Autore Luca Morganti
CoautoreLuciano Canfora, Michel Melot, Marco Muscogiuri, Renata Codello, Antonella Agnoli, Maurizio Vivarelli, Laura Rossi, Gabriella Lorenzi
Titolo Lo spazio del libro
EdizioneAIEP, Serravalle, 2013 , pag. 254, ill., cop.fle., dim. 10,5x18x1,8 cm , Isbn 978-88-6086-092-7
CuratoreLuca Morganti
LettoreRenato di Stefano, 2014
Classe libri , architettura , musei , storia sociale









 

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Indice


INTRODUZIONE                                               5


PARTE PRIMA - I Luoghi e la storia

Luciano Canfora
PER UNA STORIA DELLE BIBLIOTECHE                          13

Michel Melot
L'EVOLUZIONE DELL'ARCHITETTURA DELLE BIBLIOTECHE          37

Marco Muscogiuri
LA RAPPRESENTAZIONE DEL SAPERE: EVOLUZIONI E INVARIANTI
TIPOLOGICHE NEL DISEGNO DELL'ARCHITETTURA BIBLIOTECARIA   65


PARTE SECONDA - Biblioteca, architettura e città

Renata Codello
I RIFUGI DELL'ANIMA                                      111

Antonella Agnoli
IL FUTURO DELLE BIBLIOTECHE                              119

Maurizio Vivarelli
COSTRUIRE E ABITARE LA BIBLIOTECA.
LEGGERE LO SPAZIO BIBLIOTECARIO                          137

Luca Morganti
LO SPAZIO DEL LIBRO                                      163


PARTE TERZA - Esperienze a confronto

Laura Rossi
PER UN'ANALISI DELLA REALTÀ BIBLIOTECARIA SAMMARINESE    215

Gabriella Lorenzi
IA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA                              229


Gli Autori                                               241


 

 

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Pagina 13

Luciano Canfora

Per una storia delle biblioteche


[...]

Con il tema delle confische ho pensato di poter entrare nel merito della nascita della biblioteca moderna, che forse è il tema che ci interessa di più prima di fare il salto all'indietro fino all'antichità, di cui ho promesso che parlerò. L'atto di nascita della biblioteca moderna non è facile da stabilire. Come sempre succede, ci sono aspirazioni per così dire sciovinistiche e patriottiche, però alcune date, alcuni fatti storici, si possono indicare e vedrete come essi siano problematici.

Un'opinione abbastanza diffusa sostiene che la prima biblioteca moderna aperta ad un pubblico non di chierici fu quella del Collegio delle Quattro Nazioni del Cardinale Mazzarino, non in quanto Cardinale ma in quanto Ministro del Re di Francia. Effettivamente la biblioteca del Cardinale Mazzarino fu una biblioteca moderna creata con l'aiuto di grandi bibliotecari che disegnarono addirittura lo schema, che noi sostanzialmente abbiamo ereditato, della partizione delle discipline: storia, teologia, filosofia etc. - corrispondente addirittura a degli armadi in una struttura aperta. Questo Collège des Quatre-Nations oggi si trova dentro la sede dell' Institut de France. Verso la metà del '600 la biblioteca fu aggredita e dispersa in occasione di ciò che potremmo definire una prima rivoluzione, quella della Fronda. La Fronda contro il giovanissimo Luigi XIV, ancora infante e quindi sotto la tutela della madre e del Cardinale Mazzarino, fu una rivolta nobiliare contro la Monarchia - i parlamenti contro la monarchia centralizzatrice - e Mazzarino, che dovette fuggire da Parigi insieme al giovanissimo Re fanciullo, fu costretto ad abbandonare questa biblioteca la quale fu dispersa per colpirlo in quello che era un elemento distintivo del suo potere. Tornato al potere, il Cardinale cercò non solo di punire tutti coloro che avevano osato tanto, ma anche di ricostruire questo patrimonio.

