Copertina
Autore Sandro Montalto
Titolo L'eclissi della Chimera
EdizioneJoker, Novi Ligure, 2005 , pag. 214, dim. 150x210x15 mm , Isbn 978-88-7536-033-7
LettorePiergiorgio Siena, 2006
Classe aforismi , narrativa italiana
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Pagina 5

PROLOGO



Sono esistiti, ed hanno opportunamente riflettuto e scritto, centinaia di pensatori, scrittori, poeti, commedianti, battutisti, fustigatori dei costumi, della corruzione e dei fustigatori stessi. Sono stati riscritti, ampliati, censurati, trascritti, tradotti, decifrati - dal momento che scrivere davvero è forse impossibile - più volte la Bibbia, il Corano, il Talmud, codici e regolamenti, decaloghi e manifesti, protocolli e giornali, trattati e parole d'ordine. Tutto ciò rende più inane ma anche meno arrogante l'esecrabile proposito di rendere pubblica una manciata di riflessioni nuove e antichissime, sprezzanti e comprensive, atomizzate eppure rapprese in nebulose di indignazione, sfaccettate e contraddittorie come contraddittorio è l'essere umano. Lampi che si assumono la responsabilità della loro violenza ed accettano l'essere effimeri se si presenta come unica occasione per fare un poco di luce. Tale è il pudore dei letterati: mettere in chiaro la propria piccolezza e il proprio vegetare nel cono d'ombra di illustri predecessori, operare misfatti nell'oscurità e dichiararsi colpevoli allo scopo di essere assolti per aver commesso il fatto.

In questo volume si troveranno frammenti di ogni tipo - autentici mondi, almeno in alcuni casi, che andranno letti dentro e tra le righe, sul rovescio e lungo il margine dei fogli. In obbedienza alla loro origine e storia indulgono a bagliori poetici, episodi moralistici, involuzioni, autoscoíe, prescrizioni, dissimulazioni, sabotaggi e supponenze; inseguono ora la rotunditas ora l'abbreviatio, la continuità nella discontinuità; unica guida la fedeltà alle proprie sensazioni e il rifiuto di ogni dogmatismo sostanziale e formale, condito con una certa ricerca sulla forma breve (consapevoli che la brevità postula sempre una conoscenza condivisa) e qualche serissima risata. Il lettore troverà dunque aforismi in convivenza litigiosa eppure necessaria con frammenti, sentenze, epigrammi, motti, gnòmai, apoftegmi, citazioni, neoproverbi, adagi, microsaggi, massime, ritratti, pensieri, spasmi, poche amenità e qualche parodia (di generi detestabili quali il diario, la lettera o il pensiero ridotto a boutade).

Necessitiamo davvero di una resistenza ad architetture che ci spacciano per solide ed accoglienti mentre sono solo trasparenti e a beni preziosi che sono solamente costosi, di un pensiero che sappia travalicare i generi e raggiungere l'uomo invece di adagiarsi in comode e ben ordinate scaffalature. Non vorrei essere né predicatore né accusatore né inquisitore e nemmeno, non sia mai, idealista: desidero solamente essere un uomo che si guarda attorno e tenta di mettere a nudo le parole, all'occorrenza usando la frusta se le pulci si trasformano in leoni. Occorrono mille armi per fronteggiare mille belve, nonché un caparbio disinteresse nei confronti di chi esige circense secondo copione, siccome l'unità della lotta di un uomo risiede al di là di ogni corso di addestramento, nel suo nucleo più profondo ed intimo.

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Pagina 47

L'eroe che non muore in battaglia è come l'uomo che ha scritto un poema e non può apporre la sua firma. È per questo che non accade quasi mai che un eroe agisca a favore dell'umanità in modo lungimirante e duraturo.


Il tempo libero è un bene prezioso ma instabile, che necessita di competenze specifiche e può distruggere popoli interi.


"Tutto è vanità" dice l'Ecclesiaste. Ma se tutto fosse invece capriccio? O demenza?


La voce di dio resta la più forte perché è l'inarrestabile voce del silenzio.


Molti di quelli che odiano se stessi a volte esprimono solamente un senso di decenza.


