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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 1 AVVERTENZE E RINGRAZIAMENTI 11 PRIMA PARTE SETTE CHIAVI DI LETTURA PER GLI ANNI OTTANTA 1. I SEGMENTI DIVERGENTI 15 2. IL TRIONFO DELLIMMAGINE 21 3. LA TIRANNIA DEL DESIDERIO 29 4. LA COMPLESSITÀ ESTENSIVA 35 5. LA QUALITÀ SUPERFICIALE 40 6. LA VARIABILITÀ ACCELERATA 46 7. L'ATTUALITÀ PASSIVA 51 SECONDA PARTE SETTE CHIAVI DI VOLTA PER GLI ANNI NOVANTA 8. LE SENSIBILITÀ CONVERGENTI 59 9. IL CONSOLIDAMENTO DELLE IDENTITÀ 64 10. LA SFIDA DELLA RESPONSABILITÀ 72 11. LA GLOBALITÀ INTENSIVA 92 12. LA QUALITÀ PROFONDA 99 13. LA VARIETÀ PERMANENTE 93 14. LA MEMORIA ATTIVA 99 TERZA PARTE UN'IPOTESI FINALE 15. VERSO IL CONSUMO PROGETTUALE 106 BIBLIOGRAFIA 117 |
| << | < | > | >> |Pagina 1L'obiettivo di questa breve riflessione critica è ambizioso. Andare alle radici del consumo e del progetto senza parlare direttamente né dell'uno né dell'altro, ma partendo da un terreno più propriamente «esistenziale»: i flussi e i riflussi dell'immaginario collettivo, che in questi anni si sono presentati sulla scena sociale. LA SOCIETÀ DEI TRENDS Negli ultimi vent'anni l'immaginario culturale delle società avanzate ha giocato un ruolo essenziale nella trasformazione delle identità collettive e individuali. Nella fenomenologia della vita quotidiana si sono sempre più evidenziati filoni di comportamento, intrecci di valori, insiemi di stili di vita che hanno progressivamente acquisito una dignità teorica e un nome di battesimo: tendenze (trends) e macro-tendenze (megatrends). Sono così nati gli esperti di tendenze (John Naisbitt e Alvin Toffler ne rappresentano in America gli esempi più illustri), e l'intera attività di alcuni istituti di ricerca si è fondata sullo studio di questi vettori del cambiamento. Lo sforzo prodotto in queste pagine si inquadra in questo ambito, pur con la consapevolezza dei suoi inevitabili limiti (non tutto può essere spiegato in termini di tendenze). | << | < | > | >> |Pagina 21È facile affermare che gli anni Ottanta hanno sancito inequivocabilmente il trionfo dell'immagine. Un po' più complicato stabilire i contorni dell'immagine e della sua presenza nel coacervo apparentemente indistinto della vita e della comunicazione contemporanea, e ancor più difficile distinguere tra i diversi, numerosi ruoli che questa parola «magica» ha saputo interpretare. In questo abbozzo di riflessione sulll'immagine come categoria fondante degli anni Ottanta sono state riprese e analizzate alcune forme che la cultura dell'immagine ha assunto in questi anni, interagendo profondamente con la progettualità e il consumo. In particolare abbiamo distinto e definito tre dimensioni che con la loro incisività hanno influito sull'identità del decennio: - l'immagine come strumento comunicativo (mass media e mass image) - L'immagine come strategia commerciale (immagine e immagini per vendere) - l'immagine come filosofa di comportamento (la superficie quotidiana e la nascita dell'ultramoda) | << | < | > | >> |Pagina 29Quando parliamo degli anni Ottanta facciamo spesso riferimento al piacere, alla superficie, alla diversificazione, ma siamo costretti a individuare un ulteriore elemento significativo che Schopenhauer aveva indicato come l'origine dell'infelicità umana: il desiderio e la sua moltiplicazione. DALLA TEORIA DEI BISOGNI ALLA RETE DEI DESIDERI Gli anni Settanta sono stati gli anni della teoria dei bisogni (Heller) e delle esigenze come loro sfumature. Bisogni secondari legati a una società del benessere, ma pur sempre bisogni. Il bisogno di cultura, il bisogno di socialità, il bisogno di giustizia sociale e di uguaglianza: sono tutti bisogni che emergono e si affermano in quegli anni. Nel decennio successivo i bisogni cedono il passo ai desideri, ai corpi desideranti, ai capricci individuali, ai sogni personali. Le culture del narcisismo (Lash) e dell'edonismo si radicano su questo fertile terreno, rendendo attuale la tirannia del desiderio. Lo slittamento da bisogno a desiderio sancisce il passaggio definitivo da un terreno reale e funzionale a un terreno immaginario in cui tutto è possibile in qualsiasi momento (basta desiderarlo), e in cui la concretezza un po' grezza del reale cede il passo alla fantasia e alle attese. La