Ma in Francia si contrappone a questa teoria del primato di Mazzarino il primato della Biblioteca della Cattedrale di Rouen. Curioso potrebbe essere chiedersi: come mai la Cattedrale? Essa aveva un ruolo pubblico speciale: oltre a possedere una struttura libraria di conservazione aperta al pubblico, era contemporaneamente mercato librario. Infatti nella Cattedrale, la cui architettura è rimasta invariata, ancora oggi c'è una grande corte dove tutti i librai della Normandia portavano la loro merce. Uno dei motivi di rivalità verso Parigi è sempre consistito nel fatto che Rouen viene prima della Biblioteca del Mazzarino. Ma siamo nello stesso arco di tempo, dieci o vent'anni prima. Contemporaneamente in Inghilterra, in concomitanza con il lungo governo di Cromwell, c'è il potenziamento della Biblioteca di Oxford, e siamo ad una terza nascita della biblioteca moderna. Un quarto aspirante potrebbe essere il Cardinale Borromeo per aver dato vita alla Biblioteca Ambrosiana, anch'essa considerata una delle prime, addirittura forse la prima biblioteca pubblica in epoca moderna. Non ho menzionato la Biblioteca del Papa, che nasce molto prima, ma dovrei per lo meno dire che, a cavallo tra la fine del '500 e l'inizio del '600, Sisto V ridà nuova forma alla struttura materiale della Biblioteca del Vaticano, creando il famoso Salone Sistino che era la sede della biblioteca, non quella dove poi storicamente si è sistemata. Il salone è rimasto uno splendido salone di rappresentanza affrescato in funzione della biblioteca che conteneva.

Rispetto a questi primordi c'è però una svolta storica che segna la storia dell'Europa, e non soltanto la storia del Paese in cui quel fenomeno si produsse: la Rivoluzione francese. La Rivoluzione è ritenuta, giustamente a mio giudizio, il fenomeno creatore della biblioteca in senso moderno, della biblioteca cioè che ha come destinatari i cittadini tutti. Essa nasce da un processo violento, cosa forse inevitabile, che si sviluppa man mano nei primi mesi su due linee parallele: l'assalto ai castelli medievali e l'assalto ai beni ecclesiastici. Le confische dei beni ecclesiastici e dei beni nobiliari investono ogni genere di bene, naturalmente non soltanto le grandi collezioni librarie. Il fenomeno è stato ampiamente studiato. Gli apologeti della Rivoluzione, del suo impatto storico fondamentale, insistono molto sul fatto che il bilancio fu soprattutto positivo. I detrattori, che non sono pochi, additano invece due robusti fattori negativi: uno è l'accentramento l'altro è la dispersione. Come spesso succede, hanno ragione entrambi, nel senso che non c'è fatto forse più grande di quello che si produsse in quegli anni in tutta la storia del nostro continente ed oltre. È anche vero che fatti di quel genere non sono indolori. Nacquero subito dei problemi materiali. L'idea di base era portare alla Nazione - la parola Nation nella Rivoluzione ha una importanza enorme, molto più che Repubblica, molto più che Libertà, molto più che Democrazia che è parola rarissima nel vocabolario di quegli anni, la Nation vuol dire tutti i cittadini, la totalità del corpo civico - la cultura nascosta dentro a queste realtà antiche, consolidate, che sono quella ecclesiastica e quella politica. Il processo è vastissimo per quel che riguarda i beni ecclesiastici, basti pensare che accanto al fenomeno che qui ci interessa dei libri c'è il fenomeno più generale della creazione di un clero leale nei confronti della Repubblica. La Costituzione civile del clero è una delle grandissime ferite mai rimarginate. La Francia aveva già una tradizione gallicana, cioè di chiesa nazionale, tollerata ma con disagio da Roma soprattutto per evitare uno scisma francese dopo la Riforma, dopo la crisi dello scisma luterano. Però la posizione della chiesa gallicana è una posizione sui generis, posizione ai limiti della chiesa nazionale strictu sensu. La Costituzione civile del clero, ovvero un ordinamento che fa dei preti dei funzionari leali nei confronti dello Stato, prima della monarchia costituzionale e poi della Repubblica, approfondisce radicalmente il baratro, crea di fatto uno scisma che dura tre anni, finché Napoleone non farà una specie di concordato piuttosto diseguale, imponendolo al Papa; esso diventerà un modello per i concordati ottocenteschi. Quindi il rapporto con l'autorità ecclesiastica, che era una realtà enorme, ramificatissima, ricchissima, si gioca su molti piani, non soltanto ripeto su quello dei libri, ma anche su quello sostanziale che ho appena descritto, che ha delle implicazioni più gravi di carattere dottrinario. È curioso ma sintomatico che l'uomo più significativo del rinnovamento bibliotecario sia stato un prete, l'abate Grégoire, repubblicano, che è giustamente considerato anche l'inventore della scheda bibliografica. Scheda che ora è tanto malvista in favore del mostruoso schermo del computer, scheda, sfogliando la quale ci si accultura, dice Armando Petrucci. Le schede venivano legate con delle cordicelle, poi nacque l'idea del cassetto. L'abate Grégoire è anche - e questo non è casuale - lo studioso di un fenomeno che di solito rimane in ombra: la non conoscenza del francese da parte dei francesi. Egli studia la prevalenza del dialetto, dei dialetti nelle varie parti della Francia e la limitata porzione della popolazione francese in grado di scrivere e quindi dominare pienamente la lingua. Egli constata un'alfabetizzazione ridottissima. L'abate Grégoire ha scritto, in concomitanza con il suo straordinario impegno sul terreno bibliotecario, dei saggi fondamentali proprio sulla difficoltà di alfabetizzare veramente i francesi.

