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| << | < | > | >> |IndiceLa porta bianca 7 La dignità del signor Da Ponte 31 La ragazza col turbante 61 L'ultimo incarico 107 L'ordine della casa 147 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Riposero le carte e si alzarono, lasciando i calici vuoti e opachi sulla tavola, la serata finiva alla solita ora e il maestro, già in piedi e con gli occhi lucidi per il vino, li guidava verso la porta.«Domani sera riprenderemo. E non mancherete nemmeno voi, Karl, non vogliamo sentire nulla dei vostri impegni.» Si lasciarono con una risata di cameratesca intesa: i quattro venivano a visitarlo tutte le sere e per più di un'ora bevevano e giocavano con la metodica puntualità degli oziosi. Chiuse la porta alle loro spalle e, nel silenzio della sala grande e ancora sconosciuta alle sue abitudini, il maestro si adagiò nella poltrona. Da qualche tempo stentava a prendere respiro dopo quel lungo conversare con gli amici, gli diventava anzi penoso scandire le sillabe e uniformare al buon umore generale la sua sorda ipocondria. Era spaventato. Si soffermava con esagerata ansia a esaminare il delicato equilibrio del suo corpo, che sentiva astiosamente minacciato da un cupo fermento nemico; a tratti percepiva di essere chiuso in un gorgo di malesseri indistinti. Fuori era scuro e nessuno ancora veniva a portare i candelabri: le finestre ampie della stanza si affacciavano su un giardino scurito a sua volta dalla giornata senza luce su cui il crepuscolo avanzava passo a passo. Mille volte, pensò, preferiva le angustie della casa viennese, affacciato su altre uguali case; il vasto spazio del giardino signorile di cui era ospite non gli era di certo meno gradito, ma lo turbava la casuale coincidenza che aveva voluto, proprio in quei primi tempi del nuovo soggiorno, mandargli inattese e misteriose avvisaglie di un fastidioso disagio. Già l'invito così singolare lo aveva frastornato: una accoglienza superba, è vero, ma alla casa padronale non era ancora mai stato ammesso. Gli avevano aperto i padiglioni di una lussuosa casina di caccia, in fondo al giardino: era interamente sua, disponeva dei due piani dai soffitti bassi, delle stanze ampie e fresche, delle finestre troppo grandi in proporzione alla casa, così che questa sembrava un cristallo senza sostegno di mura, spalancata alla curiosità di tutti; sebbene nessuno della villa fosse mai passato accanto alla casetta. Nemmeno un servitore. Gli avevano pur detto che lì avrebbe goduto la vera tranquillità, e l'invito voleva soprattutto essere una magnanima largizione di quiete perché il musicista potesse infine comporre in pace. I quattro amici lo visitavano solo nelle ultime ore del pomeriggio, quando ritenevano esaurito il lavoro che quotidianamente lo impegnava; la stessa Costanza non era venuta a vivergli accanto, perché la sua irrequietezza, le sue volubili alterazioni d'umore non intaccassero il ritmo dello scrivere del marito e la musica rifluisse senza sforzo dalla penna alla tastiera del clavicembalo. Lo strumento nuovo, di affascinante nitore, era posto in un angolo luminoso del salotto a pianterreno, tra due finestre affacciate sul verde denso dei giardino; il nero e il perla della tastiera indicavano un aristocratico privilegio di pace, così come il maestro l'aveva per tanto tempo desiderata e invocata. Per anni e anni aveva dovuto lavorare destreggiandosi nella precarietà e nell'affanno, e ne aveva risentito come di una condanna ingiusta, di cui nei momenti di coraggio aveva ironicamente sorriso, negli amari qualche volta anche pianto. Gli anni della prima gioventù erano stati difficili, angustiati dall'angoscia di sentirsi rinchiuso in una dimensione senza futuro, a cui il suo vigore si ribellava inquieto e spaventato. Appena poco più che adolescente, andando ogni giorno a dare lezioni alla signorina Rosa C. e percorrendo la stessa strada, per qualche tempo aveva avuto la certezza di un velato ammonimento sul suo destino, un ammonimento che lo raggiungeva sotto una forma all'apparenza estranea. Abbandonata nell'erba al margine della via, aveva scorto un giorno la carogna di un cane schiacciato dalle ruote di una carrozza e scostato lì, ai bordi, senza che nessuno si fosse preoccupato di seppellirlo. L'aveva guardato bene, passando, con