|
|
| << | < | > | >> |IndiceNOTA AL TESTO 13 PREFAZIONE di GIOVANNI TESIO 17 TORINO FALSA MAGRA Tornare a Torino 25 La falsa magra 33 Capricci di Torino 45 Alberi di Torino 63 Torino-Fiat 67 Turin-Casele (1893-1953) 82 POSTFAZIONE di CARLO CASALEGNO 96 ... e altre pagine torinesi Un poeta della scuola 105 L'inavvertita 109 Andreina 112 Alberi di Torino 116 Quando D'Annunzio faceva ridere 122 [...] |
| << | < | > | >> |Pagina 17Torino è per Augusto Monti la città di elezione e di predilezione. Dopo la nascita a Monastero Bormida, la sua infanzia fu soprattutto torinese e torinesi furono la vocazione, l'ispirazione, l'ambientazione di quell'autobiografia gobettianamente tradotta in forma di educazione nazionale (dalla Rivoluzione giacobina al Risorgimento senza eroi) che sono I Sanssòssì. Torinesi furono soprattutto - come Monti stesso sottolinea - i suoi molti ritorni, contraddicendo in questo al precetto un'altra volta formulato (proprio nei Sanssóssì) a proposito dell'infanzia di "Papà" nel capitolo memorabile "Non tornate a Monesiglio!" Come a dire non nel luogo in cui foste (o credeste di essere) felici, per non andare incontro a cocenti delusioni. A Torino Monti ha dedicato alcune delle più belle pagine della sua opera maggiore e molte altre sparse in altre opere. In Torino ha finito per condensare, specie nell'incontro con Gobetti, il senso di una vita. Lo dice (e lo avrà detto) lui steso citando Alfieri. Lo ridirà anche meglio e più volte Pavese: nel Mestiere di vivere, nel saggio Middle West e Piemonte, nelle Lettere (a Enrichens il 23 giugno 1949: «Io amo S. Stefano alla follia, ma perché vengo da molto lontano»). La lezione dell'andare, della necessità di sprovincializzarsi, per recuperare il senso di un viaggio che è formazione (la maturità è tutto, secondo Shakespeare e poi Matthiessen e poi ancora lui, Pavese, in una perfetta filière di richiami).
Torino fu per Monti un serbatoio di memorie, uno scrigno di bellezze
segrete, una scuola di civismo e civiltà. La città che comincia dalla seconda
volta, come nell'episodio un po' manzoniano di "Papà", del barbiere, e del
piccolo Carlìn. Una lezione della vita che sarà ancora una volta Pavese a
voltare in poetica (del resto dire chi debba a chi non è compito
che competa, come suol dirsi, a questa sede).
Il nostro è un libro che si compone di due ante. La prima è la riproposta pura e semplice del volume Torino falsa magra che fu edito postumo dall'Aeda (1968) sulla base di carte ritrovate dal "barettiano" Fubini e già da Monti compaginate. La seconda è una raccolta di pagine torinesi che furono pubblicate alla spicciolata sull'Unità torinese negli anni dal '48 al '59 (più qualche altra altrove, fino alla data estrema del '67) qui riprese dall'edizione che ne feci per il numero unico della Famija Turinèisa nel 1977, accettando l'ospitalità offertami da Renzo Gandolfo (allora vicepresidente del sodalizio torinese di cui era presidente Eugenio Torretta). Mettere insieme due libri per farne uno ci è sembrato una buona idea perché è stato un po' come comporre un bouquet, una piccola summa di pagine a margine delle pagine centrali che Monti scrisse per la sua opera maggiore, I Sanssóssì, e che disseminò qua e là a ideale complemento e integrazione (senza contare che si trattava di pagine ormai introvabili capaci di mantenere una buona e a volte ancor ottima quota di attualità). | << | < | > | >> |Pagina 25«Bisogna sempre cominciar dalla seconda» disse, serio, il principale al garzòn parrucchiere, che, salito sullo sgabello per accendere il gas, aveva sprecato, prima di riuscirvi, il primo cerino. Il garzoncello fece una faccia ebete; ma il signore ch'era sotto i ferri - un bel vecchio un po' calvo, con un pizzetto alla Napoleone III - rise forte e disse al barbiere, che tosto gli aveva staccato il rasoio dalla faccia insaponata: «Dice bene, padrone: è sempre la seconda che vale». E un ragazzetto che, già servito, stava guardando tutto serio le vignette umoristiche del Kri-Kri, levò il naso dal foglio, e pronunciò: «Ma, papà» figlio dunque era, non nipote, dell'arguto vecchietto «papà, prima del due vien l'uno, per forza...» Al che i due anziani risposero ad una voce:
«Hai ragione anche tu».