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Pagina 28

Credo di aver chiarito per incidens il nesso che nella Rivoluzione è chiarissimo fra alfabetizzazione di massa e creazione della biblioteca moderna. Le due cose vanno insieme e il fenomeno si ripete. Se pensiamo alla Rivoluzione Russa, analogamente alfabetizzazione di massa e la creazione di immense biblioteche sono processi intrinseci.

Quanto questo discende da un modello remoto? Nell'antichità l'alfabetizzazione è un programma utopico. Se parliamo di utopie antiche, parliamo di testi che ci raccontano e ci prospettano ipotesi utopiche: da quelle grandiose della Repubblica di Platone a quelle meno note della Legislazione di Catania, di Caronda, mitico legislatore al quale si attribuisce un tipo di ordinamento che è in realtà un programma utopistico proiettato nel passato. Come spesso succede nel mondo antico, si racconta che una cosa esisteva tanto tempo prima per poter dire: «noi vorremmo quella cosa lì». Questo nel caso di Caronda è chiarissimo. Ma anche nelle famose Isole del sole di Giambulo, che è un racconto romanzesco che si trova nella Biblioteca Storica di Diodoro di Sicilia, si descrive una realtà che non è mai esistita per tratteggiare l'ipotesi di società ideale. Queste due cose sono così legate appunto perché il modo in cui l'utopia antica si esprime è spesso di tipo narrativo e quindi il lettore deve stare attento a non confondersi, come lo stesso Diodoro fece - pensò che veramente quelle isole avessero quegli ordinamenti, quelle persone, perché nelle sue fonti leggeva questa descrizione - col carattere romanzesco. Nell'una e nell'altra l'alfabetizzazione è un obiettivo di governo, anche nei Nomoi di Platone in realtà c'è questa idea però con una limitazione: ridurre al minimo indispensabile l'estensione dell'alfabetizzazione. Nelle Isole del sole invece c'è un eccesso in questo senso, addirittura c'è un programma teorico di semplificazione dell'alfabeto affinché esso diventi di grande e facile uso e diffusione. Sono solo sette le lettere alfabetiche nelle «Isole del sole», ogni lettera ha quattro valori diversi, quindi chi impara quelle sette lettere praticamente domina l'intero alfabeto. Una cosa che ha dei lati palesemente romanzeschi, come per esempio il fatto che questi abitanti delle «Isole del sole» hanno una lingua divisa in due, biforcuta si potrebbe dire, per parlare contemporaneamente con varie persone in varie lingue. L'idea della polilalia, l'idea del dominio dell'alfabeto stanno dentro questo programma. Ci sono anche dati un po' inquietanti. Gli abitanti delle «Isole del sole» sono longevi, per cui quando arrivano verso i 150 anni si decide concordemente di invitarli a morire e loro vanno a suicidarsi perché altrimenti sarebbero talmente tanti che le isole non basterebbero a contenerli. Ci sono poi lati eugenetici, il fatto che chi nasce malformato viene immediatamente sacrificato. Le utopie sono spesso un po' pericolose quando vogliono mettere in ordine tutto. In questo caso c'è una simbiosi di utopismo alfabetico, alfabetizzazione ed eugenetica, due cose che non dovrebbero coniugarsi.