un senso di solidale compassione: il pelo rossiccio del mantello era integro e senza lacerazioni, il muso, leggermente più chiaro e appuntito, lasciava intravedere dal labbro alzato e sogghignante i dentini bianchi e disserrati. Ma il collo era innaturalmente verticale rispetto alla linea del dorso: lì era stato schiacciato dalla carrozza e di certo non era morto subito. | << | < | > | >> |Pagina 40Il signor Da Ponte si avviò dunque al suo appartamento, rianimandosi a ogni gradino e sentendo tra sé e sé di avanzare con una dignità nuova, che lo avvicinava alla realtà di ben più ricche dimore: l'ultimo pensiero che gli sfiorasse la mente era quale forma dare al futuro lavoro poetico, anzi, a essere sinceri, si figurava già di muoversi in un tempo molto al di là di quello che immediatamente lo attendeva; in questo futuro vedeva un altro se stesso accarezzato dalla fama e dal successo, viziato tanto da questi suoi alleati, da averne l'anímo lievemente stuccato, intaccato da una parvenza lieve di elegantissima noia.Ma intanto, per tornare al presente, aveva bisogno di ristorarsi e riposare, il freddo gli si era conficcato nelle ossa con prepotenza ed era forse per quello che la testa vagava in fantasie senza direzione, sognando il silenzio d'ovatta di una alcova signorile, o le luci discrete di un buon salotto che finiva per somigliare in tutto all'eleganza di casa Salieri. Aprì la porta della stanza e una folata umida e pungente lo investì con malagrazia. La finestra era spalancata, il fuoco spento e il letto nel più grande disordine. Un'onda rossa di collera lo prese alla gola, indietreggiò di qualche passo e, sporgendosi dalla balaustra della scala, chiamò con rabbia furente la padrona. Non c'era un nervo del suo corpo che non partecipasse di quel furore incontrollato: immobile accanto alla porta, non arrivava nemmeno a formulare il proposito di entrare nella stanza e chiudere la finestra. Chiamò ancora con ira raddoppiata, perché nessuno sembrava sentire. Ogni attimo che scorreva su quel silenzio gli provocava spasmi atroci di rabbia, e l'accumulo di tale collera lo colmava nello stesso tempo di una sorta di malvagio piacere. | << | < | > | >> |Pagina 67Ora, poi, partiva per una spedizione insolita: con sé non avrebbe portato che una tela piccola il cui valore, messer Van Rijk ne era certo, risultava straordinario e destinato a crescere in un futuro prossimo. Quanto poi all'incertezza dell'affare, che in nessun modo era sicuro di poter concludere, non gli pareva un motivo sufficiente per non darsi la pena del viaggio; al più, ecco, avrebbe portato con sé poche altre cose di minor valore, facilmente smerciabili e redditizie. A beneficio di quel piccolo, inestimabile gioiello, cui nel frattempo si era affezionato come a una compagnia viva, avrebbe arrischiato ben altro.Contrariamente alle sue abitudini, aveva tenuto il dipinto in casa e non nel magazzino; appoggiata alla parete opposta alla finestra, nella camera da letto, la tela troneggiava già da un mese ed era diventata familiare persino alle serve di casa, che avevano ricevuto l'ordine tassativo di non toccarla e non muoverla da dov'era stata collocata. Nessuno, se non le persone della famiglia Van Rijk, aveva visto il quadro, a nessuno era stato offerto; il destino del dipinto, confinato ora nel silenzio di una stanza, era carico di misteriose promesse, di un futuro fulgido e inusitato. Solo messer Bernhard, guardandolo ogni sera prima di coricarsi nel grande letto dove dormiva da solo (le condizioni di Miryam consigliavano che essa si ritirasse in una camera píù appartata, in compagnia di una serva pronta al minimo cenno della padrona), lo gratificava di una gelosa, paterna tenerezza. Tutto sommato, dunque, non era affatto innaturale che la signora Van Rijk si sorprendesse, talvolta, a considerare con una sorta di segreto astio la presenza di quel dipinto in casa. Dicevamo che il viaggio a cui il buon mercante si accingeva pareva alquanto arrischiato; impossibile prevederne l'effetto, poiché il prezioso quadro avrebbe potuto tornare con il suo protettore in terra d'Olanda, senza che alcun serio guadagno compensasse le fatiche e il trambusto che si stava apparecchiando. In questo Van Rijk era un uomo, un mercante davvero singolare: quando nessuno si sarebbe imbarcato in