Questo avveniva circa il '90 - milleottocentonovanta - una sera di mezza stagione, nella bottega di barbiere che si trovava allora, come si trova tuttora, in Torino sull'angolo di corso Siccardi con via Cernaia, fiume russo questo, ministro laico quello d'un bigotto re sabaudo, portici di qua alberi di viale di là, Pietro Micca di bronzo e pietra lì di fronte in atto di far saltar per aria i francesi e intanto si guarda accigliato il funzionalmente novissimo palazzo che la Mutua Industria gli ha fatto sorgere in faccia. Questa è Torino, o signori.
E il padrone della vecchia bottega si chiamava
monsù
Zola, e ammetteva col cliente che sapesse di lettere d'esser parente d'
Émile
«cugino primo, sissignore»; e il sorridente vecchio dal pizzo di napoleonide era
mio padre; e il ragazzetto, che oltre mezzo secolo fa non aveva capito il
calembour
del figaro, ero io.
Che da un pezzo son riuscito a capire e a penetrare il senso - profondo -
dell'aforisma del barbitonsore «bisognerebbe sempre cominciar dalla seconda»; e
che anzi ha scelto quella battuta un po' come sua insegna: nel senso che nella
vita non è tanto il fare che conta quanto il
rifare,
non tanto il dire quanto il
ripetere,
non il leggere ma il
rileggere,
e - quanto al viaggiare - non l'andare in un luogo ma il
tornarci.
E perciò a Torino non venirci una volta e poi basta, ma tornarci per la "seconda" volta, quella "buona", che serva a conoscerla, a capire che unica cosa al mondo essa sia, a farsi perdonare l'indifferenza di testé, la freddezza, semmai, la frettolosità del primo incontro. Com'è successo a me. Sì, lo ammetto: la mia ricetta per conoscere Torino è un po' la ricetta del nonno: «tutte le mattine un bicchier d'acqua fresca a digiuno: così io son arrivato qual mi vedete a' miei novanta» e i nipoti ridono. E voi, che mi udite parlar di Torino, ridete ma ascoltate: «com'è successo a me» dicevo, che tutta la mia vita, la mia vita consapevole, e stata «tornare a Torino»: tornarvi dalla Sardegna, dalla Calabria, dalla Valtellina, dalla Lombardia, come dipendente dello Stato; dal Carso, dall'Austria, dalla Boemia come soldato; fin dalle età della storia vicine e lontane, dalle età, sempre più lontane, della vita: tante volte tornarvi per ogni volta trovar in lei un punto di stabilità in tanto mutare, e una vicenda di mutazioni in tanta sua stabilità, e una conferma in essa quanto a me, così della mia identità come del mio divenire. Trovarmi davanti ad ogni nuovo ritorno questa mia Torino sempre più decifrabile e sempre ancora un po' misteriosa; capir che qui appunto è il suo fascino, di concedersi così a poco a poco, svelarti di sé ad ogni nuovo incontro qualche nuova attrattiva sempre lasciandoti intendere che "ci sarà per te, se sarai buono, la prossima volta, un'altra bella cosa". Ma per intanto averti fatto capace che codesta tua inestinguibile passione per lei viene, come tutte le "inestinguibili passioni", dal fatto che essa, l'oggetto di codesto tuo prepotente affetto, è creatura unica insostituibile, e pari a lei non c'è nessuna... E il suo preferito - adesso - sei tu, che Edipo di tanta Sfinge hai indovinato - al coronamento della tua vita - il suo enigma: essere antica nella sua modernità, italiana nel suo europeismo, varia nella sua monotonia, nella sua compostezza procace. Essere, ecco il motto, o signori, essere unico al mondo! La città cartesiana di avanti la lettera. | << | < | > | >> |Pagina 63E adesso, ragazzi, si va a Torino dritto dal Brik della Maddalena per Val Salice giù. Chi ha fretta d'arrivar