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| << | < | > | >> |IndiceVOLUME PRIMO QUESTIONI INTORNO ALL'ARCHITETTURA 7 Prefazione 9 DANIELE VITALE Introduzione PARTE PRIMA. SUL CONCETTO DI TIPO 13 Capitolo primo Considerazioni intorno alla tipologia PARTE SECONDA. SULL'INSEGNAMENTO 55 Capitolo secondo La proposta pedagogica di Jean-Nicolas-Louis Durand e gli elementi della composizione 75 Capitolo terzo L'opera di John Hejduk o la passione di insegnare PARTE TERZA. SUL TRASCORRERE DEL TEMPO 101 Capitolo quarto Riflessioni sull'evoluzione del tempio greco 131 Capitolo quinto La vita degli edifici e la moschea di Cordova PARTE QUARTA. SUL RUOLO DELLA TECNICA 161 Capitolo sesto L'avvento di una nuova tecnica nel campo dell'architettura: le strutture a telaio in cemento armato 203 Capitolo settimo L'idea di durata e i materiali della costruzione 215 Fonti degli scritti raccolti nel volume 216 Fonti delle illustrazioni 218 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 9SCORRE RAPIDO E IMPREVISTO il tempo concesso agli uomini. Fragile è la loro memoria. Per questo essi tendono a identificare gli eventi con le cose. Per questo aspirano a costruire paesaggi che abbiano stabilità. Solo immaginando corrispondenze con le cose, la memoria può vincere la propria mutevolezza e definire un quadro, solo così trova modo di perpetuarsi e acquista respiro collettivo. Singolare è dunque il destino dell'architettura: perché essa nasce per corrispondere a bisogni concreti, ma ponendosi come fattore di riconoscimento e identità, da subito li oltrepassa e li trascende. Questo spiega la particolarità del suo rapporto con il tempo. Le città e i paesaggi si sono lentamente formati nel tempo e se ne sono nutriti; ma essi rappresentano anche un modo di fermare il tempo, di trattenerlo, di rinchiuderlo nel contorno di una forma. Nel corpo e nella forma rivelano le loro interne profondità, come se vi fosse in essi una misteriosa risonanza delle epoche e delle generazioni. L'architettura partecipa di questa risonanza. Pochi architetti contemporanei conoscono come Rafael Moneo queste profondità e questi riti. Pochi intendono quanto l'attualità sia irretita nell'esperienza della storia. Nel considerare la vicenda della Moschea di Cordova, parla della vita degli edifici, e ne parla come di vita distinta da quella degli uomini. Nelle sue parole risuona l'eco di quelle straodinarie di John Ruskin, e della sua «lampada della memoria». | << | < | > | >> |Pagina 151. IL CONCETTO DI TIPO Interrogarsi sul significato della nozione di tipo in architettura significa interrogarsi sulla natura dell'opera d'architettura. È un passaggio obbligato per poter definire la disciplina e fondare una teoria alla quale appoggiare la pratica professionale che ne segue: in altre parole, rispondere alla prima e basilare domanda su che genere d'oggetto sia un'opera d'architettura, porta inevitabilmente a considerare cosa si intenda per tipo. Ed è proprio questo il mio proposito. Per un verso, un'opera di architettura va considerata in quanto tale, come qualcosa che ha una propria identità. Ciò significa che, come in altre forme artistiche, può essere caratterizzata da ciò che ha di singolare: da questo punto di vista un'opera di architettura non sarebbe classificabile; è un fenomeno unico e non riproducibile. Al pari di ciò che avviene in altre arti figurative, vi possiamo riconoscere certi caratteri stilistici, ma ciò non significa che l'oggetto perda di singolarità. Per un altro verso, si può supporre che un'opera di architettura appartenga a una categoria di oggetti riproducibili, caratterizzati come gli utensili o come gli strumenti da una serie di attributi generali. L'architettura primitiva, sia le prime capanne che le costruzioni arcaiche di pietra, erano concepite come prodotti di un'attività parallela ad altre pratiche e altri mestieri artigianali, come la ceramica, la costruzione di ceste, le tessitura ecc. I primi prodotti di ciò che poi abbiamo chiamato architettura, non erano troppo diversi dagli strumenti e dagli attrezzi che l'uomo primitivo aveva inventato per sopravvivere nell'ambiente che lo circondava: costruire una capanna significava risolvere problemi di forma e di disegno di natura simile a quelli implicati dall'intreccio di una cesta, cioè dalla fabbricazione di un oggetto utile. L'oggetto architettonico, al pari di una cesta, di una ciotola o di una sedia, non solo poteva essere riprodotto, ma era supposto e scontato che potesse esserlo. Tutti