avventure che non garantissero il guadagno di un buon gruzzolo di fiorini, egli si disponeva con animo leggero ed entusiasta al rischio, covando tra sé il segreto piacere dell'imprevedibilità degli eventi. Destinatario dell'impresa era un nobile danese con cui il nostro messer Bernhard teneva da anni un fedele contatto epistolare, e al quale aveva già inviato, con reciproco vantaggio, alcune opere di grande valore. I due però non si erano ancora mai incontrati di persona, cosicché ora, sulla scorta di quel dipinto, l'olandese riteneva giunto il momento di mettersi per mare (un viaggio del resto non lungo e con poco rischio) e di presentarsi di persona, tutore e garante dell'opera che, con la convinzione profonda dell'istinto, amava tanto da stentare a separarsene. Era stata infatti solo la stima che nutriva per il signore di Herfolge a convincerlo che in sua mano quell'opera fosse ben collocata, e lontana abbastanza perché egli non ne sentisse più che un'impossibile nostalgia, quando la separazione fosse avvenuta. | << | < | > | >> |Pagina 85Avevano lasciato il mare alle loro spalle e si addentravano in una campagna dai colori intensi e brillanti, come dopo un temporale; la carrareccia seguiva la linea bizzarra delle colline che si succedevano senza tregua l'una all'altra. Erano alture piccole e frequenti, come Bernhard non ne aveva mai viste, e il suo sguardo, abituato a riposare nella continuità della pianura, si infastidiva al susseguirsi irrequieto di quella sorta di infinito moto ondoso. Anche i colori gli parevano eccessivi e carichi di un'energia prepotente, aggressiva; intanto la carrozza, procedendo con qualche scossone, si era staccata dal giallo dei campi d'avena, piegando verso un bosco. Del mare si era perso ogni sentore; seppure non avessero trottato che per poche miglia, a Van Rijk sembrava di addentrarsi nel cuore di un vasto continente deserto di uomini e silenzioso. Cominciava a essere stanco di guardare e stanco ancor di più dei sobbalzi irregolari della carrozza. Volentieri avrebbe chiesto una sosta, senonché la sua guida aveva l'aria di procedere senza alcun segno di fatica, e i cavalli poi, da qualche momento, tenevano un'andatura più sostenuta, quasi a far intendere che non erano tanto lontani dalla meta. Poco dopo infatti il giovane indicò con il braccio teso qualcosa che Van Rijk ancora non scorgeva; presero all'improvviso una stradina più stretta a destra e allora anche il mercante intravide la compattezza rossiccia e scura delle pietre e la sagoma quadrangolare di un castello.| << | < | > | >> |Pagina 157Passarono in questo modo il mese di agosto e di settembre; poche le visite e quelle poche scoraggiate dalla laconicità della famiglia, restia a condurre gli ospiti nella stanza del malato.I Kölner appartenevano alla ricca borghesia, per non dire che già aspiravano alle soglie della piccola nobiltà, e la signora in particolare non mancava di puntare in alto per l'avvenire dei due figli. Ora, se la malattia del capofamiglia non pregiudicava in nulla il benessere florido della casa, pure in qualche modo guastava, inveleniva il prestigio di cui aveva goduto. Di necessità la signora e i due giovani frequentavano meno i salotti cittadini e la casa era più chiusa del dovuto, non si riceveva che raramente e in forma privata, come se sulla villa incombesse il lutto, o almeno l'attesa del lutto. Ma Karl Kölner, nei mesi successivi, non peggiorò in nulla: il cuore reagiva bene, i polmoni, per quanto affaticati dalla posizione supina, continuavano a lavorare con energia e tutto l'organismo si andava costruendo un suo imprevedibile equilibrio. L'autunno si era prolungato molto, con giornate poco piovose e miti, sicché la neve, che pure cominciò a cadere solo agli inizi di dicembre, colse la gente impreparata; cadeva a ritmo alterno, più fitta o più rada, ma non cessò fino alla vigilia di Natale.
Fu appunto durante quelle giornate d'attesa che, dal
profondo silenzio della sua menomazione, il signor Kölner
ebbe l'impressione di percepire distintamente qualcosa,
suoni che non arrivavano più confusi e ovattati. Con la
sospensione di una impossibile speranza, con pazienza e
sgomento, egli credette di avvertire, e avvertì davvero,
echi meno lontani della vita domestica.
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