucci – è come certe esercitazioni di fisica che si facevano al liceo, quando su un piano si disponeva un mucchio di materiale ferroso e sotto si faceva scorrere una calamita che addensa i frammenti e compone diverse figure. Ecco, come il magnete, il racconto è un'energia che raccoglie le varie parti, le connette tra loro, le orienta e costruisce forme. Dal magma emerge una forma e quella forma è come se assumesse una sua necessità, una sua inevitabilità. Tutti abbiamo bisogno di storie, nessuno legge la realtà senza iscriverla in una storia, concatenando i vari eventi, le diverse sensazioni e impressioni, i vissuti, le esperienze. Non c'è un avvenimento che io non collochi in una mia trama narrativa. Ogni storia ha un inizio e una fine, ed è avvincente se ha un epilogo lieto, sia pure provvisorio, a cui possa agganciarsi una nuova storia. Θ coinvolgente, se ti rende partecipe e insieme te ne fa sentire artefice, se sei spettatore e al tempo stesso coprotagonista. Una storia è l'antidoto al caos, dà valore e senso – conferendo loro un ordine – a eventi frammentati, riempiendo l'assenza di senso. Ha una funzione di mediazione e di interpretazione, rispetto al mondo. Ma non deve essere dissonante con la mia idea del mondo e deve essere in sincronia con i tempi in cui si svolge. Attraverso la narrazione – dice ancora Santucci – prendiamo possesso del mondo. Θ un bisogno umano di senso, di finalizzazione, di orizzonte a cui rispondiamo con la narrazione. Ma, attenzione, i fatti in sé sono ambigui, sovente sono sfaccettati. Ogni fatto, nella sua ambiguità e nelle sue sfaccettature, offre una molteplicità di narrazioni, come gli ingredienti di una dispensa, che possono essere la base di un'infinità di ricette. Per questo occorre organizzarli in modo che emerga la direzione e il contesto, e occorre farlo prima che lo facciano gli altri.

La politica oggi – è la morale di Santucci – non può essere estranea a questi meccanismi mentali e sociali».

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Qualsiasi manuale basico di comunicazione considererebbe autodistruttiva, per un dirigente che voglia essere considerato credibile e affidabile, l'assurda corsa al dibattito televisivo, purché sia, o alla "dichiarazione" ai giornali e alle tv, sui temi più disparati. Θ un presenzialismo mediatico così intenso, così frequente che logora e letteralmente "invecchia" precocemente gli uomini politici agli occhi del pubblico. Cinquantenni, sessantenni, finiscono per essere visti e vissuti dagli elettori-telespettatori come dei Matusalemme della politica ed essere considerati disinvoltamente politici da "rottamare".

Eppure, se c'è un esempio riuscito, a sinistra, di un leader che sia riconosciuto protagonista di una "storia" importante e considerato un'icona, senza aver costruito il suo personaggio frequentando i salotti televisivi, ma anzi amministrando con attenzione e parsimonia la sua presenza sui media, è un signore nato nel 1939: Romano Prodi. Θ il leader dell'Ulivo, è il candidato alla guida del Paese che ha battuto due volte Silvio Berlusconi, capovolgendone – probabilmente senza calcolo o consapevolezza – la grammatica comunicativa.

Prodi, infatti, è un comunicatore naturale, a dispetto dell'immagine opposta che gli è stata cucita addosso, solo perché il suo basso profilo mediatico è l'antitesi dell'urlo oggi in voga. Protagonista di un progetto politico forte anche se effimero, l'Ulivo, conferisce ad esso autenticità lanciando messaggi semplici "di vicinanza" all'elettore, senza inventarsi fronzoli artificiosi: per esempio, scalando le vie di montagna in bicicletta, con gli amici di sempre, e non per posa come fa di tanto in tanto il politico che gioca a "fare" l'ambientalista. Θ il presidente del consiglio che, quando può, guida personalmente la sua auto, una station wagon. Che va al caffè e dal giornalaio con la moglie. Che passa le vacanze in una località come tante, niente barca a vela o Capalbio, oppure con la numerosa famiglia nel "castello" di Bebbio, comprato nel '63 per nove milioni, uno per fratello, ospiti abituali Don Ciotti, Vittori l'astronauta con cui collabora un nipote fisico. Θ il presidente del consiglio che va in treno come un passeggero qualsiasi. Che per le vie di Bologna saluta un amico e i passanti. In breve, è autentico il Prodi che ha l'andatura goffa dei ciclisti. Θ un personaggio che comunica. Con il linguaggio del corpo e con la naturalezza di certi comportamenti. Cosa comunica? Θ al vertice del potere ma non è un membro dell'odiata casta: è uno di noi. L'opposto della distanza cinica di Berlusconi e amici, il rovescio dell'ostentata diversità basata su potere e denaro. Ed è diverso dai troppi dirigenti di sinistra che si fanno beccare da Dagospia sulle terrazze romane o nei salotti del potere. Con lui, seppure in due cicli brevi e sfortunati, il centrosinistra ha potuto e saputo "raccontarsi" agli elettori, perché ha trovato il personaggio giusto – non solo il leader – attorno a cui far ruotare la sua storia e i suoi propositi. Con l'obiettivo finale della conquista del governo e della cacciata di Berlusconi. Una storia nella quale perfino la lunga assenza dalla scena politica quotidiana nostrana – quando Prodi è a Bruxelles – si è trasformata in un capitolo cruciale: l'attesa del suo ritorno e l'inizio della riscossa. Certo, l'epilogo della sua ultima, breve, esperienza governativa è stato catastrofico, eppure Romano Prodi non ne è uscito come un leader sconfitto. A riprova della forza della sua storia personale che l'ha messo al riparo dal suicidio della strampalata coalizione che lo reggeva.