in città è pregato di non guardarsi attorno intanto che scende, di non voltarsi indietro: gli potrebbe capitare come nelle favole della mitologia di non arrivar mai più dove pur voleva andare, fermarsi, tornar indietro; con la differenza che nella favola torna, per forza, nell'Inferno, qui il pericolo - la tentazione - è di trattenersi - apposta - in Paradiso, nel Paradiso Terrestre della "collina di Torino". Dal Parco della Rimembranza, giù la strada è asfaltata, ripida, volubile pista per le auto in prova: altre piste così vi confluiscono, ne defluiscono, brune, lustre: son le vie della fretta, degli occhi fissi sul parabrezza, ipnotizzati dai paracarri e dai segnali stradali; ma prati verdi e campi arati continuano a lambir quegli aridi nastri con siepi di sambuco o biancospino, capaci ancora, a miracoli di stagioni, di spogliarsi, rivestirsi, rinverdire, fiorire, odorare come... come una volta; alberi dal ciglio si ostinano a porgerti un istante inchinevoli la loro ombrella; passi su brevi ponticelli fra parapetti striati e senti - spento il motore in discesa - o ti par sentire, acqua correr lì sotto cantando. E se rallenti, incerto, ad un trivio - cappelletta, osteria, termine di pietra serena - stradicciuole di terra tu scopri scaturir di tra due siepi, con fango, polvere, ciottoli, profonde carreggiate, scese fin lì fra il verde dalla cascina che fuma lassù, beata. Adesso la strada d'asfalto ha fatto un gomito e tu che scendi non hai più in vista davanti a te, come finora, tra due quinte di collina digradante un fondale di piano cittadino: ti trovi nella platea d'un anfiteatro, tutto verde, vigna, prato, arativo, un po' di bosco, e colle intorno intorno a confine del cielo, due mucche al pascolo, la raganella d'un trattore invisibile segna il circostante silenzio; tace il tuo motore; e tu hai già ceduto all'invito; sei rifatto pedone; hai legato a quella pianta... no, sotto la pianta hai lasciato l'auto raccomandata alla "sicura" infili quel viottolo, e sali. Verso quella cascina. Latte appena munto magari ci puoi trovare, odor di stallatico, fuoco di legna stagionata, e - a stagione - ciliegie sull'albero non colte, e margheritine sulle prode e, a saper dove cercare, le viole. E Torino? Torino non c'è più, sparita; qui è Val Salice, o San Martino, o Santa Margherita, o San Vito. Torino è da qualche parte, che aspetta. La rivedrai fra poco, come avrai rimesso in moto, a un altro gomito, fondale più vasto fra quinte più divaricate, più distinta, più vicina. Scendi dritto, e sei sempre in campagna, ma in una campagna più ritrosa; staccata, cintata a proteggersi dall'assalto che le muove la città, però verde ancora con tanti alberi in vista, aria buona, case sparse e basse. Torino la raggiungi così. Val Salice ce l'hai alle spalle ora, lassù, non sei ancora uscito dall'abbraccio della collina e già ti trovi in città: alti palazzi ben allineati te lo dicono e un monumento. Ci siamo: obelisco di granito, fantaccini di marmo brutto, ma internazionale, la Crimea, e dà il nome al rione: Sebastopoli, Malakòff, Anglo-Franco-Turchi e noi piemontesi là in mezzo, Tolstoi giovine ufficiale, Torino, Europa: in città devi entrare così. Adesso c'è il fiume. La collina ci si bagna i piedi dalla riva dritta e non può andar oltre; non però essa abbandona a questo punto il visitatore avviato in città, che gli manda dietro a scorta il meglio di sé: gli alberi. No, viaggiatore - motorizzato o pedone che tu sia -, non fermarti qui sul ponte - fiume verde, a specchio della collina e