Qual era la realtà invece della città antica? La realtà della città antica ci è nota male. Mentre sul dottor Prunel sappiamo tutto e anche sull'abate di Saint-Léger, su che cosa realmente accadesse in una città come Atene nel V secolo a.C. siamo invece meno informati. Perché? Per una ragione alla fine ovvia: gli studiosi che fanno il mio mestiere vivono in un'ottica sbagliata di fronte a questo problema, perché si occupano essenzialmente di testi che parlano di altri testi e quindi immaginano una realtà antica tutta libraria. È una visione del tutto erronea. L'errore di prospettiva nasce dal fatto che quel che ci resta, accanto ai monumenti, sono dei libri, non più le persone, come diceva Guicciardini: «ci manca la notizia». Non sappiamo davvero quanto numerosa fosse la popolazione, l'estensione del territorio, il perimetro delle città, tutte notizie fondamentali che non abbiamo. Quindi l'idea che possediamo è filtrata dai libri, noi pensiamo ad un mondo di libri. Nulla di più erroneo. L'immagine ottocentesca dei grandi studiosi è deviante. Più concreta è invece l'immagine di studiosi dilettanti come Tocqueville, un sociologo, un politologo potremmo dire, che va in America e vedendo un mondo grande e terribile che non gli piaceva per niente dice: prima o poi diventeremo come loro, quindi cominciamo ad attrezzarci. Nel suo libro La Democrazia in America inserisce un capitolo in cui dice com'era secondo lui l'antichità. Egli dice che l'antichità era l'esatto contrario di quanto si credeva: pochi libri, pochi detentori del diritto di cittadinanza, cultura elitaria e perciò riservata a pochi veri fruitori, ma per ciò stesso raffinata formalmente. Per questo egli dice che nelle società moderne ci vuole un po' di greco e di latino, perché è un antidoto alla banalizzazione indotta dalla civiltà di massa. Buona o cattiva che sia, questa teoria fu da lui completata anche con il suggerimento di fare pochissimi licei classici, perché producono spostati, e un sacco di scuole tecniche che servono alla produzione, altrimenti i paesi vanno in rovina. Tracciando questo quadro si riserva il piacere di descrivere la città antica come la vede lui. E la vede benissimo, cioè capisce quello che noi non sempre vediamo: libri di pochi per pochi. Quindi noi e i nostri colleghi moderni ci affanniamo per recuperare la dimensione vera di quella realtà cercando tracce, di che cosa? Della circolazione libraria e delle strutture bibliotecarie e non le troviamo.