Da allora il centrosinistra è tornato a perdere.

Dopo la sconfitta di John Kerry, nelle presidenziali del 2004, Dana Thomas di Newsweek chiede a James Carville come mai i democratici fanno tanta fatica a vincere le elezioni. E lo stratega politico della vittoria di Bill Clinton nel 1994, un'inquietante calvizie alla Yul Brinner, risponde: «Perché i democratici recitano una prevedibile litania: "Io credo nel diritto di scelta della donna. Io credo in un buon sistema scolastico, garanzia essenziale per essere quel che siamo. Io sono a favore del salario minimo". Bla, bla, bla. E come quando facevo il chierichetto. "Credo nella vergine Maria, credo in questo e quello". Il vero racconto – "the narrative" – è questo: "Eravamo peccatori e Gesù è venuto, è morto, è stato ucciso per salvare tutti noi". Ora questa sì, è una storia avvincente. Mentre John Kerry – prosegue Carville – finiva in questa prevedibile litania nella sua campagna elettorale del 2004, Bush se ne venne fuori dicendo: "Ero un ubriacone e sono stato salvato dal potere di Gesù Cristo, e sono stato salvato dall'11 settembre, e sarò io a proteggervi dagli attacchi dei terroristi di Teheran e dagli omosessuali di Hollywood". Θ una narrazione con la quale gli elettori si mettono in relazione. I democratici, invece, hanno come primo riflesso quello di recitare la litania, invece di sviluppare una narrazione coerente e mirata a certi obiettivi. Mi vanno bene molti elementi di questa litania. Ma non è solo recitandola che vinceremo».

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Il Novecento è stato un secolo di grandi narrazioni politiche, che si svolgevano intorno ai grandi partiti di massa e ai loro massimi dirigenti. Erano storie complesse, cariche di simboli, di significati, di condivisioni razionali ed emozionali, di esempi di virtù morali e di figure esemplari. L'azione politica del momento era sempre, costantemente, ricondotta e riconducibile alla storia, all'identità, all'appartenenza e ai "rituali" del partito che la promuoveva e la metteva in campo. Nella cultura comunista c'era addirittura un'utopia palingenetica che agiva da motore della comunità dei militanti e faceva leva su molti elettori. Ma perfino il pensiero riformista socialdemocratico era in un certo senso una mistica che evocava e prometteva orizzonti di progresso e di emancipazione. Erano partiti fortemente identitari.

In quelle stesse forme, nel mondo mobile e dalle appartenenze occasionali, di oggi, rischierebbero di somigliare a delle sette o a organizzazioni di stampo religioso.

Del tramonto culturale dell'epoca dei "grandi racconti", di cui è figlia la politica delle organizzazioni di massa novecentesche, si parla fin dagli inizi degli anni Ottanta, con il dibattito avviato dal pamphlet di Jean Franηois Lyotard, La condition post-moderne, che descrive la condizione post-moderna – l'età post-industriale – nella quale diventano manifeste l'incredulità nei confronti delle "metarécits", le "metanarrazioni", emancipatrici della modernità – in particolare il marxismo e il capitalismo – e la sfiducia nei macrosaperi onnicomprensivi e legittimanti. Eppure anche nell'attuale età post-postmoderna, la politica non può prescindere dalla narrazione. Non può certo ambire – e sarebbe un tentativo anacronistico – a costruire nuove "metanarrazioni", ma è obbligata a tessere narrazioni anche di breve periodo, anche "deboli", ma comunque in grado di consentirle di essere autorevole e non più autoreferenziale.