del Castello del Valentino, cartolina, «wunderbar!» «ja! sì!» - ci ritornerai apposta, ora tira via, portato dalla spinta che t'ha dato la collina, preceduto e scortato da' suoi emissari: gli alberi. Quegli alberi di lassù, ancora, ancora tra siepi, aerei a sipario delle case di qua e di là, via, a vista d'occhio, a partir dalla collina a finir alle montagne. Corso Vittorio Emanuele, il Viale del Re una volta, adesso, - perdonatemi il giuoco di parole - il Re dei viali. Fiume reale davvero, al quale confluiscono da destra a sinistra altri corsi, altri viali - altre riviere - col loro tributo di verde, di ombra, di traffico, ma questo resta il corso maestro, che ti porta al "centro" spaziosamente, comodamente, nonostante la gran piena di veicoli e di gente. | << | < | > | >> |Pagina 77Il cav. Giovanni Agnelli aveva detto in quel '98 che non c'era da pensare a creare in Torino un nuovo tipo d'industria senza aver prima creato il nuovo tipo d'operaio: nel '99 a luglio nasceva la Fiat, ma a quella data eran già stati "creati" quella "cinquantina di operai già addestrati alla scuola Ceirano", grazie ai quali a sei mesi dalla posa della prima pietra, la fabbrica era in produzione. Nei venti anni che ho detto, cresciuta la Fiat, cresciuta Torino, era cresciuta anche la mano d'opera. Cresciuta in quantità - da 50 a 6000 - cresciuta in qualità: solo un Alessandro Genero magari da apprendista aggiustatore nella fabbrichetta di corso Dante, su su per i vari gradi, sarà giunto a sedere nel Consiglio di Amministrazione, della grande "anonima", accanto agli Agnelli e ai Valletta, ma - carriere a parte - di maestri d'arte così già durante quegli anni la Fiat ne aveva avuti a migliaia; e la fortuna sua non s'intende se non si metton nel conto l'opera, l'intelligenza e l'impegno di questi operai che furono - come sono - fra i migliori d'Europa.Però Giovanni Agnelli pur con la sua preveggente apertura sociale e politica, quando come condizione preliminare alla creazione della fabbrica poneva la formazione e l'esistenza d'una mano d'opera specializzata, pensava solo a una "maestranza", cioè a un corpo, a un organismo "tecnico" da aver sottomano agli effetti della produzione e del "profitto"; in capo a quei vent'anni invece s'era trovato ad avere, non sottomano ma di fronte, non una maestranza ma una "classe", cioè un organismo non esclusivamente tecnico ma anche politico. E per di più una classe "torinese" anch'essa, cioè - campanile a parte - disposta a prender tremendamente le cose sul serio, tutte le cose, compresa quella del suo destino d'esser essa l'erede della classe borghese e d'aver ricevuto dal Dio della Storia l'incarico di compiere essa e perfezionare quella Rivoluzione Liberale che il Risorgimento - e gli uomini del Risorgimento - aveva iniziata, e l'Antirisorgimento aveva elusa e svuotata. Il che nell'interno della Grande Fabbrica intesa come nucleo dello Stato Moderno - nella Fiat intesa come nucleo della moderna Italia al modo stesso che già in Torino il Parlamento Subalpino aveva voluto esser il nucleo del nuovo Stato italiano - voleva dire per quella classe, gregari e dirigenti, porsi un bel momento di fronte al "padronato" non più come salariati reclamanti un certo "trattamento" ma come produttori e imprenditori aspiranti, insieme con i tecnici, alla conduzione e all'esercizio - al "governo" dell'Azienda. Io non ero a Torino in quel "momento", quando cioè fra il '19 e il '21 - a guerra finita, a promesse ufficiali non mantenute, a effervescenza ideologica giunta al