Uno spirito mordace come Aristofane, sicuro di suscitare ilarità nel pubblico, prende in giro Euripide perché possiede qualche libro. La situazione comica portata sulla scena allude ad un preciso significato, il fatto cioè che il libro è un oggetto anomalo. Negli Uccelli Aristofane fa dire ad un personaggio: «ho portato un decotto di libri», e un altro risponde: «fuori di qui, malaugurata presenza il decotto di libri». Il libro è visto come una cosa disturbante. Euripide effettivamente aveva una raccolta di libri, ma Aristofane stesso l'aveva, sennò non poteva scrivere una commedia come Le Rane in cui prendeva in giro le tragedie più controverse di questo grande drammaturgo. Si trattava di una circolazione d'élite, si copiavano singole copie. Per esempio Platone vuole la raccolta dei poemi di Antimaco e chiede se qualcuno possa andare a Lampsaco a prenderli e portarli. Quindi si ha l'idea che attorno a Platone ci sono pochi libri. C'è una specie di struttura scolastica, l'Accademia dove Platone ha insegnato per tanti anni e dove Aristotele è stato per vent'anni suo ascoltatore. È proprio Aristotele, che non è ateniese ma macedone, figlio di un medico del Re di Macedonia, che comincia una raccolta sistematica dei libri, ma anche di una sorta di museo di storia naturale. C'è una notizia famosa di Plinio, penso veridica, in cui si racconta che Aristotele, maestro di Alessandro Magno, gli raccomanda di far raccogliere tutti i pesci, gli uccelli e gli animali degni di nota, incontrati durante le immense campagne condotte dai suoi eserciti. Affinché potessero essere raccolti e portati dentro la struttura libraria, museale del Liceo. Questo è il modello di quelle che saranno le grandi biblioteche regali delle monarchie ellenistiche. Le quali però - come al chiuso della scuola di Aristotele si forma la raccolta da fruire all'interno della scuola - sono biblioteche chiuse, biblioteche del sovrano. Così come quella bellissima di Alessandria che è il modello di tutte le altre. Eppure i Tolomei - questo è un segno interessante da sottolineare - creano una biblioteca minore, nel tempio di Serapide, per gli esterni, per non scienziati che sono gli unici che possono stare dentro il Museo e dentro il palazzo reale.

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Marco Muscogiuri

La rappresentazione del sapere: evoluzioni e invarianti tipologiche nel disegno dell'architettura bibliotecaria


Nella storia dell'architettura le biblioteche sono, assieme alle case di abitazione e ai luoghi di culto, tra le più antiche tipologie edilizie, intendendo il termine «tipologia» dal punto di vista funzionale e della destinazione d'uso, e non morfologico, come meglio si dirà a seguire.

Da sempre la biblioteca si pone come concreta e possente rappresentazione del Sapere, documento e narrazione della comunità che la realizza, e di cui interpreta la memoria e le ambizioni, il passato e il futuro: dalle biblioteche più antiche (quella di Ninive o di Alessandria), annesse al tempio o al palazzo, alle biblioteche di epoca romana imperiale, che assumono una propria autonomia architettonica e divengono anche luoghi di ritrovo per gli eruditi; dalle biblioteche monastiche medioevali, inserite nelle abbazie e dotate di scriptorium e bibliotheca, a quelle rinascimentali, che rielaborano la tipologia ad aula di matrice chiesastica (dalla Marciana di Michelozzo alla Laurenziana di Michelangelo); dalle grandi biblioteche europee, che fanno del libro il principale «ornamento» architettonico, perfezionando il wall-system delle sale «tappezzate di libri» (dall'Escorial di Madrid fino all'Ambrosiana di Milano), allo splendore delle biblioteche monastiche tardobarocche mitteleuropee; dalle biblioteche universitarie alle grandi nazionali ottocentesche; dalle Carnagie Libraries statunitensi alle centinaia di biblioteche di ogni dimensione costruite nel Novecento in tutta Europa. «Fondare biblioteche», fa dire Marguerite Yourcenar all'imperatore Adriano , «è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire».

Negli ultimi quattro secoli, e soprattutto dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, le biblioteche sono diventate capisaldi urbani e spazi pubblici per antonomasia, infrastrutture sociali e culturali per eccellenza, rappresentative nella loro architettura della potenza delle città e delle nazioni che le hanno costruite.