Ma qualsiasi progetto politico, avverte Carlo Santucci, «deve incorporare il massimo di realtà possibile e ricollocarla in un sogno. La narrazione a questo serve, ad anticipare quell'orizzonte nell'oggi, a suscitare l'energia necessaria perché quel progetto sia palpabile qui e ora. Una storia accogliente e inclusiva, empatica, che abbia "noi" come protagonisti, fa immaginare vividamente la meta verso cui ci si dirige, e quindi attiva tutte le energie necessarie per raggiungerla, stimola il desiderio, la voglia di stare insieme e di condividere un percorso. Una storia che tutti insieme sentiamo di costruire».

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"It's the narrative, stupid". Θ il tormentone che invade ormai da anni i media e la blogosfera americana, riecheggiando il famoso "It's the economy, stupid", lo slogan che guidò e segnò la storica campagna elettorale di Bill Clinton nel 1992.

«Se vuoi essere presidente, devi avere una storia da raccontare. Anzi, meglio, una storia che i giornalisti possano raccontare sul tuo conto». Così inizia una conversazione radiofonica, condotta da Brooke Gladstone con Paul Waldman, di Media Matters for America, un'associazione liberal "cane da guardia" dell'informazione.

Già, ma cos'è una "story", una narrazione, che consenta di competere con successo in una corsa elettorale? Θ una costruzione semplice. Suddivisa in tre parti, altrettanto semplici. Spiega Waldman: «La prima parte spiega agli elettori che cosa non va con il Paese e che cosa non va con il governo. La seconda riguarda il rimedio per quel problema e come apparirà il paese dopo che quel problema sarà risolto. La terza, e la più importante, è perché quel candidato e solo quel candidato è quello che ci porterà lì».

Gli ultimi quarant'anni di campagne presidenziali – i decenni nei quali il rapporto dei candidati con i media è diventato cruciale nelle strategie elettorali – offrono diversi esempi di come la capacità di controllo e di governo di questi tre semplici moduli narrativi sia stata la chiave del successo o dell'insuccesso dei candidati presidenziali.

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George Lakoff è molto apprezzato nel mondo liberal e anche in quello radical, per via della sua teoria del "frame". Sul versante repubblicano c'è un suo omologo, Frank Luntz, che parla invece di "context". Al di là dei termini, i due dicono sostanzialmente la stessa cosa: la politica si gioca più sul terreno della rappresentazione simbolica della realtà che su quello della realtà vera e propria. E chi la definisce vince: definisce se stesso, definisce l'avversario e soprattutto definisce i termini dello scontro. La risorsa più importante a disposizione di un politico, sostengono entrambi, sono i modi in cui le persone, la gente, comprendono il mondo. I loro valori. Le loro visioni. Se riesce a penetrare in questi valori, a dargli forma, a farli emergere, a metterli a fuoco e a restituirli all'elettorato secondo le loro attese, è sulla strada giusta per vincere. In questa lotta per controllare la "realtà politica" con il linguaggio, non ci si misura con l'avversario su una parola o su un'espressione né si polemizza sui fatti. Né si attacca il "frame" dell'avversario. Il tentativo è di affermare il proprio "frame", di renderlo così grande e così rilevante, così onnipresente, così ineludibile da diventare ovvio, come la sfericità della terra. Metterla in discussione sarebbe eresia.

Un classico "frame" conservatore è il taglio delle tasse. Giocare di rimessa su quel terreno, qualsiasi cosa si dica, equivale ad apparire fautori dell'aumento delle tasse. La soluzione? Contrapporre un "frame" altrettanto poderoso. Scegliere il linguaggio giusto per definire il dibattito e per inserire singoli temi economici e sociali all'interno di una "sceneggiatura" politica più ampia. Non basta la litania dei buoni programmi e delle promesse oneste. Le scelte politiche hanno bisogno di un impianto "narrativo" emotivamente convincente per arrivare alla gente.

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Pagina 42

Questa fu la chiave del successo repubblicano nel 2004: sin dall'inizio della campagna elettorale i conservatori inserirono John Kerry nella grande metafora del flip flopper, della banderuola. Ogni commento sul candidato democratico riportava al "frame" di un uomo che tentava, con scarsa coerenza, di coprire tutte le posizioni. I democratici invece attaccavano Bush su diversi fronti, senza trovare un filo conduttore che legasse le azioni offensive. Il risultato fu che a Kerry rimase addosso un'etichetta, a Bush nessuna.

L'approccio di Lakoff non presuppone negli elettori un alto livello né d'intelligenza né di maturità. Non c'entra, in realtà, né l'una né l'altra. Il terreno mentale è piuttosto quello conflittuale della razionalità e dell'emotività. Per Lakoff è sbagliato presumere che gli elettori siano razionali nell'operare le loro scelte. Non si basano sui fatti, ma sono programmati per rispondere ai "frame" della parte inconscia del pensiero. Se le parole e le azioni dei candidati non rientrano in quei frame, semplicemente vengono scartati.