È un bene che ci siano gli impulsivi e i violenti, che si consumano come legna al fuoco, così gli altri possono avere calore senza perdere preziose energie.


Com'è disperato il tentativo che molte persone insignificanti attuano di dare un senso a se stesse rendendo solenne ogni minima stupidaggine e quotidianità!


L'ironia, si sa, smaschera la vacuità e rovesciando le situazioni rende la loro esatta immagine: ecco che la fisiologica reazione è la risata, e che il motto non dovrà più essere "una risata vi seppellirà" ma "una risata vi restituirà al vostro niente".

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Pagina 84

La storia e un insieme di avvenimenti importanti dovuti a cause elementari.


L'uomo non vuole sentirsi uguale agli altri perché lo farebbe sentire inferiore.


La moda trascina perché non è che vento.


Nessun libro è bello o brutto: piace o non piace. Ho però in mente una moltitudine di eccezioni.


I libri migliori non sono solo quelli che merita leggere, ma anche quelli che merita rileggere.


Il vizio nasce più dalla soppressione della virtù che dalla sua assenza. Can che abbaia fa rumore.


Le virtù ci danno il piacere di possederle, i vizi ci danno il piacere di esercitarli.


Se fossimo felici delle nostre disgrazie, forse gli altri ci invidierebbero anche quelle.


L'amore fa essere sinceramente falsi.


L'amore verso se stessi non esclude il tradimento. Certe persone sono così stupide da essere inattaccabili.

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Pagina 114

La pittura di Hieronymus Bosch

Quale sublime abisso di luce la pittura di Hieronymus Bosch! Io non sono infastidito, al contrario di tanti, da profano, dalle discussioni riguardanti Bosch che coinvolgono la dannazione eterna, sant'Agostino, le eresie, la riforma di Lutero, il surrealismo ante litteram, il manicheismo, la componente sodomitica, l'astrologia, la psicoanalisi... Capisco persino chi ha classificato tutti i cosiddetti mostri dei suoi quadri ed ha trovato la corrispondente nevrosi, così come capisco chi ha scovato in ognuno di essi un coleottero. Nonostante questo mi convince principalmente l'idea di Bosch pittore inguaribilmente realista. Dire che lui vedeva ciò che c'era e che gli altri non vedevano mi tenta, ma mi accorgo di quanto l'espressione sia frusta. Sono comunque certo che lui dipingesse ciò che vedeva, e non parlo di visioni o incubi e nemmeno di trasposizioni ma di vita vera. Acclarato che la fisiognomica non è una scienza non siamo forse circondati da capre, mucche, vermi, rospi, lucci...? La maggior parte delle persone che conosciamo e vediamo anche solo di sfuggita non hanno forse straordinarie somiglianze con mostri fantastici? Si sa che i suoi contemporanei non provavano lo sbalordimento che proviamo noi davanti ai suoi inenarrabili quadri: nelle loro case e chiese si trovavano astrusità concettualmente maggiori? Essi vedevano i propri ritratti? Non furono sconvolti di fronte a quegli incorniciati giudizi universali così come il laborioso Bosch non fu toccato dai deliri delle confraternite, delle guerre sanguinose e delle tendenze "millenaristiche" del 1500 quanto molti altri artisti suoi contemporanei. Non dovremmo quindi neppure noi essere stupiti ma affascinati, i suoi quadri non dovrebbero suscitare sgomento perché da loro emana coerenza. Ecco che se vogliamo limitarci qui al suo quadro forse più famoso, l'indicibile Inferno musicale che fa parte del Trittico delle delizie, dovremo piuttosto badare a quello che chiamerei il "continuo rimando all'umano": l'uomo che si fa trafiggere dalle corde della lira in posizione decisamente coreografica quasi ad accogliere un applauso, la funzione dei mostri che dipende strettamente dagli uomini/vittima, il "ritorno dell'uomo" nel mostro che divora gli uomini e poi li defeca integri per mandarli forse a un riciclo, il mostro centrale che è stato riconosciuto come l'uomo alchemico dalle gambe ad albero cavo che richiamano il crogiolo e poggiano entro i due vascelli dell'arte e della natura, un volto che alcuni ritengono un autoritratto nella sua generale funzione di testimone. Ciò che mi sconvolge però è l'unica immagine non umana palesemente naturale del quadro (se si esclude il maiale in basso a destra, che ha però la testa coperta da un velo da suora): la testa di coniglio in basso, elemento di una fedeltà al vero impressionante, quasi vivo e pronto a saltare fuori dalla tela, che con la sua tranquillità mi dice come tutto ciò che lo circonda non sia altro che natura (lo stesso coniglio, guarda caso, che emerge iperrealista e allo stesso momento labirintico in Il gioco lugubre di Dalì, l'altro grande genio della pittura). Bosch dipingeva gli uomini che vedeva. Inoltre molti dei suoi mostri vestono armature, strumenti musicali o pentolame assolutamente quotidiani, ricava esseri viventi da gusci e attrezzi di tortura da comunissimi arnesi di lavoro, e tutto ciò testimonia ancora una volta che il genio di Bosch consistette nel saper dare nuova forza all'inerte, nel saper rinnovare il mondo circostante semplicemente anagrammandolo, con amore e senza manomissioni. E con gli occhi bene aperti. La principale lezione di Bosch è la regola del controllo: anche nel quadro più fitto e popolato si percepisce chiaramente la mano ferma del pittore che sovrintende a tutto: nulla è sprecato e nulla è ridondante, così come nulla è inoperoso. Tutto ha una solida struttura e non c'è grido di terrore o ringhio che non partecipi sapientemente all'armonia.