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Pagina 119

Antonella Agnoli

Il futuro delle biblioteche


Il mio intervento dovrebbe spiegare che in futuro forse avremo sempre meno bisogno di biblioteche piene di begli scaffali e tavoli massicci e sempre più di «piazze del sapere».

Ma la diffusione degli e-book fa si che forse a salvarsi saranno proprio le biblioteche di conservazione, che di necessità sopravviveranno anche ad una eventuale fine del libro cartaceo (perché resterebbero pur sempre da salvare tutti quelli pubblicati da Gutenberg in poi). Forse si trasformeranno in musei del sapere con tutti i libri consultabili e reperibili on line, ma continueranno pur sempre ad esistere.

Più vulnerabili sembrano essere le biblioteche di pubblica lettura nate nel XIX secolo, soprattutto nei paesi di tradizione protestante in una strategia complementare all'istruzione scolastica. Public libraries concepite come luoghi necessari per la costruzione dello stato nazionale e della democrazia e per l'alfabetizzazione e l'integrazione culturale delle classi popolari. Purtroppo in Italia questi istituti della democrazia non sono mai diventati un servizio indispensabile, sono sempre rimasti un optional affidato alla buona volontà e alla lungimiranza di singole amministrazioni locali.

L'umanesimo italiano ci aveva dato le biblioteche già 500 anni fa ma queste non sono mai diventate parte di una strategia coerente e di un investimento culturale condiviso. Solo a partire dal 1972, con il trasferimento alle regioni della competenza sulle biblioteche, si cominciano a fare le prime leggi e a sviluppare (in modo molto disomogeneo tra Nord e Sud) una rete di biblioteche di pubblica lettura dipendenti dagli enti locali.

Queste scelte (o piuttosto non-scelte) hanno permesso di salvaguardare un patrimonio culturale prezioso ma hanno avuto effetti molto negativi sulla promozione della lettura, che da noi è particolarmente negletta.

Le nostre classi dirigenti hanno sempre pensato che la biblioteca fosse un deposito di libri necessario per il prestigio della città ma irrilevante ai fini pratici: gli intellettuali italiani hanno sempre preferito tenere i libri a casa propria, mentre gli intellettuali americani, inglesi, olandesi o tedeschi non hanno libri in casa, se non quelli a cui tengono particolarmente: i classici, o i libri da usare per le proprie ricerche, si trovano nelle biblioteche universitarie e pubbliche.

Non da oggi la biblioteca pubblica si interroga sul proprio futuro, fin dagli anni Settanta ci siamo chiesti se la televisione, il cinema, la frequentazione di massa di avvenimenti sportivi non rendessero la lettura un passatempo obsoleto, uno sfizio per élite ristrette, un obbligo solo per studiosi che avrebbero potuto soddisfare i loro bisogni nelle biblioteche universitarie, o addirittura in quelle personali.

Se escludiamo i paesi protestanti, che hanno una tradizione di pubblica lettura del tutto differente dalla nostra e non sono quindi un punto di riferimento corretto per il nostro ragionamento, le nazioni dove si è risposto in modo più ambizioso a questo interrogativo sono state la Spagna, dove i primi governi democratici hanno investito molto sulla scuola e la cultura, lanciando vasti programmi di costruzione di biblioteche e piani di promozione della lettura già nella seconda metà degli anni Settanta, la Francia, dove, durante il primo mandato di François Mitterrand, il ministro della Cultura Jack Lang varò un ambizioso piano di espansione e rinnovamento delle biblioteche, spesso ribattezzate «mediateche» e, infine, il Portogallo durante il governo Soares. Essi intendevano affrontare la «crisi» della non-lettura in tre modi. La prima scelta fu l'ampliamento degli spazi: per attirare nuovi utenti, il piano Lang puntava sulla politica dei grandi edifici, moderni e spettacolari, che si impongono nel tessuto urbano per la loro centralità, la loro opulenza, la loro gratuità (con rare eccezioni per strutture governative, o musei, i soli grandi edifici prodotti nella seconda metà del XX secolo sono i grattacieli per uffici, gli ipermercati e gli stadi, tutti luoghi commerciali).