All'apice del suo successo, per molti democratici delle più diverse tendenze, Lakoff era solo un guru. Per i suoi detrattori, il professore di Berkeley aveva la grave responsabilità di avere creato un comodo alibi ai democratici. Con le sue teorie, nascondeva e addolciva una verità ben più amara: non sono le parole giuste che mancano ai democratici, ma le idee. «Invece che offrire una seria strategia politica – osservava Marc Cooper – Non pensare a un elefante! è un libro di self-help per tutta una fascia di liberal disperati che ancora non riescono a credere come il loro messaggio di buon senso sia stato frainteso da masse eternamente ingannate». Per altri critici la sua non era che "junk science", scienza spazzatura, «l'equivalente – scriveva Mark Z. Barabak – di una dieta che ti consente di mangiare tutto quello che vuoi e di dimagrire due chili al giorno». Per altri ancora, Lakoff era speculare a Frank Luntz, lo stratega del Partito repubblicano che per primo aveva teorizzato la guerra delle parole come principale campo di battaglia politico. Fino ad ammonire i suoi adepti repubblicani, nel suo memo The New American Lexicon 2005, che «se si è tentati di contrattaccare usando fatti e dati, occorre resistere a questa tentazione».

Certo, è evidente che non basta un paio di slogan sia pure efficaci per cambiare i rapporti di forza nella società americana, replicava Lakoff. Per cambiare il pensiero politico americano occorreranno anni, forse decenni. E soprattutto, ovviamente, non basta un nuovo linguaggio, servono nuove idee. Senza mai dimenticare che – parole di Ludwig Wittgenstein – «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo».

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Pagina 56

Le amministrazioni americane sono spesso ricordate con lo slogan che diede il senso di marcia e il segno profondo della loro "missione" politica. Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt, la "Nuova Frontiera" di John Fitzgerald Kennedy, la "Grande Società" di Lyndon Baines Johnson, il "Nuovo Inizio" di Ronald Reagan. Un aggettivo e un sostantivo: erano i titoli di una narrazione. Che iniziava nella campagna elettorale e si sviluppava negli anni della presidenza, con l'ambizione di consegnarla alla Storia. In certi casi è stato così: il "New Deal", innanzitutto. In altri, il peso degli avvenimenti ha oscurato slogan che in tempi normali avrebbero lasciato una traccia indelebile e duratura: la "Great Society" è stata la stagione di più avanzato e radicale riformismo in America, eppure Johnson è e resterà nella storia come il presidente della guerra in Vietnam.

Per quanto strano e perfino paradossale, il leader politico che, a giudizio unanime, è il migliore comunicatore della recente storia statunitense, nei primi due anni alla Casa Bianca, i più propizi per un presidente, non è riuscito a costruire una "compelling narrative" condensabile in due parole. Il candidato del "change", della "hope", dello "yes we can", il politico che ha fatto della parola un'arma invincibile, non ha trovato la forza e la capacità di affermare e diffondere una "narrative" presidenziale e tanto meno di condensarla in un "titolo".


C'è qualcosa che non torna nello scarto tra il suo iperattivismo e il misero riscontro della sua popolarità che, nel primo biennio di amministrazione, è stata segnata da un inarrestabile declino nei sondaggi, a partire dai primi tempi della cosiddetta "luna di miele", quando un presidente fresco di elezione gode della poderosa spinta della vittoria. Fino alla cocente sconfitta del voto di metà mandato. Troppo alte le aspettative, è il ritornello costante dei commentatori. Ma il fatto è che i risultati ci sono, e allora, cosa è successo? Perché Obama "perde vincendo", per parafrasare il titolo di un pezzo di John Harris e Jim VandeHei su Politico? L'elenco, piuttosto lungo, parte dalla "fuga degli indipendenti": il presidente, checché ne dica la nuova destra dei tea partiers che lo temono come l'incarnazione di Stalin, è un centrista. Lo è sulla politica estera, sull'istruzione, sull'immigrazione. Ma lo è meno sui temi come la spesa pubblica e l'economia che stanno al centro dell'agenda degli elettori. Su quei fronti è un liberal (che poi lo sia per convinzione o per circostanze è un altro discorso), e questo spaventa gli indipendenti. Il suo rifiuto di definirsi ideologicamente lo espone poi a critiche da ogni parte, anche da quel mondo di opinionisti e blogger liberal che il cambiamento fingono di non vederlo, ma vedono e castigano la mediazione e il compromesso. Ma poi, soprattutto, c'è l'economia. E non bastano i cartelli che il governo sta mettendo nei luoghi dove sono stati spesi i soldi di quella manovra. O i viaggi attraverso il Paese, a sottolineare che lui non è rimasto incastrato nella Washington che l' "ordinary American", l'americano comune, detesta. A leggere i sondaggi, gli americani si fidano ancora di lui, ma non sono convinti dell'efficacia e della bontà delle sue politiche. Il messaggio, insomma, non arriva.