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Pagina 125

"Gli assenti saranno immediatamente puniti".


Chi è nel giusto non è mai agitato: può essere nervoso, ma agitato no.


Nessuno persuade alla pace come chi è ben armato.


L'età è come la donna: c'è qualche speranza di dominarla solo ubbidendole.


Con lo stomaco vuoto non c'è morale, si dice, ma allo stesso modo con la testa vuota non c'è etica.


L'uomo è un tizio che da fastidio.


Le malignità non passano mai di moda: solo i complimenti lo fanno.


I delinquenti possono anche essere stanchi, ma gli stupidi sono inesauribili.


È impossibile inchinarsi senza mostrare il culo a qualcuno.


Un maiale, se vede altri maiali nel fango, non si sente meno disgraziato: quanto è più intelligente dell'uomo!


Chiedersi chi è dio, immaginarlo spaventosamente diverso da noi, è un modo per ritardare il chiedersi chi siamo noi?


La "donna d'altri" ha l'immensa virtù, il valore certo di essere stata desiderata da qualcun altro.

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Pagina 142

C'è gente così indolente che sta sempre bene.


Per un momento fu puro, e sublimò irrimediabilmente.


Se l'uomo non avesse più nulla da disprezzare, quanto di più somiglierebbe ad un sasso!


Paradiso o inferno?

Quali attrattive ha il paradiso cristiano? In altre parole, per centrare meglio la domanda: perché mai la promessa di resuscitare con la carne? Può darsi che l'anima candida, passata all'aldilà, sia in una condizione tale per cui essa voglia solo adorare e fissare dio, ma perché dire questo agli uomini sulla terra? Fissare dio anche con il corpo come se ciò fosse un dono? Perché tale spreco, tale abulia? Persino Dante, il cui nome sempre dobbiamo citare con gratitudine, nel dover parlare del Paradiso ci ha dato la sensazione di un'ombra abulica. Tutto si spiega solo con la croce e delizia del cristiano che è la mortificazione, e con la nozione di peccato che è generalmente estranea alle religioni dotate di paradisi più allettanti. Non c'è rispetto per la carne, nel cristianesimo, ed è paradossale se si considerano quali azioni sono considerate grave peccato. Di fronte a queste ed altre nozioni mi appare fin troppo facile domandarmi quale pessima iniziativa pubblicitaria abbia spinto dio a danneggiare così la sua azienda-aldilà. Ecco allora rendersi necessaria l'invenzione dell'inferno: "non ti prometto un granché, ma devi cercare di ottenere il paradiso o guai a te". Anche altre religioni hanno inferni orribili, in cui i dannati sono condannati ad essere trascinati su asce taglienti, a passare in crune d'ago, ad avere avvoltoi che gli divorano gli occhi... In questi casi la scelta fra paradiso ed inferno sarebbe facile e a favore del primo. Ma nel cristianesimo? È bello che un dio faccia dono della carne alla sua creatura, gli infonda un rispetto di sé che ne fa creatura degna e poi lo spinga a mortificarla nel paradiso, o all'opposto spinga la creatura a un moto di ribellione e al preferire l'inferno, più vivo ed affascinante, con conseguente maggiore sofferenza ma certo uguale mortificazione della carne? Si percepisce un inganno.