La seconda azione fu l'ampliamento dei pubblici: fino a ieri monopolio di professori e studenti, le biblioteche dovevano diventare un luogo interessante per la casalinga, il pensionato, il turista, al limite il clochard che vi trovava un ambiente riscaldato.

La terza risposta fu l'ampliamento dei materiali: il libro non era più l'unico supporto su cui trasmettere conoscenze e si proponevano giornali, riviste, dischi; più tardi, film (in cassetta o dvd), cd musicali, televisioni satellitari e, infine, internet, per arrivare oggi agli ebook o ai videogiochi.

Queste tre scelte - articolate localmente in vari modi - hanno dominato il panorama bibliotecario per alcuni decenni.

Possiamo tranquillamente affermare che i principi di fondo: nuove sedi (spesso affidate a grandi architetti come Toyo Ito, Botta, Koolhaas, Meyer e tanti altri), nuove collezioni e tentativo di attirare nuovi clienti sono stati alla base dell'apertura di nuove biblioteche un po' dovunque: da Phoenix a Vienna, da Marsiglia a Barcellona, da Amsterdam a Bologna, da Malmö a Seattle, da Montreal a Sendai.

Il quarto elemento, i nuovi layout, merita una sosta perché è in fondo la caratteristica comune a tutte le biblioteche recenti: anche nella struttura dell'edificio le nuove biblioteche sono diventate più simili ai grandi magazzini, considerati ancora un punto di riferimento utile benché siano una forma di organizzazione ottocentesca.

Il self-service nasce come tecnica di vendita che dà la possibilità ai clienti di entrare senza necessariamente rivolgersi al personale e senza l'obbligo di acquistare qualcosa: si prende quello che si vuole e si paga all'uscita. Nelle biblioteche pubbliche, lo scaffale aperto e tecniche di presentazione più «facili» obbediscono alla stessa logica: l'utente può entrare, cercare da solo quello che gli serve, passare dal bancone del prestito e andarsene, il tutto, se ha fretta, in pochi minuti.

La biblioteca è un luogo dove affluiscono persone con risorse culturali molto diverse: fare in modo che queste risorse vengano almeno parzialmente condivise è una forma di welfare di nuovo tipo, un tentativo di autorganizzazione della società sempre più necessario. Questo nuovo welfare si deve porre due obiettivi: uno è l'emergenza, l'aiuto ai cittadini in difficoltà attraverso la messa in comune di risorse culturali e partecipative, l'altro è l'obiettivo di lungo periodo di costruire una cittadinanza informata e competente.

La flessione dei cosiddetti «lettori forti», cioè dei cittadini italiani che leggono almeno un libro al mese ci deve far riflettere sulla seconda ragione per cui le biblioteche sono oggi essenziali: nella crisi i consumi culturali regrediscono e la debolezza del mercato editoriale italiano è troppo nota per soffermarcisi. Oggi, offrire la possibilità di prendere a prestito un libro da 15 curo significa in molti casi permettere a qualcuno di avere accesso a un'opera dalla quale resterebbe altrimenti escluso.

Oggi l'impoverimento economico porta con sé anche isolamento sociale (ci si vergogna di non poter più fare molte delle cose che si facevano prima, se si perde il lavoro si perdono anche gli amici) e impoverimento culturale (non si va al cinema, non si comprano libri, non si leggono giornali). Tutto questo provoca un chiudersi in se stessi pericolosissimo, e proprio per questo abbiamo più che mai bisogno di luoghi di incontro, dove stare insieme ma soprattutto fare delle cose insieme, dove sentirci meno soli, meno vulnerabili. Da questo punto di vista le biblioteche possono diventare luoghi di coesione dove si fanno esperienze comuni: questa dev'essere la dimensione nuova delle loro azioni sul territorio. Luoghi di trasmissione e produzione del sapere, ma anche luoghi capaci di essere traît-d'union con altre istituzioni culturali, di dare voce a gruppi e associazioni, di stimolare l'azione collettiva.