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Capitolo 4
Racconto italiano



Centoventicinque pagine a colori su carta patinata, ricche di testi, tutti brevi, e tante foto, molte rare o introvabili. Seimila tonnellate di carta. Due miliardi e mezzo di pagine stampate. Un costo di diverse decine di milioni, più le spese di spedizione. Θ l'aprile del 2001, a ridosso delle elezioni che vedranno la vittoria della Casa delle Libertà, e una valanga di chiacchiere e di immagini sommerge le case degli italiani. Oltre 21 milioni di famiglie ricevono, per posta, una copia di Una storia italiana, la biografia di Silvio Berlusconi. Narra le gesta del Cavaliere, dalle palazzine di Milano 2 alla televisione, dai trionfi sportivi con il Milan fino alla "discesa in campo" in politica. Stampata dalla Mondadori Printing, la pubblicazione, che ha le fattezze di un rotocalco, comincia con "Il carattere e le passioni: la vita di Silvio Berlusconi, l'infanzia, l'adolescenza, i compagni di scuola", per proseguire con gli intriganti "Piccoli segreti di Silvio". E poi via verso "Lo stile di vita: come si veste e cosa ama il leader di Forza Italia", e ancora "Gli amici di sempre", quelli che "lo hanno accompagnato negli anni", Marcello Dell'Utri, Gianni Letta e Fedele Confalonieri όber alles. Nelle tappe successive l'agiografia racconta come "Costruire un impero" e "La passione sportiva" del Cavaliere. Solo in ultimo l'avventura politica, la nascita di Forza Italia, il primo governo, e poi "La traversata del deserto", il periodo all'opposizione e "la lunga lotta per la libertà".

La pubblicazione rinverdisce un fortunato filone editoriale tipicamente italiano. Quello dei rotocalchi come Gente e Oggi, settimanali con grande spazio per le fotografie, lunghe didascalie, di rapida lettura e, soprattutto, ampiamente dedicati alle vicende della famiglia Savoia e di altre teste coronate. Nell'Italia repubblicana, per decenni il racconto agiografico, riccamente illustrato, dei fatti pubblici e privati delle dinastie monarchiche – italiana in primis, ma non solo, – era una lettura ghiotta per molte famiglie e, in buona misura, surrogava l'assenza della narrazione delle vicende dei protagonisti della Prima Repubblica, rigorosamente tenute al riparo dal gossip.

Una storia italiana è la più clamorosa operazione di distribuzione mai messa in campo dall'industria editoriale italiana, un'impresa ciclopica, la più ambiziosa nella lunga storia del potere berlusconiano. Presentando alla stampa l'iniziativa, Luigi Crespi, lo stratega-sondaggista di fiducia di Berlusconi, spiega che essa è stata escogitata per rispondere alla «valanga di fango» gettata contro Berlusconi. Serve «per coprire il problema di queste notizie false che rischiano di lasciare qualche segno perché delle falsità alla fine qualcosa attecchisce», aggiunge Crespi.

Anche se nettamente in testa nei sondaggi, Berlusconi sembra allarmato dal diffondersi di una "storia" negativa sul suo conto messa in giro dai soliti "comunisti". E risponde come sa far lui. Ancora una volta la campagna degli avversari diventa un'occasione per rilanciare e consolidare la sua "narrazione". Infatti, anche questa titanica operazione d'immagine servirà a irrobustire i caratteri salienti del suo percorso nella politica italiana, fin dal suo esordio nel 1994. La suggestione, cioè, di un permanente racconto delle sue gesta, nel quale i dati pre-politici e anche anti-politici, emozionali e psicologici, sentimentali e irrazionali, sono il terreno principale del suo rapporto con l'opinione pubblica: con il suo elettorato ma anche con i suoi avversari, che con il loro "antiberlusconismo" finiscono per contribuire alla costruzione del suo "edificio" narrativo.

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Pagina 120

Anche nello scenario leghista, c'è un capo assoluto. La leadership di Umberto Bossi è incontrastata e perfino superiore a quella di Berlusconi: officiando i riti annuali di mistica padana e pagana con l'ampolla alle sorgenti del Po e poi nel raduno leghista di settembre a Venezia, assurge addirittura allo stato di "gran sacerdote" di un movimento con i tratti evidenti della setta. Al tempo stesso, tuttavia, la sua figura di dominus immortale della Lega Nord è incastonato in un elaborato mosaico immaginifico, che egli sa costantemente alimentare, rinnovare e rafforzare, anche proponendosi come role model per il popolo padano.