presa sulle coscienze e sul pensiero non può più essere realizzata nell'ambito dei bisogni reali che appare ormai saturo, ma è necessario creare nuove grandi aree immaginarie su cui intervenire con decisione. L'esperienza del design e, per altri versi, quella della moda, hanno dimostrato che negli anni appena trascorsi non era possibile per il progettista muoversi sui terreni consolidati del funzionalismo o del radicalismo, ma era al contrario necessario creare nuove aree di intervento, nuovi ancoraggi collettivi, allargando le prospettive e gli orizzonti in direzione del desiderio. IL CORPO DESIDERANTE E DERESPONSABILIZZATO I corpi desideranti degli anni Settanta (Deleuze-Guattari), esorimevano un desiderio fondato sulla trasgressione, sulla rivolta di un corpo vincolato ai fantasmi del marxismo e della psicoanalisi, un corpo serbatoio di energie vitali e di rottura. Niente a che vedere con il desiderio degli anni Ottanta. Un desiderio normalizzato, tutto espresso in superficie e al servizio della cultura del consumo, che integra invece di destrutturare, che blandisce invece di provocare. Un desiderio che isola i soggetti e li pone al centro di una bolla trtrasparente ben definita, il proprio modello desiderante, apparentemente unico e in realtà condiviso da migliaia di altri soggetti. Desiderio da adolescente, impulsivo, immediato, senza profondità ideologiche, senza mitologie liberatorie. Limite estremo in una società in cui la classe giovanile scompare per lasciare il posto a una generale adolescentizzazione: l'essere giovane diviene un elemento di visibilità sociale, nuova categoria della trasformazione socioculturale, sganciata dall'età anagrafica. | << | < | > | >> |Pagina 82Se la parola d'ordine e la chiave di lettura degli anni Ottanta è stata e rimane la complessità in tutte le sue accezioni, nello stesso modo è possibile prevedere per gli anni Novanta una nuova categoria linguistica e concettuale che potrebbe raccoglierne l'eredità per contenuti e importanza: la globalità. Se l'approccio della complessità ha permesso di considerare la realtà sociale e culturale come un intricato intreccio di elementi in cui appariva pretestuoso individuare il bandolo della matassa (come troppo agevolmente si faceva negli anni Settanta), l'approccio in termini di globalità tende a uno sforzo molto più deciso di ricomposizione e gestione della stessa realtà, cercando comunque di non sacrificarne la ricchezza e l'articolazione. Se spesso il modello della complessità portava alla lucidità di analisi parziali ma a un'impotenza di fondo in termini decisionali, al contrario il modello della globalità tende a una profonda mediazione tra ciò che è relativo e ciò che è possibile, tra ciò che viene pensato e ciò che deve essere fatto. Abbandonate le pretese di inseguire il Vero e il Giusto in termini universali, tendere alla globalità significa ricomporre gli orizzonti di riferimento, superare gli steccati disciplinari, guardare al di là degli specialismi e rifondare un modello etico globale che possa avvalersi di contributi incrociati provenienti dall'Est e dall'Ovest, dalle scienze e dall'arte, dalla psicologia e dalla sociologia, dalla politica e dalla filosofia. Enfatizzare i punti di contatto e le opportunità comuni invece che le diversità e le divergenze, dovrebbe consentire l'edificazione di una cultura globale, planetaria, arricchita dalle diverse prospettive emerse dal travaglio teorico di questi anni. La globalità potrebbe in questo senso dimostrarsi «intensiva» perché in grado di stimolare, in un panorama globale sempre più omogeneo, la ricerca di un'interiorità e di una identità profonda. Èsu questa base che potrebbe svilupparsi una nuova cultura dell'intensità, riducendo il campo della complessità estensiva. | << | < | > | >> |Pagina 99La rine del millennio potrebbe registrare una profonda riconciliazione con la storia e le esperienze passate, con le sorgenti simboliche della propria esistenza sociale e culturale. Gli anni Novanta potrebbero dunque rivelarsi anni di memoria attiva così come gli anni Ottanta sono stati anni di attualità passiva. Anche in questo caso assisteremmo a un capovolgimento di prospettiva. Riconsiderare il passato come serbatoio di stimoli ed elementi vitali, da filtrare attraverso il