i cambiamenti che si producevano nel corso del tempo derivavano da particolarità introdotte dall'artigiano o dal costruttore. Da questo punto di vista l'unicità dell'opera d'architettura era negata. Un'opera d'architettura, una costruzione, una casa, al pari di una barca, di un vaso o di un'anfora, sono definite da caratteri formali legati a problemi che vanno dalla costruzione all'uso e che rendono possibile la loro riproduzione. In base a questi presupposti, si può dire che l'essenza dell'oggetto architettonico sta nella sua ripetibilità. Nominare l'opera d'architettura, darle un nome, costringe per la natura stessa del linguaggio alla tipizzazione. L'identificazione di un elemento d'architettura come la «colonna», o di un edificio come il «tribunale», implica l'esistenza di un'intera categoria di oggetti simili e con caratteri comuni: ciò cignifica che anche il linguaggio riconosce implicitamente il concetto di tipo. Cos'è dunque il tipo? Forse si può definirlo come quel concetto che descrive un gruppo di oggetti caratterizzati da una stessa struttura formale. Non si tratta tuttavia né di un diagramma spaziale né del termine medio di una serie: il concetto di tipo si basa fondamentalmente sulla possibilità di raggruppare gli oggetti servendosi di similitudini strutturali ad essi intrinseche. Si potrebbe anche dire che il tipo consente di pensare per gruppi: si può ad esempio pensare ai grattacieli in termini generali, ma il fatto di riunirli in gruppi permette di parlarne come di immensi palazzi rinascimentali deformati, o di torri gotiche, o di piramidi tronche ecc. Aumentando il grado di precisione, si possono introdurre nuovi criteri di raggruppamento e descrivere nuovi tipi, sino ad arrivare al nome di un grattacielo concreto. Così l'idea di tipo, che respinge apertamente l'idea di individualità, vi fa ritorno quando alla fine trova l'opera concreta, specifica, unica. Tuttavia il concetto di tipo non è servito solo a descrivere l'architettura e il mondo di oggetti da essa creati, ma riguarda la produzione dell'architettura. Se si accetta la nozione di tipo, si capisce come e perché l'architetto inizi ad operare identificando il proprio lavoro con la produzione di un tipo concreto: dobbiamo constatare che all'inizio ne viene irretito, in quanto è il concetto di cui dispone per poter apprendere le cose, l'oggetto del suo lavoro. In seguito interviene su di esso distruggendolo, trasformandolo o rispettandolo. In ogni caso il suo lavoro inizia dal riconoscimento del tipo. Nel processo di progettazione si manipolano gli elementi di una tipologia - gli elementi di una struttura formale - rispetto a una situazione concreta e precisa che caratterizza l'opera come unica e singolare. Ma cos'è una struttura formale? Potremmo mettere a confronto una serie di definizioni opposte. E in primo luogo potremmo richiamare i termini proposti dalla teoria della Gestalt, parlando di centralità e di linearità, di gruppi e di reticoli. Le opere d'architettura che costituiscono nel loro insieme un tipo, sono conseguenza tanto della realtà di cui sono al servizio come dei principi geometrici che danno loro struttura formale, cercando di caratterizzare la forma con concetti geometrici precisi. In questo senso, alcuni testi hanno descritto tutti gli spazi centrali, dalla capanna primitiva alle cupole del Rinascimento, come se appartenessero a uno stesso tipo, riducendo l'idea di tipo e di struttura formale a una pura e semplice astrazione geometrica. Noi crediamo invece che il tipo, inteso come struttura formale, sia legato intimamente alla realtà e a una gamma molto vasta di interessi, che vanno dall'attività sociale alla costruzione. Ciò significa che in una storia concepita a partire dai tipi, gli edifici occupano un luogo e una posizione definiti. E si capisce che in questa linea di pensiero le cupole dell'Ottocento appartengano a una categoria totalmente diversa da quella cui appartengono le cupole del Rinascimento o del Barocco; il che comporta, alla fine, ammettere la specificità dei tipi. Questa riflessione ci spinge ad introdurre subito il concetto di serie tipologica, che deriva dalla relazione che si stabilisce tra gli elementi e il tutto. Il tipo implica la presenza di elementi che, avendo una certa continuità tra loro, formano una cosiddetta serie tipologica; è chiaro che essi possono essere a loro volta letti separatamente e considerati come tipi con entità propria, ma ciò non impedisce che, allorché interferiscono gli uni