traboccamento - l'urto, inevitabile fra le due classi, si produceva, iniziato alla Fiat, irradiato fatalmente da Torino a tutta l'Italia del famoso "triangolo"; ma, tornato a Torino che l'odor della polvere pure a un anno dalla "marcia" era ancora per l'aria, ne apprendevo la storia da quel prodigioso ragazzo, che, mentre avrebbe potuto esser mio scolaro, si faceva invece mio maestro: Piero Gobetti. Il quale mi spiegava che il subbuglio di quegli anni 1919-21 - Gramsci, Ordine Nuovo, Consigli di Fabbrica eccetera - era stato una cosa come il tentativo del '21 - milleottocentoventuno - quando i costituzionali, i "costipati" di Torino e del Piemonte avevano, non fosse che per un giorno, tolto di mano al Re di Sardegna il potere. A cent'anni di distanza anche gli operai dei Consigli avevano per un giorno - per venti giorni - tenuto in pugno nella Fiat, nella Torino della Fiat, con l'"occupazione", il potere. Poi, come i Torinesi di Santarosa, avevan dovuto capitolare scontando essi come i loro antichi predecessori l'errore - l'illusione - di aver ritenuto generale e comune una maturità ch'era purtroppo loro particolare. La questione era, come allora, di "potere" cioè - effettivamente - di "proprietà": materia di cui la classe possidente non cederà mai, finché avrà fiato; fiato ne aveva; non cedette e l'antagonista, la classe operaia torinese e italiana, pagò con venti anni di fascismo l'ardimento di quei venti giorni di occupazione delle fabbriche. Questo il racconto che il mio giovane grande amico mi faceva quando fra il '23 e il '24 io mi ridussi da Brescia a Torino anche per stare vicino a lui. Adesso di questa storia – che è, si tenga presente, la storia del periodo d'oro della Fiat - la morale, secondo me, sta tutta in una parola - in quella parola - proprietà. | << | < | > | >> |Pagina 265Torino fra due esposizioni "internazionali", tutte e due al Valentino; quella del '98 (Guido studente di liceo) e l'esposizione del 1911 per il cinquantenario del Regno (Guido stampato da Treves a Milano). Ed ecco Torino tra l'Otto e il Novecento; con le vecchie carrozze cittadine e, già, le prime automobili di piazza; con le emozioni del primo tapis roulant alle fiere rionali, e le non meno vive emozioni del primo sciopero generale del 1904; Torino in bilico tra il dialetto piemontese e il "parlare italiano"... Questa la città che vide nascere la poesia di Guido Gozzano. Una città bella, di una sua bellezza ardita e composta, e piena di promesse. In quegli armi Torino cresce, s'abbellisce, straripa. Sulla Dora, al Fortino, nuovissima, una birraria - e che birrarìa! - e il Kursaal Durio, bocciodromo, salone concerti, palcoscenico; e persino un ponte gittato apposta sulla Dora: una modernità che neanche Milano si sognava l'eguale. E al punto opposto, in corso Re Umberto, in fondo, c'è da poco una pista in legno, tutto larice d'America, una specie di vorticoso imbuto, dove si rincorrono fragorosamente montati su moto Peugeot il nobile Monasterolo e il plebeo Giuppone, uno più popolare dell'altro; con l'ospedale Mauriziano a due passi, così comodo per ricoverarvi d'urgenza corridori e spettatori sfracellati. Ad est e ad ovest, limiti estremi di quella grande Torino, l' Olimpo e il Paradiso – bei nomi! – l'Olimpo al Valentino presso ponte Isabella, il Paradiso presso Boringhieri, lassù oltre la cinta del dazio, convegno discreto ma non troppo di galanti in colletto dritto e cappellina dura, irresistibili conquistatori: «Città favorevole ai piaceri», dirà Guido Gozzano, e il suo Gianduja riderello