"Dovere" è quella parola che i furbi rilanciano affinchè i matti e i poveri di spirito vadano al massacro al posto loro.


Si tende a non governare, e a preferire l'imporsi, l'alzare la voce, il ricattare.


Chi vuole ottenere una cosa e mira all'autorità suprema non ha mai avuto rapporti con il potere, ed ignora che lo detengono i subalterni.


Nella vita dell'uomo l'unica cosa incrollabile è la sua precarietà.


Molti hanno come scopo il dormire e il mangiare, ma non bisogna generalizzare: altri hanno come scopi nella vita l'assopirsi e il bere.


Parentesi italiana (di dovere)

L'italiano porta sempre con sé almeno una traccia di imbecillità, che prima o poi mentre si trova all'estero lo fa comportare come lo straniero vorrebbe, lo tramuta magari per pochi minuti in un'irresistibile macchietta. Tutto questo per il puro godimento dello straniero, il quale può così dimenticare il Paese dal quale questo pagliaccio proviene, tirare un sospiro di sollievo, accantonare l'invidia e gettare in faccia all'italiano un sorriso, un "bravo" (rigorosamente in italiano) o una moneta, come si fa con i cani e le puttane.

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Pagina 197

POSTILLA

La Chimera è ormai vittima di un'eclisse che non ha nulla di astronomicamente transitorio, è definitiva, inappellabile e figlia della sua etimologia: "abbandonare".

In origine la Chimera è mostro di lignaggio divino: in parte leone, in parte capra e in parte serpente, viene citata da Omero, Igino, Tze tze. Torna nella Biblioteca di Apollodoro e nella Teogonia di Esiodo minacciandoci con una dotazione di ben tre teste così come appare nel celebre bronzo etrusco di Arezzo (un'«anticaglia», secondo la Vita di Benvenuto Celimi) ora esposto a Firenze (protagonista in una importante avventura amorosa del giovane D'Annunzio, il quale le fece visita con una ragazzina lasciando poi «in quel maneggio qualche lembo di pudore ferino e divino»; e «Io son la Sfinge e sono la Chimera. / O tu che sogni, qui ne le mie dita / la trama del tuo sogno è prigioniera. // [...] Sola io contemplo, sola e senza voce, / un mar che non ha sfondo e non ha lido. / O tu che soffri, il tuo soffrire è atroce; // ma non saprai giammai perché sorrido» dice la Chimera del medesimo poeta). Ammicca in Virgilio, Euripide, Pindaro, Ovidio, Lucrezio. Servio Onorato e Palefato tentano un'anagrafe geografica, mentre Plutarco suggerisce derivazioni da individui dalle inclinazioni piratesche. Compendiosa creatura, accozzo di membra, disseminazione di geni, è più superflua delle macchine di Munari e più inutile delle macchine inutili di Rube Goldberg.

In araldica la Chimera è un animale fantastico avente busto di donna e corpo di capra, le cui zampe anteriori sono di leone e quelle posteriori di grifone, e la cui coda è di serpente. Appare in alcune monete di Sicione e in ceramiche, e fu motivo decorativo molto amato nell'arte romanica (appare attanagliata nelle chiavi di volta del palazzo dei papi ad Avignone, nei capitelli di La Charité-sur-Loire, di Saint-Sauveur a Nevers, nel chiostro del duomo di Monreale, nel portale del duomo di Modena, nel pavimento del coro della cattedrale di Aosta). Diviene rara nell'arte gotica e rinascimentale, scompare nel secolo XVII, per poi tornare in voga in età neoclassica. La pittura l'ha immortalata in alcuni quadri tra gli altri di Rubens, Passeri, Tiepolo, Moreau, Redon, Brauner. Così la descrive il Marino: «Tra queste solitudini s'imbosca / non so s'io deggia dir femina o fera. / Alcun non è che l'esser suo conosca / o ne sappia ritrar l'effigie vera; / e pur ciascun col suo veleno attosca, / si ritrova per tutto ed è chimera, / un fantasma sofistico ed astratto, / un animai difforme e contrafatto» (Adone, XII, 14).