rispetto agli altri, definiscano una nuova e precisa struttura formale, un «tipo madre» che dà senso alla continuità della serie. Brunelleschi ha introdotto la lanterna come logico coronamento della cupola di Firenze e la sua invenzione è stata imitata per quasi trecento anni. La relazione tra cupola classica e lanterna tardogotica diventa da allora uno dei caratteri specifici più rilevanti della serie vastissima delle cupole rinascimentali e barocche, al punto di poterla considerare come l'aspetto che ne definisce maggiormente la coerenza formale. Quando gli architetti dell'illuminismo tornano ad insistere sul tipo della cupola, alterano totalmente la relazione tra gli elementi che definiscono la struttura formale e in particolare il rapporto cupola-lanterna, dando vita a una nuova forma, a un nuovo tipo. Dunque i tipi si trasformano e altri compaiono al loro posto, allorché cambiano gli elementi sostanziali della loro struttura formale. | << | < | > | >> |Pagina 131DELLA VITA DEGLI EDIFICI SI OCCUPANO poco coloro che oggi scrivono d'architettura. Eppure le opere d'architettura sono coinvolte dal trascorrere del tempo in modi caratteristici, singolari e specifici. Un'opera d'architettura invecchia in modo ben diverso da come invecchia un quadro. Il tempo non è solo patina per un'opera d'architettura e spesso gli edifici subiscono ampliamenti, includono riforme, sostituiscono o alterano spazi ed elementi, trasformando o addirittura perdendo la propria immagine originaria. Il cambiamento, il continuo intervento, che lo si voglia o no, sono il destino di ogni architettura. Il desiderio di tener conto dei continui cambiamenti e di far sì che l'opera architettonica risponda in modo adeguato al trascorrere del tempo, ha spinto ad introdurre i concetti di «flessibilità» e di «multifunzionalità». Essi nascono dall'idea implicita che l'eterna giovinezza di un edificio, la sua resistenza al trascorrere del tempo, si possano conseguire con un progetto aperto, che consenta di adattarsi continuamente a una realtà inevitabilmente mutevole. L'architetto può ottenere che la sua opera sopporti il trascorrere del tempo, a patto che il suo progetto possa essere considerato «aperto». Ma l'esperienza mostra che la vita degli edifici si manifesta attraverso la permanenza nel tempo dei loro tratti formali caratteristici e che di conseguenza essa non sta tanto nel processo di progettazione, quanto nell'autonomia che ogni edificio acquisisce quando è terminata la sua costruzione. In altre parole l'architetto, erigendo una costruzione, crea una realtà perfettamente compensibile in se stessa, grazie ai principi formali implicati nella sua architettura. L'opera d'architettura trascende l'architetto, va oltre l'istante in cui si compie la sua costruzione, e dunque può essere contemplata sotto le luci mutevoli della storia senza che la sua identità si perda con il trascorrere del tempo. I principi disciplinari stabiliti dall'architetto nel costruire l'opera si conservano nel corso della storia, e se risultano sufficientemente solidi, l'edificio può subire trasformazioni, cambiamenti e alterazioni senza cessare di essere nella sostanza ciò che era, cioè rispettando quelle che erano le sue origini. Cercherò di illustrare alcune di queste idee riferendomi alla moschea di Cordova, edificio singolare la cui storia abbraccia un periodo di otto secoli. La chiave di lettura per comprenderne lo sviluppo risiede, così credo, nella sua struttura formale, nei principi sui quali si basa. E questi principi sono stati definiti con abbastanza chiarezza da conservare una loro presenza anche al di là di visibili contraddizioni e da ottenere il rispetto degli architetti che operavano sulla moschea, rimanendo costanti nel corso dei continui interventi. La moschea di Cordova fu costruita da Abderrahman I. Cordova era stata una delle città più notevoli della penisola iberica, sia durante la dominazione romana che più tardi sotto quella visigota. Era l'ultimo ponte sul Guadalquivir e la sua importanza strategica, commerciale e politica venne sempre apprezzata. Abderrahman, principe Omeya, fuggì dalla propria patria per motivi politici interni, stabilendo a Cordova la capitale di un nuovo emirato. Quando ristabilì la pace, dopo avere guerreggiato per anni contro i regni cristiani della penisola, Abderrahman decise di erigere un tempio per proclamare con esso la solidità del nuovo regno indipendente. Il luogo scelto per la costruzione fu, quasi inevitabilmente, quello sacro per