soggiunge «an pagand lòn ch'a l'é giust», pagando quello che è giusto. Torino si muove, Turin ch'a bogia. In corso Dante, a casa del diavolo, lo stabilimento FIAT si dilata: i diecimila metri quadrati di cinque anni prima diventano quarantamila, e l'anno dopo le 900.000 di capitale diventano 9.000.000 di botto - roba vertiginosa – e le azioni, che nel 1905 sono sulle 900 lire, a metà del 1906 sono a 1.900 lire; e salgono ancora vertiginosamente; il nuovissimo statuto sociale parla di «fabbricazione e commercio di mezzi di locomozione di qualsiasi genere e sistema, anche aeronautici». La vertigine non ha più limiti. Torino si muove, e dietro di lei cammina l'Italia, o almeno buona parte dell'Italia. Pullulano le società anonime. La liretta di carta fa aggio sull'oro. Tornano a circolare i gialli marenghini d'oro. La corsa alla nuova ricchezza? No, piuttosto il ritorno all'agiatezza dei nonni: le nuove ricchezze entrano in case dove ci sono mobili vecchi, libri, ricordi. Torino, fra il 1907 e il 1911, gli anni della poesia di Cozzano, non è una città di parvenus. Ha un suo stile fatto di spigliata compostezza, un certo garbo parigino che è il suo cachet in quell'età felice. E Guido Cozzano, che in quell'età si formò e visse, capì quella Torino così fatta com'era? l'amò mai? Si direbbe di sì, si direbbe di no. I tipi alla Guido Cozzano, poeti o no, avevano un curioso modo di amare persone e cose: le donne per amarle dovevano prima averle perdute; e allora appassionatamente le cercavano, se le sentivano vicine, presenti. E le cose, le terre, i luoghi, finché ci stavano in mezzo era già molto se li potevano sopportare; per desiderarli dovevano scostarsene nello spazio e nel tempo, andarli a cercare di là dall'Oceano, oppure oltre il fiume degli anni. La chiamavano l'«evasione»: quella moda in Italia l'aveva importata D'Annunzio; ma in D'Annunzio i guidogozzano non credevano più, credevano nell'evasione, e la praticavano. La praticò per la sua Torino il nostro Guido. Il quale appunto deve navigare lontano, deve trovarsi «tra i fiori, in terre gaie», per sognare di Torino «le nevi, i tigli neri / le dritte vie corrusche di rotaie, / l'arguta grazia delle sue crestaie»; deve trovarsi «resupino a cielo aperto» nelle notti tropicali di quello che chiama il suo esilio per «sognare sere torinesi», per rivedere il tetro androne di Palazzo Madama, allora aperto al transito da via Garibaldi a via Po, e le coppie degli amanti sotto le arcate, l'oro autunnale delle acacie al Valentino, gli incontri sul ghiaccio della patinoire. Gozzano deve abbandonare Torino e cercare altri soggiorni, pellegrinare verso il Mezzogiorno, «a belle terre tepide lontane», per sentire che la metà di se stesso è rimasta nella sua città.
Ma quando c'è, dopo l'effusione del ritorno, allora è assai se la sopporta.
La città nuova e moderna se egli la pensa da Villa Amarena, dalle colline del
suo Canavese, gli appare come l'immagine stessa del mondo, piena di lotte e di
commerci turbinosi, «la cosa tutta piena di quei cosi con due gambe che fanno
tanta pena», travolti nella lotta politica, «formiche rosse» contro «formiche
nere», o peggio ancora impegnati nella «guerra atroce del piacere, dell'oro,
dell'alloro». Più indulgenza mostra per l'altra Torino, quella borghese, un po'
vecchiotta, provinciale, la città di quei «salotti / beati assai, pettegoli,
bigotti / come ai tempi del buon Re Carlo Alberto»: Massimo d Azeglio, i mobili
impero, i vecchi ritratti stinti, i dagherrotipi, l'antichità
'd Monsù Pingon...
|