La confusa presenza, la sovraesposizione smembrata dalla fantasia, ha sepolto l'orribile chimera. L'eclisse è diventata un'eclissi, dal senso astronomico si passa al senso metaforico. Una chimera anche, se vogliamo, vittima della crudeltà di chi l'ha finalmente smascherata senza perdere tempo ad ucciderla: nei Dialoghi con Leucò Pavese descrive un Bellerofonte ormai vecchio e disperato che «sconta la Chimera»: egli accusa gli dèi che hanno voluto che la uccidesse e grazie ai quali da allora non ha avuto più vita vera: egli ha domato le Amazzoni, fatto strage dei Solimi, regnato, piantato giardini... ma «dov'è un'altra Chimera? Dov'è la forza delle braccia che la uccisero? [...] Chi una volta affrontò la Chimera come può rassegnarsi a morire?». Egli chiama così alla sfida gli dèi, con «lo sguardo smarrito, come di chi non è più nulla e sa ogni cosa». Proprio come scrive Baudelaire (I fiori del male XIII):

Gli uomini vanno a piedi sotto armi lucenti
lungo i carrozzoni dove sono rannicchiati i loro cari,
scorrendo il ciclo con gli occhi appesantiti
dal mesto rimpianto di assenti chimere.



Altrove Hugo (I Miserabili, V, 1, 5) scrive che «il giorno in cui [...] l'uomo avrà definitivamente aggiogato alla sua volontà la triplice Chimera antica, l'idra, il drago e il grifone, egli sarà padrone dell'acqua, del fuoco e dell'aria, e sarà per il resto della creazione animata quello che gli antichi dèi erano una volta per lui. Coraggio e avanti!»; ma l'uomo non miri a questo: egli è particella mortale tra le particelle e deve comprendere le cose che esistono comprendendo quali sono le cose che non esistono, quali cose gli sono state fatte credere esistenti a suo danno e soprattutto quali sono le pochissime cose sulle quali può non perdere tempo prezioso e che né filosoficamente né empiricamente possono influire in modo significativo sulla sua esistenza. Non mi si definisca cinico: riproporrei la splendida definizione di Bierce: «il cinico è un mascalzone che, a causa di un difetto alla vista, vede le cose come sono realmente e non come dovrebbero essere» (Dizionario del diavolo). Il più grande dono sarebbe ottenere che anche un solo uomo, alla fine della sua vita, non debba confessare a sé, per contrasto con l'inganno a lungo divorato ed alla fine convulsamente rigettato, le pur splendide parole di La vita è sogno di Calderón de la Barca (scena XIX):

Io sogno che qui mi trovo
da questi ceppi fiaccato,
e ho sognato di vedermi
in più lieta condizione.
Cos'è la vita? Delirio.
Cos'è la vita? Illusione,
appena chimera ed ombra,
e il massimo bene è il nulla,
ché tutta la vita è sogno,
e i sogni, sogni sono.



I territori della zoologia fantastica e della teologia sono mal difesi, nonostante l'errare in essi di minotauri, idre, serpenti giganti, manticore, chimere, draghi che dovrebbero terrorizzare gli esploratori, o il guizzare e nascondersi in essi di basilischi, rinogradi ed altre piccole creature messaggere di sventura e stupore. In essi l'esploratore può, in realtà, percorrere, scalare, nuotare in piena libertà se sorretto dalle armi dello scetticismo e dell'ironia, se consapevole che anche gli angeli non possono annunciare nascite e sventure se le loro ali vengono macchiate dal fango di Gea. Gli animali fantastici e illusori, apocrifi ed epitaffi di se stessi, sono un vorticare multicolore il cui risultato cromatico è il bianco della pagina vuota, sulla quale ricominciare.

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