antonomasia alla città, dove i cristiani avevano costruito la chiesa di San Vicente, in una posizione che dominava il ponte sul Guadalquivir. Iniziata in circostanze storiche precise, con propositi e intenti che oggi potremmo definire «fondazionali», la nuova moschea di Cordova era per i suoi architetti l'occasione per sviluppare un'architettura esemplare. Membro della famiglia Omeya, Abderrahman si preoccupò che gli architetti rispettassero l'antecedente della vecchia moschea di Damasco, edificio che aveva conosciuto in gioventù. La moschea di Damasco aveva posto le basi tipologiche della maggior parte di quelle successive, stabilendo una volta per tutte, anche se ricorrendo a strutture ed elementi dell'architettura cristiana, l'idea islamica di spazio religioso, uno spazio che riflette un nuovo modo di intendere le relazioni tra uomo e Dio. È evidente che i costruttori della moschea di Cordova ebbero presente quella di Damasco e che pertanto erano coscienti delle nette differenze che sussistono tra teologia islamica e cristiana, differenze che naturalmente dovevano riflettersi nell'architettura. L'Islam enfatizza la presenza onnipotente di Dio, cui è riservato il potere di creare. La deliberata assenza, nella cultura islamica, di immagini create dall'uomo, va dunque intesa come un segno di rispetto a Dio. L'applicazione di queste idee all'architettura ha supposto l'abbandono dell'unità e della singolarità che caratterizzava l'architettura tradizionale dell'Occidente e la comparsa, come contropartita, di un'architettura generica e non particolarizzata. In essa, la nuova idea di preghiera che la religione islamica portava con sé poteva trovare l'atmosfera che le era necessaria: la presenza diffusa di Dio si materializzava nella vastità senza fine dello spazio artificiale della moschea. In altre parole, sia l'assialità e la sequenzialità, che la grandiosa centralità delle prime chiese e basiliche cristiane, sparivano a favore di uno spazio neutro e non caratterizzato. Il centro focale dello spazio cristiano, l'altare, era completamente annullato. Il nuovo centro era la qibla, un «muro di preghiera» continuo con una piccola nicchia, il mihrab, ispirato probabilmente alle absidi cristiani ma privo del loro significato liturgico. Il mihrab, tuttavia, comportava la necessità della simmetria, che appare di nuovo come inevitabile principio formale capace di imporre un certo ordine, anche nelle condizioni di astrazione e di indifferenziazione proprie dell'architettura delle moschee. La chiesa cristiana, longitudinale e processionale, si trasforma in edificio a corte, come in una cittadella sacra in cui la transizione allo spazio coperto deve essere intesa come passo verso la relazione individuale e privata che l'Islam istituisce con Dio. | << | < | > | >> |Pagina 154Che la vita futura di un edificio sia implicitamente iscritta nella sua architettura, non significa che la storia fluisca attraverso di esso sino a trasformarlo in automatico riflesso del trascorrere del tempo. La vita di un edificio è un percorso completo attraverso il tempo, un percorso sostenuto dall'architettura e dagli aspetti formali che la caratterizzano. Ciò significa che, dal momento in cui l'edificio sorge come realtà sollecitata dal progetto, tale realtà si conserva solo in virtù dell'architettura, la quale sperimenta un proprio e particolare sviluppo nel corso del tempo. Si tende a pensare che la vita degli edifici si concluda con la loro costruzione e che l'integrità di un edificio stia nel conservarlo esattamente come lo hanno lasciato i suoi costruttori. Ciò ridurrebbe la sua vita alla realtà consolidata di un istante preciso. Talvolta si può insistere sulla conservazione rigorosa di un edificio, ma questo, in certo senso, significa che l'edificio è morto, che la sua vita, magari per motivi giusti e riconoscibili, è stata interrotta con violenza. Sono d'accordo con le considerazioni che fa Ruskin nella Lampada della memoria, quando spiega le sue idee sul restauro e i problemi che ne derivano. Dice che un edificio senza vita cessa di essere un edificio e si trasforma in un altro tipo di oggetto. Un museo di architettura è qualcosa di impossibile e i tentativi compiuti per crearlo hanno dimostrato che è possibile collezionare solo frammenti di architettura che forse la illustrano, ma che non permettono di afferrare l'esperienza che ciascuna architetttura comporta come fenomeno singolare.Se l'architettura è stata definita con fermezza, rimarrà aperta a