Infine, dopo essersi costruita «dentro», la biblioteca dovrà uscire dalle sue mura per andare lì dove la gente si incontra: al mercato, in piscina, in spiaggia o nei casermoni delle periferie, così come fanno molti colleghi stranieri. Soprattutto, dovrà andare dove vivono le persone con vari impedimenti (ospedali, carceri, caserme, case di riposo, appartamenti di portatori di handicap o anziani immobilizzati). Può sembrare paradossale l'idea di «uscire» quando si è tanto lavorato per creare un luogo che accolga tutti al meglio, ma è una sfida a cui non ci si può sottrarre. Occorre trasformare il modo tradizionale di lavorare, puntando su volontari, associazioni, singoli cittadini con i quali organizzare club di lettura e azioni sul territorio come le notti in biblioteca o le letture in spiaggia. Cittadini che verranno coinvolti nella progettazione, comunicazione, gestione, esecuzione dell'azione culturale. Insomma, il futuro sta nel fare della biblioteca pubblica una città e della città una biblioteca.

Una biblioteca di questo tipo è molto più complessa da progettare perché richiede di essere pensata per accogliere ed ospitare pubblici differenti: piccoli e grandi, lettori di libri di carta e consumatori di videogiochi, italiani e stranieri, studenti e bebè. Dovrà essere un luogo facile, bello, accogliente, stimolante, deve poter funzionare in modo differente a seconda delle diverse ore della giornata, condividere gli spazi con altri servizi informativi (es. informagiovani, informacittà), altri servizi culturali (es. cinema, teatro, museo), servizi commerciali (es. caffè, ristorante).

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Ma dove va la biblioteca pubblica?

Per capire dove va o dove dovrebbe andare la public library in Italia dobbiamo riflettere sul contesto in cui si trova ad operare. Siamo un paese sempre più ignorante, con un numero crescente di analfabeti funzionali, persone che sanno riconoscere i caratteri a stampa ma di fatto non riescono a seguire un discorso sulla pagina scritta, capire un articolo di giornale o una bolletta telefonica, in cui pochi leggono e molti guardano la televisione, con quasi metà della popolazione non ancora connessa ad internet, una crescente dispersione scolastica, ed una svalutazione da parte della politica della cultura e dello studio come ascensore sociale.

Che ruolo possono avere le biblioteche in tutto questo? Le biblioteche possono essere un'ancora di salvezza, non perché abbiano virtù taumaturgiche ma perché esse sono uno spazio comune, dove anche chi è stato emarginato dalla scuola può scoprire un libro, un giornale, un sito web che ridia speranza o almeno susciti interesse. Questo presuppone che le biblioteche possiedano un numero adeguato di computer collegati alla rete e permettano agli utenti di usarli per un tempo ragionevole senza pagare e che le biblioteche siano luoghi di scoperta, di possibilità, cioè che siano ben concepite e ben gestite.

La biblioteca deve mostrare la sua indispensabilità come risorsa a disposizione della comunità: per farlo deve essere risorsa «aperta», non autoreferenziale o gestita nel modo gerarchico e burocratico tipico del settore pubblico italiano.

La biblioteca è uno spazio flessibile e neutrale, quindi un luogo accogliente, dove domande di cultura e risorse di cultura possono incontrarsi, dove le domande sociali possono trovare le competenze necessarie per realizzarsi. Non esistono altre istituzioni che possano accogliere tutti i ceti sociali, tutte le età, tutte le nazionalità. In questo sta la superiorità della biblioteca civica rispetto ai musei, alle librerie, ai festival, alle scuole: essa è un luogo dove si incontrano italiani e immigrati, studenti e professori, casalinghe e pensionati. Ha vocazione a ricevere tutti su basi di uguaglianza e a rendersi utile a tutti. A parità di spesa per abitante, l'utilità della biblioteca è infinitamente superiore a quella del museo o di altre istituzioni perché è un servizio universale, come il pronto soccorso.

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