setaccio di una rinnovata coscienza critica. Riscoprire le proprie radici non tanto nella dimensione convenzionale della tradizione, ma nell'ambito di una più complessa revisione esistenziale. Ricreare i legami con più profondi codici di comportamento interiore, con valori ed etiche che resistano all'attualità e alla logica del presente. Gettare ponti più lunghi e più solidi tra passato e futuro. Tutte queste sono direzioni percorribili nei prossimi anni, nell'ambito di una più generale attivazione della memoria individuale e collettiva. SLOW, SOFT E PRIMORDIALE Il Nuovo non coinciderà più, probabilmente, con una scintillante mitologia culturale, ma al contrario verrà distinto in innovazione reale (che continuerà a essere apprezzata) e in novità superflua (che tenderà a essere penalizzata se non rifiutata). Il solco tra novità e innovazione diventerà cioè più profondo e riacquisterà importanza la durata, nell'ambito di una complessiva rivalutazione delle logiche slow e soft. | << | < | > | >> |Pagina 105| << | < | > | >> |Pagina 111La pratica del consumo immateriale si afferma in una dimensione esistenziale in cui progressivamente svaniscono i concetti nella loro verità e che si regge sulla suggestione citazionista alimentata dalla società dell'informazione, su infiniti rimandi e sulle emozioni associate che questi possono suscitare.A questo punto della riflessione si presenta una tematica particolarmente delicata, che riguarda la materia e i segni del pensiero contemporaneo. Chi fino a oggi si è posto con lucidità questo problema, ha generalmente sancito la sconfitta del pensiero, parlando di «èra del vuoto» (Lipovetsky), di «soft-ideologia» (Huyghe) - sorta di bricolage del pensiero a brandelli, ipotattico, in cui i nessi divengono logici a posteriori -, di analfabeti di secondo grado (Enzensberger), di inquinamento del pensiero per eccesso di immagini (Dorfles), di crisi multidimensionali (Morin) e di «infantilizzazione del pensiero» (Finkielkraut).
Se gli anni Ottanta rispondono probabilmente a queste e
ad altre definizioni poco rassicuranti, l'errore può essere
quello di considerare questi fenomeni costitutivi di un
quadro definitivo e non transitorio delle società
contemporanee, da cui al contrario possono emergere segnali
incoraggianti di arricchimento del pensiero, provenienti
anche da un processo maieutico che coinvolge la produzione e
la fruizione degli oggetti, e che potrebbe costituire la
fase futura di sviluppo nella storia del progetto e del
consumo.
IL PRODOTTO MAIEUTICO Siamo così giunti alla terza (ipotetica) fase nel vissuto consumistico della materia e degli oggetti. Una fase non ancora sopravvnuta ma di cui si intravvedono i segnali e che è comunque auspicabile. Siamo convinti a questo proposito che anche la teoria sociologica da un lato e la cultura del progetto dall'altro, debbano nuovamente cimentarsi sul terreno rischioso del pensiero critico e della sfida «maieutica», attraverso cui generare nuovi orizzonti valoriali e nuovi quadri di riflessione. L'ipotesi che vorremmo lanciare riguarda una nuova fase destinata a succedere alle due precedenti (l'ideologia del consumo e la cultura del consumo) e che vorremmo definire «del consumo progettuale e del prodotto maieutico». Affiancandosi alle proposte di una ecologia quotidiana (Melucci), di una ecologia dei segni (Volli), di una ecologia dell'arte (Baj) e di una ecologia dell'artificiale (Manzini), il concetto di ecologia del consumo propone una interpretazione del declino del prodotto mimico e dell'intera dimensione della simulazione. Se consideriamo gli attuali rapporti tra il mercato dei segni e dei prodotti e l'identità dei consumatori, ci accorgiamo che tale rapporto è giunto a un punto critico. Sempre più spesso cioè la natura mimica dell'oggetto di consumo non soddisfa più i desideri del consumatore che soffre per il crescente «inquinamento» del mercato dei segni. Èin base a questo disagio che sembra essere scattato alla fine degli anni Ottanta un meccanismo di autoregolazione attraverso cui il consumatore compie le sue scelte in termini di «ecologia», rifiutando con decisione la logica precedente di differenziazione simulata, e ricercando negli oggetti nuove qualità profonde. |
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