Nella trama berlusconiana, Silvio è un capo unico e irripetibile e inimitabile. Ci si può anche identificare in lui, si può sognare di raggiungere la sua fortuna, ma il fondatore di Forza Italia, con la vita quasi leggendaria nelle sue ville e con le sue donne e con il suo Milan, è un monarca per il quale provare invidia o ammirazione, ma che non contempla repliche. Umberto Bossi, al contrario, è un capo da seguire e un'icona da imitare. Dalla camicia verde alla canottiera, dal sigaro alla pernacchia e al dito medio alzato, dalla cadenza lumbard alle vacanze a Ponte di Legno, è l'incarnazione di una storia congegnata per essere condivisa dai suoi seguaci e per diventare, così, una parte consistente della "narrazione" del Carroccio. La biografia del capo è parte cospicua della biografia del movimento nordista.

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Questa concomitanza di vicende apre due finestre di riflessione sulla "narrative" dell'attuale comunità progressista italiana. La prima è che, non avendone una propria, consapevolmente e strategicamente elaborata, il Pd racconta se stesso, al Paese e ai suoi militanti, attraverso una serie di episodi conflittuali – come quelli citati – che confermano la definizione di Massimo D'Alema: «un amalgama mal riuscito». La seconda è che difficilmente riuscirà a costruire una "narrazione" di se stesso, il Pd, se il campo del dibattito sarà occupato da due posizioni apparentemente contrapposte, ma in fondo coincidenti nella loro obsolescenza comunicativa: la prima, di chi pensa di ridurre le questioni simboliche a pure operazioni di marketing politico, come nel caso del logo del partito, o di bon ton, come nel caso del "compagni e compagne"; la seconda, di chi considera prioritari programmi e contenuti per poi costruirci intorno l'opportuna confezione a uso mediatico. C'è poi la terza posizione di chi riduce tutti i problemi al Problema della leadership. Ma se non ci sente tutti parte di una comunità, della stessa comunità, il leader finirà per essere solo il mediatore tra le diverse posizioni e tra le varie fazioni, non l'interprete principale, la bandiera, di una "narrazione" costruita insieme e coinvolgente. Ma c'è una comunità di popolo di centrosinistra, oggi, che possa essere il terreno fertile su cui coltivare e far crescere la "narrative" dell'era segnata dalla nascita del nuovo millennio, o c'è solo una nomenklatura senza base? In realtà, una comunità c'è, ci sarebbe, ed è quella che si è vista alle primarie e di cui i dirigenti del centrosinistra, anche i loro fautori a oltranza, hanno pensato bene di usare-e-gettare, invece di capitalizzarne l'enorme potenzialità, temendo la riapparizione sulla scena del "popolo delle primarie" come vero protagonista di una "storia" non più occasionale.


Osserviamo le primarie in Puglia del gennaio 2010. Neppure un minuto dopo la prova di straordinaria partecipazione ai duecento seggi pugliesi, il confronto prende la piega seguente nel quartier generale piddino: invece di analizzare, innanzitutto, quel che è successo, ci si divide sul cui prodest del fenomeno. Quasi una resa dei conti tra i predicatori delle primarie e i fautori del primato del "partito" e della sua organizzazione gerarchica. Con i primi a sostenere che gli oltre duecentomila pugliesi hanno detto un no alla prospettiva d'intesa con Casini, e i secondi a ribadire che non hanno affatto inviato alcun messaggio "politico" se non quello di voler avere voce in capitolo nella scelta dei candidati. D'altra parte, anche questa volta, come nelle precedenti edizioni, i custodi stessi della mistica delle primarie si limitano a esaltarne l'aspetto puramente metodologico. Nessuno osserva che le code ai seggi "raccontano" ben altro: donazione di soldi (che non sono solo benedetti e puliti finanziamenti, ma anche il segno di una partecipazione davvero motivata), indirizzi postali e di posta elettronica, numeri di telefono. Un messaggio chiaro: "non perdiamoci di vista, ma teniamoci in contatto per continuare a lavorare insieme". Ma a tutto questo non è mai seguito un ragionamento pubblico e comprensibile sulla destinazione dei fondi raccolti, né tanto meno la costituzione di una banca dati centrale che raccolga quei nomi e attivi una qualche forma di organizzazione permanente per metterli in relazione e in rete tra loro e con la "testa" del partito. Sono ormai milioni di nomi. Milioni di dichiarazioni di disponibilità a rimboccarsi le maniche. Milioni di persone disponibili a essere interpellate. Non ci si è peritati di far eseguire uno studio demoscopico del "popolo delle primarie" per capire chi è, che cosa vuole, ed elaborare e calibrare in seguito messaggi politici consequenziali, per coinvolgerli e motivarli. Non si è tentato di capire come uscire da un'occasionalità capricciosa ed effimera con cui si continua a ricorrere al metodo delle primarie né a come strutturarle in modo credibile, anche per cogliere i benefici più duraturi che esse offrono al di là della conta dei voti nella giornata in cui si celebrano. Θ importante capitalizzare l'energia che genera la campagna che precede il giorno della conta ma anche quel che può sedimentare dopo. Peraltro, i partecipanti alle primarie sono in genere opinion leader nel loro ambiente di vita, in grado di fare il loro privato "porta a porta", un contagio vitale, se valorizzato, nelle campagne elettorali.