nuovi interventi che allungheranno indefinitamente la vita dell'edificio. La moschea di Cordova è forse un esempio eccezionale: i suoi caratteri, i suoi meccanismi formali di composizione sono così solidi che una volta definiti hanno fissato per sempre sia l'immagine che la struttura dell'edificio, senza che né l'una né l'altra siano state alterate in modo sostanziale dagli interventi che hanno avuto luogo nel corso del tempo. Questo modo di intendere la vita degli edifici è molto lontano dai concetti di flessibilità e multifunzionalità proposti dalla teoria architettonica di un recente passato come soluzione ai problemi creati dalla ineludibile temporalità dell'architettura. E insieme, l'idea di «vita» che sto qui proponendo non deve essere confusa con metafore biologiche: faccio riferimento a una vita storica reale, non a una vita analogica. La vita degli edifici si fonda sulla loro architettura, sulla permanenza dei loro tratti formali più caratteristici, e benché possa sembrare un paradosso, è tale permanenza ciò che permette di apprezzarne i cambiamenti. Il rispetto dell'identità architettonica di un edificio è ciò che ne rende possibile il cambiamento, ciò che ne garantisce la vita. | << | < | > | >> |Pagina 203GLI EDIFICI DEL PASSATO COMUNICANO un senso della realtà, una consistenza, che quelli di oggi non possiedono. Questa consistenza implica un'idea della realtà lontana dalla semplice imitazione di esempi conosciuti di tipi architettonici, introducendo per contrasto la categoria dell' astrazione in architettura. Essa ha a che fare con la coerenza esistente tra forma costruita e immagine. In passato, l'atto stesso del costruire portava con sé o implicava in modo univoco la forma e l'immagine dell'edificio. Ciò suscitava un sentimento di autenticità, che è concetto parallelo a quello di consistenza. Il tipo d'astrazione che l'architettura può proporre implica sempre una materialità. Ciò non significa che i materiali abbiano sempre la stessa importanza. Nella facciata di una cattedrale gotica, ad esempio, il problema del materiale è a mio avviso secondario rispetto ai temi iconografici: il modo in cui l'iconografia è imprigionata nella pietra è alla fine più importante che non la pietra in sé. Penso che con ogni probabilità oggi siamo tanto interessati ai materiali, perché avvertiamo che la loro importanza sfugge in qualche modo al nostro mondo. Forse abbiamo perduto i rapporti con il loro significato: forse il nostro atteggiamento denota una certa nostalgia per un'architettura nella quale i materiali giochino un ruolo più importante. Dunque il mio desiderio di dare agli edifici una consistenza che derivi dalla loro materialità, costituisce una risposta deliberata all'evoluzione che oggi quasi inevitabilmente vive il nostro lavoro. D'altro canto, quando gli edifici entrano nel regno della materialità diventano assai più imprevedibili; c'è sempre nel lavoro dell'architetto un certo grado di imprevedibilità che dipende dal materiale. Proprio allora si realizza il passaggio che porta gli edifici dal disegno alla realtà. Penso che si tratti di uno dei momenti più emozionanti per l'architetto.
Il
Museo di Mérida
rappresenta per me certi aspetti di quest'esperienza. In questo progetto la
scelta del mattone è stata decisiva rispetto alla sua natura: esso non sarebbe
stato lo stesso con un altro materiale. Non credo che i muri del museo avrebbero
avuto lo stesso intervallo e la stessa reciproca distanza, se avessimo scelto di
realizzarli in cemento anziché in mattoni. In questo senso la distanza - o se
preferite la sensazione di prossimità - dipende dal materiale. Non molto tempo
fa ho sperimentato con chiarezza questo fenomeno in una mostra dell'opera di
Richard Serra a New York. La scultura di Serra utilizza delle grandissime lastre
d'acciaio. Una critica puramente visuale del suo lavoro porterebbe alla
conclusione che la loro sostanza, il loro effetto principale, sta esclusivamente
nella realtà spaziale generata dalla loro disposizione. Ma se fossero realizzate
in cartone, le sculture non sarebbero affatto le stesse: è in rapporto al peso e
alla particolare qualità dell'acciaio che gli elementi pervengono alla loro
realtà. Analogamente, non avrei potuto realizzare il Museo di Mérida in un
materiale diverso dal mattone. Credo che la giusta distanza tra i muri sia
stata raggiunta: ciò significa che l'idea del materiale deve essere presente
nella concezione dell'edificio.
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