Θ un popolo in movimento, quello delle primarie, ed è un movimento che, nell'epoca attuale, potrebbe diventare quel che un tempo erano le basi organizzate dei partiti di massa, protagonista di una nuova "narrazione" che non è più scritta nei talk show e nelle interviste giornalistiche dei capi, ma nei luoghi deputati al dibattito, in quel che resta delle vecchie sezioni, i circoli, nei social network, attraverso e-mail e sms. Il che già accade, ma in un clima di balcanizzazione delle posizioni, senza che gli infiniti rivoli del dibattito diventino affluenti di una grande corrente narrativa che sia diretta verso il governo del Paese. Le primarie, se non sono vissute dai leader del momento come faticose costrizioni, o come concessioni a chi, anche opportunisticamente, se ne fa portabandiera, sono momenti di aggregazione su cui costruire un percorso duraturo. Il Partito democratico americano non è forse la "Grande tenda" sotto la quale convivono le più diverse tendenze – ideologiche, culturali, territoriali – e che, nelle elezioni primarie, dopo la competizione, trova la sua sorgente di legittimazione, di identità e di coesione?

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Nichi Vendola è stato definito l' Obama italiano, un paragone che lo lusinga e lo incita a impegnarsi in un'impresa difficile, proprio come fece l' outsider dell'Illinois quando sfidò Hillary Clinton, "l'inevitabile" vincitrice delle primarie democratiche per le presidenziali. E divenne il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti. «Obama – ha detto Vendola nel corso di un soggiorno in America – è uno dato per perdente che spariglia i giochi. Proprio come me. Anche lui è un outsider della politica. Nero, diverso, è riuscito a scalzare un establishment bianco e tradizionale che si riconosceva in Hillary Clinton. Come è successo a me: ho dovuto battere due volte il centrosinistra per poi sconfiggere la destra».

Che possa essere l' "Italy's Obama" se lo chiede pure Rosie Goldsmith di Bbc News, che tuttavia preferisce accostarlo innanzitutto a Silvio Berlusconi: «Osservando le performance di Nichi Vendola di fronte alle migliaia di sostenitori, mi colpiscce che lui e Silvio Berlusconi siano alquanto simili. Entrambi oratori carismatici con grandi personalità, sono le rockstar della politica italiana. E tutti e due sono bassi. Tutto qui, per il resto sono agli antipodi».

Dov'è dunque l'analogia tra il 44mo presidente statunitense e il presidente della Regione Puglia?

Come "il figlio delle Hawaii", anche "il ragazzo di Terlizzi" parla di "cambiamento": «C'è bisogno di una nuova narrazione più ricca, capace di far vivere la cultura della complessità, di far cogliere le sfumature. Θ un compito più impegnativo il nostro: d'altronde non siamo nati per arrenderci a un esistente cupo e volgare, ma per provare a capovolgerlo». Dunque, «dobbiamo recuperare un pensiero denso e un'ambizione culturale forte, sempre dentro il recinto della lotta politica. L'impoverimento della discussione politica e del dibattito pubblico uccide la sinistra. A destra quel vuoto viene colmato dallo spazio televisivo, da quella specie di manicheismo volgare, da quel plebeismo piccolo borghese che s'inventa i suoi eroi tra Corona, Lele Mora e le veline».

Non è precisamente una prosa obamiana, che invece è asciutta, fattuale, razionale, ben diversa da quella immaginifica e ridondante dei politici e dei predicatori neri; ma, se funziona, come dicono gli estimatori di Vendola, può ottenere lo stesso effetto presso il pubblico italiano che ebbe quella del candidato democratico alle presidenziali, almeno per farlo emergere come aspirante credibile alla guida del Paese. Poi la sua abilità narrativa, intesa come bravura oratoria, dovrà trasformarsi in capacità di raccontare davvero se stesso, il suo schieramento e il suo progetto di governo.

Obama ha "offerto" se stesso agli elettori: la sua storia unica, che ha saputo "intercettare" la narrazione prevalente in America, giocando innanzitutto la carta della sua multiforme biografia. Anche Vendola propone un personaggio a più facce: di sinistra radicale e cattolico; l'orecchino ma il vestito scuro e la cravatta; gay dichiarato ma legato alla famiglia e ai suoi valori; utopista ma con i piedi per terra e pragmatico come ha dimostrato governando la Puglia; intransigente moralmente ma flessibile politicamente; fermo nei principi ma capace di nuotare in tutte le acque della politica. Se il "bipolarismo" della sua immagine non sarà percepito come una somma di stravaganti contrapposizioni, ma come un insieme armonioso di articolazioni complementari, emergerà con forza la sagoma di una personalità ricca, capace di parlare a uno spettro insospettabilmente ampio di elettori. Non sarà l'ennesimo uomo a una dimensione, qual è il politico tipico odierno di cui nessuno si fida e nel quale non ci si può identificare.

«Nichi Vendola – osserva Maria Laura Rodotà – contestualizza meglio di altri. Gay dichiarato da sempre, governa al secondo mandato una regione del Sud. Postcomunista amato dai giovani di sinistra e da vari anziani di destra, vuol fare il candidato premier dell'opposizione ma scapperebbe subito "per adottare un piccolo abbandonato in Kosovo". Cattolico con abitudini antiche (tiene in tasca un rosario di legno e dice "manco Casini"), convive col fidanzato italo-canadese Ed, giovane, bello, metropolitano e creativo, e l'ha portato nella natia Terlizzi, trenta chilometri da Bari. Queste tre coppie di elementi contrapposti possono essere rimescolate: cattolico ma che vuole adottare fuori dal matrimonio, postcomunista nella complessa e apparentemente destrorsa Puglia, aspirante presidente del consiglio che però fa coming out sulla sua unione di fatto. Anzi no: aspirante presidente del consiglio che perciò — per presentarsi, tutto intero — fa il suo coming out. E dice: "Viviamo insieme da anni. Siamo una coppia morigerata e tranquilla. Ci piace ricevere amici a cena". Come buona parte delle coppie italiane, di qualsiasi orientamento sessuale, in effetti».

Ma, soprattutto, come riconosce un leader di Rifondazione comunista, che pure gli è rimasto ostile dopo la scissione del partito, Nichi è l'unico personaggio che abbia saputo "unire" – parola magica per l'elettorato di sinistra – il suo campo perennemente diviso e, unendolo, sia stato in grado di vincere due volte in un contesto difficilissimo come quello di una regione meridionale, una regione di destra, e di governare. Un leader "larger than life" – imponente, più delle sue dimensioni reali – diventato tale perché, pur candidato di una minuscola forza "radicale" alla presidenza della Puglia, e nuovamente candidato a quell'incarico, è stato ostracizzato con ogni mezzo dal Golia-Pd e dal suo leader massimo, D'Alema, considerato il "padrone" della regione.

Insomma, la "storia" c'è. La voglia di scriverla e di raccontarla, pure. Ma non basterà il talento, ci vorranno strategia e professionalità comunicative per farla arrivare agli elettori e sintonizzarla con la storia prevalente di un Paese che chiede di cambiare la sua direzione di marcia.

Da questo punto di vista, Vendola è già il leader politico italiano più "attrezzato", come dimostra la sua performance nelle elezioni regionali della primavera 2010. Secondo Filippo Sensi, che, di comunicazione politica, se ne intende, «la sua campagna per le primarie è entrata nel marketing elettorale. La cura nei dettagli dei materiali di comunicazione, l'esperienza delle "fabbriche di Nichi", l'uso di Facebook, le video-lettere, gli spot con la mamma nel tinello, addirittura le copie e i tarocchi piazzano Vendola una spanna sopra tutti gli altri: destra, centro e sinistra». Dietro questa capacità di "connettersi" con l'elettorato, giovanile, ma non solo, grazie a un impiego intelligente dei nuovi media, c'è la figura discreta di Ed, o Eddy come lo chiamano i più intimi. Eddy porta in dote una notevole dimestichezza con l'esperienza nord-americana nel campo del socialnetworking e della sua sempre più imprescindibile relazione con la politica. L'ambasciatore statunitense a Roma, David H. Thorne, che ha avuto un ruolo chiave al fianco di John Kerry nella campagna presidenziale del 2004 e poi in quella di Obama nel 2008 occupandosi di comunicazione internet, parla con parole di grande stima per Eddy. Dice che nel panorama politico italiano, personaggi così sono più che rari, e quindi, a maggior ragione, Eddy può dare una marcia in più al suo compagno Nichi. Tra l'altro, i social media stanno avendo l'effetto, anche in Italia, di coinvolgere sempre più persone anziane nel mondo di internet. La "rete" non è più un mondo frequentato solo da giovani, anche nel nostro Paese. Quindi, poter contare su "strateghi" che sanno muoversi bene su questo terreno, sostiene Thorne, è diventata una risorsa decisiva anche in Italia, e «Eddy sicuramente rappresenta quest'arma fondamentale per Nichi».

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